Cartina che mostra la regione kosovara nella Yugoslavia.

La Guerra del Kosovo fu un conflitto armato riguardante lo status del Kosovo, provincia autonoma della Serbia allora compresa nella disciolta Repubblica federativa di Jugoslavia (Jugoslavia).

Il Kosovo, popolato in maggioranza da cittadini di etnia albanese, era entrato in tensione con la Serbia e contribuì al disfacimento della Federazione Jugoslava, già avviato con la fuoriuscita prima della Slovenia e poi della Croazia, nel quadro di nazionalismi contrapposti che ha segnato e segna le vicende balcaniche degli anni recenti.

In quel clima l'insofferenza e con il nascere e crescere dei vari nazionalismi aveva cominciato a sfumare, in alcune frange, dalle rivendicazione autonomiste a quelle indipendentiste. Già dopo la concessione dello status di autonomia alla regione kosovara gli appartenenti all'etnia albanese (che si distinguono tra i musulmani e i cristiani) dimostrarono (inizi degli anni ottanta) che con questa autonomia non si sarebbero accontentati. A quell'epoca l'unica repubblica dell'allora Jugoslavi ad aver concesso una forma di autonomia alle proprie minoranze era appunto la Serbia; di preciso si trattava della regione Vojvodina al nord e della regine Kosovo e Metohija al sud. Nonostante questo lo slogan "Kosovo republika" cominciò a farsi sentire sempre di più nelle manifestazioni di piazza a Pristina e in altre parti del Kosovo. Gli Albanesi, infatti, chidevano che Kosovo diventasse la settima repubblica della Jugoslavia socialista e quindi che si distaccasse dalla Serbia. Così facendo il Kosovo avrebbe potuto fare come la Slovenia e la Croazia, cioè al momento opportuno dichiarare l'indipendenza senza dover fare i conti con Belgrado.

Il conflitto precipitò alla fine degli anni ottanta: nel marzo del 1989 l'autonomia della provincia risalente alla costituzione della Repubblica Jugoslava di Tito (che era una repubblica federativa con diritto di secessione unilaterale delle varie repubbliche ma non anche delle regioni autonome) venne revocata su pressione del governo serbo guidato da Slobodan Milošević visto il precipitare della situazione. Fu, tra l'altro, revocato lo status paritario goduto dalla lingua albanese-kosovara (fino ad allora lingua co-ufficiale nel Kosovo accanto al serbo-croato), chiuse le scuole autonome, rimpiazzati funzionari amministrativi e insegnanti con serbi o persone fedeli (o ritenute tali) alla Serbia.
 


Soldati del 504simo reggimento mentre cercano di contenere alcuni sfollati a Vitina nel 2000.


Dal 1989 al 1995 la maggioranza della popolazione d'etnia albanese del Kosovo mise in atto una campagna di resistenza non violenta sotto la guida del partito LDK e del suo leader Ibrahim Rugova. Dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, tra i kosovari (in maggioranza musulmani) nacquero e si rafforzarono in breve tempo formazioni armate (sovente guidate da veterani di quella guerra) con dichiarati intenti indipendentisti.

La guerra del Kosovo si può dividere in due fasi distinte:

1. 1996 - 1999: furono i separatisti albanesi dell'UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës o KLA, Kosovo Liberation Army, "Esercito di liberazione del Kosovo"), finanziati dai traffici di armi e stupefacenti ad iniziare le ostilità con attentati terroristici ed uccisioni ai danni di cittadini serbi e non albanesi, contro le loro proprietà e contro le entità statali. Successivamente ci fu una repressione sempre più dura da parte della polizia e, più tardi, da parte di forze paramilitari ispirate da estremisti serbi.

2. 1999: intervento NATO contro la Serbia. Per tutto il 1998, mentre la guerriglia sul terreno si espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva via via più pesante e sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della Repubblica federale jugoslava guidato da Slobodan Milošević.

Esercitando forti pressioni, l'Alleanza Atlantica ottenne l'avvio dei negoziati di Rambouillet, che si conclusero positivamente nonostante la resistenza dei rappresentanti dell'UÇK a firmare un documento nel quale era formalmente garantita l'autonomia del Kosovo, ma non la sua piena indipendenza. Tale resistenza fu superata grazie alle pressioni degli USA, che godevano di grande prestigio presso l'UÇK e la delegazione Kosovara grazie alla loro politica di sostegno. Alla ripresa di Parigi, di lì a pochi giorni dalla conclusione di Rambouillet - una sessione non politica che avrebbe dovuto occuparsi degli aspetti attuativi e organizzativi dell'accordo - la delegazione serba abbandonò sin dall'inizio la seduta rimettendo in discussione gli esiti politici di tutta la trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da autonomia. I Serbi si sentirono presi in giro e provocati.


