Parte III

La grande paura
La nuova separazione
Del buon uso della libertà
Nascita del manicomio

Il cerchio antropologico

Capitolo I

La grande paura

Nel XVIII secolo i rapporti "classici" tra ragione e sragione prendono un aspetto interamente nuovo e la Follia assume, per il mondo moderno, un significato diverso.

Improvvisamente a metà del XVIII secolo sorge una paura: ci si spaventa a causa di un male misterioso che si propaga, si dice, a partire dalle case d’internamento situate al di fuori delle città. Si parla di febbri delle prigioni, si accusano le carrette di condannati e gli uomini incatenati, si attribuiscono allo scorbuto contagi immaginari…La grande immagine dell’orrore medievale s’impone di nuovo: è un male prettamente morale ma, trasformato dalla gente, ricompare come forma di epidemia e contagio; intere città sono minacciate da questa atmosfera carica di "vapori malefici".

Per il momento la soppressione delle case d’internamento non è ancora in questione; si tratta piuttosto di neutralizzarle come cause eventuali di un nuovo male, di riformarle purificandole.

Nell’epoca classica, la coscienza della follia e quella della sragione non erano molto autonome l’una rispetto all’altra, ma nell’inquietudine della seconda metà del XVIII secolo la paura della follia cresce di pari passo con lo spavento provocato dalla sragione; la sragione diventa delirio del cuore, la follia del desiderio.

Questa coscienza ha tuttavia uno stile molto particolare, quella della sragione è molto affettiva e immaginaria mentre quella della follia si accompagna a una certa analisi della modernità che la situa in una cornice temporale, storica e sociale. Questa coscienza storica della follia non si è realizzata di colpo, essa ha reso necessaria l’elaborazione di tutta una serie di concetti nuovi e antichi:

Capitolo II

La nuova separazione

La nuova paura del XVIII secolo non è una vana ossessione: la follia sta di nuovo affiorando, in una presenza confusa, ma che mette chiaramente in dubbio la funzione delle "classiche" case d’internamento.

E’ difficile stabilire con esattezza se il numero dei folli si sia realmente accresciuto nel suddetto secolo in proporzione all’aumento della popolazione o alle misure d’internamento; infatti sembra che la cifra dei folli segua una curva molto particolare caratterizzata da un aumento fino agli anni 1785-1788 e poi da una brusca caduta. Questa diminuzione non vuole dire che i malati di mente stanno pian piano guarendo, ma che si inizia a fare una netta distinzione fra folle, ammalato e criminale e a teorizzare asili esclusivamente destinati agli insensati. Queste nuove strutture assomiglieranno solo in parte a quelle progettate da Pinel e Tuke nel XIX secolo, in quanto non lasciano ancora molto spazio alla medicina il cui ruolo è fondamentale. L’essenziale del movimento che si sta compiendo non consiste dunque in una riforma completa delle istituzioni e del loro spirito, ma nel fatto di aver isolato la follia e di averla resa autonoma nei confronti della sragione.

La sragione quindi diviene sempre più un "potere d’incanto", mentre la follia un vero e proprio oggetto di percezione. Si inizia a parlare di una "percezione asilare" con la quale appaiono nuove definizioni della follia e distinzioni tra folle e folle:

Da questo momento in poi i folli finalmente riescono ad trovare un loro spazio, indipendente e distaccato dal resto della società e dal mondo che prima lo circondava. Questo cambiamento è la prima testimonianza di quel grande movimento di riforma che si concluderà solo cent’anni dopo con la costituzione del primo manicomio; ma prima di analizzare dettagliatamente tutto questo, bisogna capire il movimento con cui la follia si è affacciata nella percezione del XVIII secolo. Se tale secolo fa posto, a poco a poco, alla follia e se ne differenzia per certi aspetti, lo fa non avvicinandoseli, ma allontanandosene: è stato infatti necessario circoscrivere un nuovo spazio, una nuova solitudine in cui la follia potesse riconoscersi e finalmente parlare: essa quindi acquista più importanza ma nello stesso tempo si allontana e si isola dalla realtà quotidiana.

