Tsunami nel Vajont
9 ottobre 1963
vittime: oltre 2000 persone
"C'è un paesino, poco distante da Cortina, di nome
Longarone: qui alla fine degli anni '50 un gruppo di ingegneri civili non si
curò delle leggi italiane - a dire il vero poche, all'epoca - e del comune buon
senso che dovrebbe essere proprio di ogni essere umano raziocinante. E il tutto
per una diga.
E neanche una diga normale: una a doppio arco alta 202
metri nel progetto originario e in grado di portare alle sue spalle un lago
artificiale di 58 milioni di metri cubi di acqua, tanti quanti la somma degli
altri sette laghi artificiali presenti all'epoca nelle Dolomiti. Una diga come
mai se ne erano viste fino ad allora.
I prodi ingegneri decidono da soli di apportare una
cosiddetta "variante in corso d'opera", aumentando di altri 59, 60 metri
l'altezza totale del "mostro". Il lago diventa quindi di 158 milioni di metri
cubi d'acqua, contenuto da una diga alta 261,60 metri.
La diga più grande del mondo.
Non entro nel merito degli sbagli fatte dalla lobby di
ingegneri e costruttori; non entro nelle connivenze politiche che portarono un
ministro della Repubblica - Benigno Zaccagnini - a dire che l'impresa
costruttrice era "uno Stato nello Stato" usando una frase divenuta storica ben 6
anni prima di Piazza Fontana. Dico solo che quando le tardive perizie
diventavano scomode, venivano fatte sparire e al Ministero dei Lavori Pubblici
venivano spedite relazioni di trent'anni prima.
Per tutto questo c'è stato un processo. Ci sono state delle
condanne. Qualcuno dei responsabili nel frattempo si è pure messo la canna di
una pistola in bocca, coniglietto fino alla fine.
Il 9 ottobre del 1963, alle ore 22:34 dopo roboanti e
inascoltati "preavvisi" dati dalla montagna per mesi interi, una gigantesca
frana stimata sull'ordine dei 250 milioni di metri cubi di roccia si stacca dal
monte Toc, piomba nel lago e crea uno tsunami che cancella dalla faccia della
terra Longarone, Castellavazzo, Faè, Rivalta, Codissago, e danneggia altre
frazioni lungo tutta la valle del Piave.
Più di 2000 i morti accertati; un numero imprecisato di
dispersi.
Ore 00:15: presso la caserma "Ilardi" suona la sirena
d'allarme. All'incredulità iniziale subentra subito la professionalità dei
militari. Ognuno sa quello che deve fare. Nel giro di 20 minuti le squadre di
pronto impiego sono già inquadrate in cortile, pronte a ricevere ordini; gli
Ufficiali vengono riuniti in Sala Comando. Scendono dai loro uomini con uno
sguardo incredulo dipinto sul volto: "Tosi, xe cascà 'na diga!" in
stretto dialetto tra militari la cui gran parte sono veneti e friulani.
Moschetti e manganelli vengono rapidamente sostituiti da
stivaloni, guanti da lavoro, tende da campo, fotoelettriche, radio
ricetrasmittenti, pale, picconi e tanta buona volontà.
Alle 01:10 è già pronta una prima autocolonna di 4 camion,
7 gipponi OM-CL e 8 jeep Willis. A bordo, sulle panche di legno dei Fiat 624N,
militari e materiale in una scomoda commistione di uomini e mezzi. Ore 01:45: si
parte. Nessuno sa niente, non si sa cosa si troverà salendo verso Longarone.
Padova cede subito il passo alla campagna veneziana, trevigiana e bellunese. A
Susegana, valicando il ponte sul Piave, con orrore ci si accorge che l'acqua
nera sta lambendo le arcate trascinando giù di tutto. E' un flash: i mezzi
attraversano rapidamente il ponte senza fermarsi.
A Ponte della Priula il traffico veicolare, già scarso,
diventa inesistente.
Il silenzio, rotto solo dalle "scalate" delle marce dei
camion, ti si appiccica addosso come melassa. Si inizia la salita del Fadalto e
lungo la "Cavallera" l'aria sembra addirittura più umida. Al bivio del lago di
Santa Croce la "Celere" incontra un mezzo della "Stradale" che ha costituito un
posto di blocco. Nessuno sale, nessuno scende.
"Brigadiè, che succede?"
"Comandi, signor capitano! Non sappiamo nulla, pare si sia
rotta una condotta della diga del Vajont ma a Longarone i telefoni sono fuori
uso".
L'autocolonna prosegue lungo strade sempre più strette. Al
buio. Solo adesso ci si accorge che l'illuminazione pubblica è spenta. Gli
autisti dei mezzi devono improvvisamente azionare le spazzole dei
tergicristalli.
"Ma piove?"
"Boh, chi ci capisce qualcosa? In cielo si vedono le
stelle..."
Poco dopo il convoglio incappa in un'altra autocolonna.
Sono pochi mezzi di colore rosso: Vigili del Fuoco di Belluno. Non si passa. La
strada - già stretta e tortuosa - è invasa da oggetti di qualsiasi tipo:
comodini, sedie, una Lancia Aurelia capovolta, sassi grandi come lavatrici....
"Compagnia, scendere dai mezzi!"
La voce stentorea del capitano risuona metallica e
stridente in un silenzio che fa paura.
Gli uomini vengono disciplinatamente incolonnati per due,
ciascuno con la sua dose di materiale sulle spalle. Le lampade Jodolux
illuminano i primi passi dei Poliziotti tra macerie e detriti. Ad un certo
momento la strada improvvisamente finisce, come mangiata da un avido Golem di
fango: bisogna procedere salendo lungo i binari del treno, dentro gallerie dove
il buio è addiritura soffocante. All'uscita dell'ultima galleria i binari da
paralleli sono stati sollevati verso il cielo e contorti dalla forza di mille
fabbri, la fucina del demonio. Giù dal dirupo, dove prima sorgeva Longarone, le
fotoelettriche illuminano un paesaggio lunare: un torbido "caffelatte" di fango
ha abbattuto, spianato, livellato e cancellato ogni forma di vita.
La fotoelettrica fruga l'inferno fino a dove riesce. Poi il
primo grido: "AIUTO!!!". E' il grido di una donna in cui ogni guardia riconosce
la voce della propria moglie, della propria madre, della propria figlia. Basta a
rompere l'imbambolamento che aveva avvolto i militari. A rotta di collo scendono
in quel girone infernale. Tutto il resto è storia.
Il 2° Reparto Celere Guardie di P.S. di Padova fu il primo
a giungere sul posto, subito raggiunto dalla 5° Brigata Alpina di Belluno. Non è
con vanagloria che lo scrivo: non ci può essere vanto o senso del primato di
fronte ad una tragedia di simili proporzioni. C'è però la convinzione che, in
un'epoca in cui il moderno concetto di Protezione Civile era ancora lontano
dall'essere concepito, i nostri Poliziotti si mossero con un professionismo da
Corpo d'Elite.
Longarone (BL), ottobre 1963: i mezzi del 2° Reparto Celere impegnati nell'attività di soccorso ai superstiti del disastro. |
Un articolo di Gianmarco Calore.
Immagine del paese di Longarone prima e dopo il disastro del 1963. |