Kissinger: Rambouillet, una provocazione
 

Va tuttavia notato che - in questo caso - la parte Serba fu di fatto costretta ad abbandonare il negoziato a seguito di due elementi-chiave introdotti, per impulso degli Stati Uniti, alla vigilia della firma dell'accordo. In primo luogo, il 22 febbraio, il Segretario di Stato USA, Madeleine Albright, si impegnò, verso la parte kosovara, a garantire, entro tre anni, il distacco del Kosovo dalla Federazione; in secondo luogo, fu introdotta un'appendice (Appendice o Annex B) alla parte militare dell'Accordo che prevedeva, di fatto, l'occupazione militare dell'intera Federazione Serbia da parte della NATO. Tale misura, inaccettabile per qualsiasi stato sovrano, era tanto più irricevibile, in quanto la Costituzione Federale vietava, sin dai primi anni '70, lo stazionamento di truppe straniere sul territorio Jugoslavo. Particolarmente significativo fu il commento di Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, che definì il testo:

«Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Jugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un Serbo angelico avrebbe potuto accettare. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma (The Rambouillet text, which called on Serbia to admit NATO troops throughout Yugoslavia, was a provocation, an excuse to start bombing. Rambouillet is not a document that an angelic Serb could have accepted. It was a terrible diplomatic document that should never have been presented in that form)»
(Henry Kissinger al Daily Telegraph, 28 giugno 1999).
 


Campo Bondsteel, base americana che ospitava 7000 dei soldati americani inviati in Kosovo.


Da Aviano e dalle altre basi NATO italiane presero il volo i caccia bombardieri. Dopo la decisione della NATO, il governo D'Alema autorizzò l'utilizzo dello spazio aereo italiano. Fu il primo intervento militare italiano a carattere offensivo dal Dopoguerra; le precedenti missioni in cui era stata coinvolta l'Italia riguardavano l'ONU o l'UE, e non avevano impegnato l'aeronautica se non in funzione prevalentemente logistica e d'appoggio.

La stampa di quel periodo notò il ruolo di Madeleine Albright, Segretario di Stato USA sotto la presidenza di Bill Clinton. L'equivalente americano del nostro Ministro degli Esteri spingeva per un intervento militare, mentre l'amministrazione americana era propensa alla neutralità, vedendo il Kosovo più come una questione europea. La Albright, come alcuni giornali notarono, è ebrea di origine polacca e visse in prima persona l'esodo forzato di un popolo e le deportazioni naziste durante la Seconda Guerra Mondiale, fatti che furono paragonati a quelli compiuti dai serbi sulla popolazione albanese kosovara.

Una tesi che presenta la guerra in Kosovo come guerra mediatica, gonfiata dalle televisioni occidentali, è sostenuta da alcuni giornalisti, tra cui un articolo apparso sul quotidiano italiano La nazione. Secondo l'articolo, infatti, alla fine del 1989, la CNN, prima fra le TV occidentali, iniziò a trasmettere ogni giorno filmati di stragi compiute dai serbi sui kosovari. Si trattava di due episodi in cui rimasero uccisi 205 civili, mentre venivano messi in onda spezzoni sempre diversi dello stesso filmato, in modo che sembrasse che in Kosovo fosse in corso un genocidio. Se ciò fosse dimostrato, si ridimensionerebbe la proporzione tra un pericolo di genocidio da parte dei serbi e l'intervento armato sua conseguenza.

Il 24 marzo 1999 l'Alleanza Atlantica prese atto del fallimento dei negoziati ed iniziò (senza un provvedimento in questo senso da parte dell'ONU, a causa del minacciato veto di Russia e Cina) alcune operazioni militari di dissuasione nella speranza di ottenere una replica di quanto già avvenne per i negoziati per il conflitto Bosniaco, dove anche lì la delegazione serba abbandonò improvvisamente la trattativa riprendendo immediatamente le operazioni militari. In quella occasione poche operazioni militari di dissuasione sulle linee serbe convinsero il regime di Milosevic a ritornare al tavolo delle trattative e a firmare (e rispettare) la fine del conflitto. Tale circostanza non si ripeté nel caso del Kosovo, presumibilmente perché Milošević - che puntava in modo piuttosto trasparente ad una sua spartizione, tra Serbia e Albania - riteneva di potere contare su determinate alleanze, o semplicemente su di un mutato quadro internazionale che pensava avrebbe giocato a suo favore. La Cina aveva manifestato una netta contrarietà nei confronti della neonata repubblica di Macedonia (verso la quale l'esercito serbo cercò di spingere la popolazione del Kosovo in fuga) a causa del riconoscimento di Taiwan da parte di quest'ultima, circostanza che sembra essere stata la motivazione dominante della minaccia di veto cinese ad ogni intervento in sede ONU.