Man mano che si procede nel secolo le proteste contro l’internamento si fanno sempre più vive, la polemica si dirige sulla funzione e l’essenza dell’internamento e soprattutto sulla promiscuità di folli e sani di mente. La presenza dei folli tra i prigionieri non costituisce il limite dell’internamento, ma la sua verità; non ne è l’abuso ma l’essenza. La follia diviene così soggetto e oggetto, immagine e scopo della repressione.

La critica che viene fatta all’internamento dipende anche da un orizzonte economico e sociale, esso diviene il magazzino in cui si tengono in riserva anche gli emigrati che, al momento opportuno, saranno inviati nei territori coloniali. Nello stesso periodo avviene nelle campagne un mutamento nelle strutture agricole: con la scomparsa delle terre comunali tutta una popolazione rurale si trova senza la sua terra e obbligata a condurre la vita dei braccianti agricoli, esposti alle crisi di produzione e alla disoccupazione. Le strade delle città si affollano di mendicanti e poveri, per porre fine a questo pauperismo si ricorre all’internamento, ancora una volta il folle si trova mischiato con persone che non appartengono al suo mondo.

Questa parte di povertà però è necessaria perché non si può sopprimerla internandola, ma anche perché rende possibile la ricchezza: lavorando, e consumando poco, la classe dei bisognosi consente a una nazione di arricchirsi, infatti nell’economia mercantilista il povero, né consumatore né produttore, non aveva posto, mentre con l’industria nascente che ha bisogno di braccia, egli fa parte di nuovo dello stato. Così il nuovo pensiero economico elabora una differente nozione di popolo e povertà:

La Povertà è rarefazione del denaro, situazione economica legata alle condizioni del commercio, dell’agricoltura e dell’industria.

La Popolazione non è un elemento passivo sottoposto alle fluttuazioni della ricchezza ma una forza che fa direttamente parte della situazione economica.

Internare la popolazione sarebbe un controsenso, la si deve invece lasciare nella piena libertà dello spazio sociale; essa si riassorbirà da sola nella misura in cui formerà una manodopera a buon mercato. La LIBERTA’ diviene quindi la sola forma di assistenza valida.

Il XVIII secolo riscopre la distinzione tra "povero valido" e "povero malato", la cui differenza non è solo di grado di miseria, ma di natura del miserabile; il povero che può lavorare è un elemento positivo, il malato, al contrario, è esclusivamente un peso morto nella società. Occorre dunque dissociare, nel concetto di ospitalizzazione, l’elemento positivo dell’indigenza e il fardello della malattia e bisogna che l’assistenza ai poveri prenda un nuovo significato.

L’assistenza deve divenire il primo dei doveri sociali, ma per "dovere sociale" si intende l’obbligo assoluto per la società o per lo stato? Ci fu tutta una polemica a riguardo negli anni che precedettero di poco la Rivoluzione e si arrivò ad affermare che il "dovere sociale" è un dovere dell’uomo in società che l’assistenza non è una struttura dello stato, ma un legame personale da uomo a uomo e che il luogo naturale della guarigione è la famiglia.

"…Così, mentre tutte le altre figure imprigionate tendono a sfuggire all’internamento, la sola follia vi resta e per la prima volta la malattia si trova isolata dalla povertà e dalla miseria.
In queste oscure regioni si è formata lentamente la nozione moderna di follia; non c’è stata una nuova acquisizione di nozioni ma una "scoperta" nella misura in cui, grazie a una distanza presa, pochi anni prima della riforma di Tuke e di Pinel, la lascia apparire alla fine isolata nella grande figura flagrante e rovinosa della sragione" (pag. 353).

Capitolo III

Del buon uso della libertà

Arrivati a questo momento non si sapeva più in quale punto dello spazio sociale situarla: prigione, ospedale o assistenza familiare? I provvedimenti adottati successivamente rispecchiano questa indecisione; ne vediamo ora una serie che porteranno a una sempre più decisiva riforma dell’internamento:

  1. Ridurre quanto più possibile la pratica dell’internamento per quel che riguarda le colpe morali e penali ma conservarla nel suo significato essenziale: rinchiudere esclusivamente i folli.

  2. Trovare una forma di assistenza solo per i folli che sia la più efficace e dolce possibile.

  3. Mandare nelle case d’internamento persone e giudici con lo scopo di interrogare i detenuti e stabilire il loro livello di infermità (non si tratta ancora di controlli medici). Tutti quelli che sono considerati folli saranno liberati e mandati in ospedali riservati a loro. Per molto tempo il pensiero medico e la pratica d’internamento erano rimasti estranei fra loro. Alla fine del XVIII secolo queste due figure si avvicinano.

Se si obbligano i poveri validi a lavorare, se si affidano alle famiglie le cure dei malati, non si può consentire ai pazzi di mescolarsi alla società; tutt’al più si può cercare di mantenerli nello spazio familiare, ma la protezione è in tal caso assicurata solo in parte. La società borghese, mentre si senta innocente davanti alla miseria, riconosce la propria responsabilità davanti alla follia e intuisce che deve proteggerne l’uomo privato. Nell’epoca in cui malattia e povertà diventano per la prima volta "cose private", appartenendo esclusivamente alla sfera degli individui, la follia invece reclama uno "statuto pubblico" e la definizione di uno spazio di confino che garantisca la società dai suoi pericoli.

Bisogna dunque rinchiudere i dementi che le famiglie povere non sono in grado di sorvegliare, ma bisogna anche lasciare loro il beneficio delle cure che potrebbero ricevere sia presso i medici se fossero più ricchi, sia negli ospedali. In alcuni progetti del tempo il raccordo tra l’internamento e le cure non è che di natura temporale, essi si succedono: si cura fin a quando è possibile e subito dopo l'internamento riprende la sua funzione repressiva. In altri progetti, che arriveranno posteriormente, la funzione medica e quella di esclusione si trovano in un’unica struttura. A metà strada fra questi due momenti un passo essenziale è stato fatto da due personaggi importanti: Tenon e Cabanis.

In Tenon si trova ancora la vecchia idea che l’internamento dei folli non debba essere decretato in modo definitivo se non dopo che le cure mediche siano fallite; ma l’internamento non è già più abolizione totale e assoluta della libertà, esso deve essere piuttosto una libertà ristretta e organizzata che permetta alla follia di esprimersi liberamente:

"Il primo rimedio per la guarigione consiste nell’offrire ai folli una certa libertà, in modo che essi possano abbandonarsi misuratamente agli impulsi naturali" (pag. 369).

Il passo essenziale è compiuto: l’internamento è divenuto un luogo di guarigione e solo adesso la medicina può prenderne posto dal momento che l’asilo, d’ora in poi si chiamerà così, assume un valore terapeutico. Queste modificazioni fanno sì che la follia si alteri a sua volta e intrecci rapporti nuovi con questa semilibertà offertale e che faccia corpo necessariamente con questo mondo chiuso che è per essa la sua verità e soggiorno.

Cabanis afferma che il problema della follia non è più considerato dal punto di vista della ragione e dell’ordine, ma del diritto dell’individuo libero:

"Bisogna provvedere alla libertà e alla sicurezza delle persone; esercitando la beneficenza non bisogna violare le regole della giustizia… Quando gli uomini godono pienamente delle loro facoltà razionali nessuno ha il diritto di portare la benché minima insidia alla loro indipendenza."

La scomparsa della libertà, che prima era una conseguenza, ora diventa il fondamento, l’essenza della follia; l’asilo dovrà funzionare come una specie di misura permanente della follia, adeguandosi sempre alla sua mutevole verità, la giustizia che regnerà nell’asilo non sarà più quella della punizione, ma quella della verità: Cabanis infatti arriva alla curiosa idea di un "diario d’asilo" in cui saranno annotati con esattezza il quadro di ogni malattia, gli effetti dei rimedi, i risultati delle autopsie…La follia conquista così alcune regioni della verità che la sragione non aveva mai raggiunto: essa s’inserisce nel tempo e acquista un aspetto autonomo nella storia. Il suo passato e la sua evoluzione fanno parte della sua verità e ciò che la rivela non è più quella rottura sempre istantanea con la verità per cui si riconosceva la sragione.