La Russia aveva iniziato un recupero della conflittualità con gli USA in chiave nazionalista, e inoltre tra Russi e Serbi esiste storicamente un legame particolare su base etnico-religiosa. La NATO iniziò quindi una escalation di bombardamenti aerei su tutto il paese che sono durati oltre due mesi (operazione Allied Force). I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia. In media, la Serbia subiva almeno 600 raid aerei al giorno. Il numero esatto di vittime della guerra, sia serbe che albanesi, militari e civili, non è


Immagine che presenta uno dei numerosi bombardamenti che hanno colpito la città di Pristina

 ancora oggi conosciuto con esattezza, ma è presumibile sia dell'ordine di qualche migliaio. Si tratta di una ulteriore tragedia che si somma a quella dei dieci precedenti anni di conflitti balcanici, che hanno fatto circa 250.000 vittime, in gran parte civili.

Nel corso del conflitto ci sono stati diversi gravi episodi: in un'occasione un attacco aereo colpí un convoglio di civili in fuga facendo una strage. Un'altra volta, un missile finì per errore in Bulgaria, senza provocare danni. Tra le infrastrutture prese di mira anche alcuni ponti e centrali elettriche (bombardate con bombe alla grafite che non provocano danni permanenti, ma solo un black-out). Fu anche bombardata e distrutta la torre della televisione (gli oppositori di Milošević in Serbia sostenevano che il personale era stato avvisato dell'attacco, ma gli era stato ordinato di rimanere nell'edificio), con 16 vittime tra giornalisti, funzionari ed impiegati. In seguito venne bombardata l'ambasciata cinese a Belgrado, nel convincimento che in quell'edificio fosse stata spostata la trasmittente della radiotelevisione Serba dopo la distruzione della sua sede. La vicenda creò una notevole tensione con la nazione asiatica. L'esercito serbo, e truppe "irregolari" facenti capo a movimenti ultranazionalisti serbi (che già avevano operato in Bosnia Erzegovina distinguendosi in massacri di civili ed operazioni di cecchinaggio) non mancarono di compiere diverse esazioni sulla popolazione del Kosovo, per provocarne la fuga e creare quello stato di fatto necessario alla realizzazione dell'obiettivo della spartizione. L'operazione militare, chiamata "ferro di cavallo", sarebbe stata preparata prima ancora delle trattative di Rambouillet, anche se prove definitive al di là di ogni ragionevole dubbio in tal senso non sono state fornite, o la stampa internazionale non ne ha mai dato un resoconto esauriente. In ogni caso l'esercito serbo sotto attacco NATO aumentò progressivamente la pressione sulla popolazione albanese, che iniziò a spostarsi verso la Macedonia e l'Albania. Il numero dei rifugiati raggiunse gli 800.000.

L'inevitabile capitolazione del governo serbo portò al dispiegamento della missione ONU KFOR, disposta dal Consiglio di sicurezza a seguito di un accordo "a posteriori" includente Russia e Cina, a guida NATO e con una significativa presenza di truppe russe, a garanzia della Serbia.

I rifugiati albanesi ritornarono ma cominciò un nuovo esodo, quello serbo. Migliaia di cittadini di etnia non albanese (serbi, montenegrini e gitani, in prevalenza) fuggirono dal Kosovo temendo - e subendo - rappresaglie albanesi (per altro protrattesi sino ai giorni nostri, a dispetto della presenza della KFOR), e si creò uno stato di fatto che perdura tuttora, con i serbi superstiti trincerati in gran parte nella Methokia (la parte serba del Kossovo) e gli albanesi nel Kosovo propriamente detto, impegnati a rendere "etnicamente pura" la provincia: basti pensare che, dopo la guerra, centinaia di chiese ortodosse vecchie più di cinquecento anni sono state distrutte (in diversi casi rase al suolo) e che non uno dei 40mila residenti d'etnia serba di Pristina ha potuto farvi ritorno. Milošević fu arrestato il (1 aprile 2001) su mandato del tribunale internazionale dell'Aja, dopo molte titubanze del nuovo regime democratico, come imputato per crimini contro l'umanità. Il processo si è interrotto a poca distanza dalla sua conclusione, a causa della morte dell'imputato l'11 marzo 2006 per presunto arresto cardiaco.
Nel 2006 sono iniziati a Vienna nuovi colloqui bilaterali tra il governo serbo e quello kosovaro per la definizione finale dello status della regione Kosovo.