Capitolo IV

Nascita del manicomio

La fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX hanno visto il compimento del grandissimo movimento di riforma conclusosi con la nascita dell’asilo moderno o manicomio, la conclusione di questo enorme cambiamento ha visto come protagonisti Tuke e Pinel.

Tuke è un quacchero, un socio di una di quelle innumerevoli "Società di Amici" sviluppatesi in Inghilterra alla fine del XVII secolo. Essi organizzano gruppi di assicurazione e società di soccorso, chiamate "ritiri" in cui si inserisce il malato in una dialettica semplice della natura e lo si mantiene nel mito della famiglia patriarcale. Essi vogliono essere una grande comunità nella quale i malati saranno i bambini della famiglia nella sua idealità primitiva; nel ritiro il gruppo umano è ricondotto alle sue forme originarie e più semplici, si tratta di riportare l’uomo ai rapporti sociali elementari e assolutamente conformi all’origine e questo grazie anche alla religione. Tuke e gli altri ricostruiscono in modo artificiale intorno alla follia un simulacro di famiglia.

Pinel vuole abolire le forme immaginarie della religione, non il suo contenuto morale; in essa infatti c’è, una volta decantata, un potere di combattere l’alienazione il quale dissipa le immagini, calma le passioni e restituisce l’uomo a ciò che vi è in lui di immediato e di essenziale: essa può avvicinarlo alla sua verità morale. L’asilo deve riprendere il compito morale della religione, al di fuori del suo contesto fantastico, esclusivamente sul piano della virtù, del lavoro e della vita; esso è dominio religioso senza religione e dominio della moralità pura.

L’asilo di Pinel è organizzato in tre modi principali:

Al silenzio, al riconoscimento nello specchio e al giudizio perpetuo si aggiunge una quarta struttura fondamentale: il personaggio medico. Fra tutte esso è senza dubbio l’elemento più importante perché guiderà infine tutta l’esperienza moderna della follia e diverrà la figura essenziale dell’asilo. L’homo medicus acquisterà autorità come sapiente e come saggio; sarà colui che delimiterà, conoscerà e dominerà la follia.

L’opera di Tuke e Pinel, così diverse nello spirito e nei valori, si incontrano proprio in questa trasformazione del personaggio medico.

Capitolo V

Il cerchio antropologico

"Concludendo, la libertà dei folli è nello stesso tempo precaria e ostinata." Essa rimane sempre sull’orizzonte della follia, ma sparisce non appena si tenti di delimitarla, essa non è che meccanismo del corpo, incatenamento dei fantasmi, necessità del delirio. Alla fine del XVIII secolo quindi non si assiste a una liberazione dei folli, ma a una "oggettivazione del concetto della loro libertà".

Una volta liberato, il folle non può sottrarsi alla propria verità; egli è gettato in essa ed essa lo confisca interamente.

La follia classica apparteneva alle regioni del silenzio, non possedeva un suo linguaggio autonomo, si riconosceva soltanto il linguaggio segreto del delirio. Nel XVIII secolo la follia si appropria di un suo linguaggio, in cui le è concesso di parlare in prima persona e di enunciare qualche cosa che aveva un rapporto essenziale con la verità. Ciò che la follia dice di se stessa è una verità elementare dell’uomo, in quanto lo riduce ai suoi desideri primitivi e ai suoi meccanismi più semplici, e, allo stesso tempo, una verità terminale dell’uomo, in quanto gli mostra fino a dove possono spingerlo le passioni e la vita di società.

Il folle non lo si potrà riconoscere senza riconoscersi, senza sentire in sé le sue stesse voci e forze.

Alice Scandellari