Il XX secolo

Negli anni successivi al 1880 l'Argentina conobbe un notevole progresso economico e sociale, emergendo nel primo decennio del XX secolo come una delle più importanti nazioni dell'America latina, tanto da svolgere il ruolo di mediatore tra Messico e Stati Uniti nella crisi tra i due paesi scoppiata nel 1914. L'Argentina rimase neutrale durante la prima guerra mondiale, svolgendo però un ruolo importante come fornitore di prodotti alimentari dei paesi alleati.

La crisi economica del 1929 ebbe forti ripercussioni nel paese, creando un profondo disagio sociale e politico. Nel 1930 un colpo di stato depose il governo del radicale Hipólito Irigoyen e portò al potere il generale Augustín Justo, sostituito alla guida del paese da Roberto M. Ortiz nel 1938.

 

 

 

La seconda guerra mondiale

Nel luglio del 1940 Ortiz, malato, fu sostituto da Ramón S. Castillo. Alla Conferenza panamericana di Rio de Janeiro del gennaio 1942, Argentina e Cile furono così le uniche nazioni americane a rifiutarsi di troncare le relazioni diplomatiche con le potenze dell'Asse. Castillo fu deposto un anno dopo da un gruppo di militari guidato dal generale Arturo Rawson, favorevole alla rottura delle relazioni con la Germania e il Giappone. Dissidi interni con gli altri congiurati gli impedirono tuttavia di assumere la presidenza, che andò invece al generale Pedro Ramírez. Nel gennaio del 1944, con una completa inversione di marcia causata dalle forti pressioni degli Stati Uniti, Ramírez ruppe le relazioni diplomatiche con Germania e Giappone. Decisa a ostacolare la politica alleata, la giunta militare, che deteneva l'effettivo potere politico, obbligò il presidente alle dimissioni (24 febbraio 1944). Figura centrale divenne a questo punto quella del colonnello Juan Domingo Perón.

Nonostante le dichiarazioni di solidarietà con gli Alleati, il governo fu ufficialmente accusato dalle autorità di Washington di aiutare le potenze dell'Asse. Solo il 27 marzo 1945, quando la vittoria degli Alleati era ormai certa, la giunta dichiarò guerra alla Germania e al Giappone, sottoscrivendo il mese successivo l'Atto di Chapultepec, che creava il sistema difensivo integrato delle nazioni americane. L'Argentina venne accettata come membro delle Nazioni Unite in giugno.

 

 

 

L'era di Perón

 

Juan Domingo Peròn

La rinascita dell'attività politica in Argentina fu segnata dalla comparsa del Partito del lavoro, raccoltosi attorno al candidato alla presidenza Perón. La base di consenso della nuova formazione politica veniva dai gruppi più depressi della classe lavoratrice agricola e industriale, conosciuti come descamisados ("gli scamiciati"). I peronisti basarono la loro campagna elettorale sulla promessa di concessioni di terra, di salari più alti e di assistenza sociale alle classi popolari. Perón vinse a grande maggioranza le elezioni presidenziali del 24 febbraio 1946, imponendosi sul candidato della coalizione progressista.

A gestire l'attività propagandistica e sociale del nuovo governo fu la moglie di Peron, l'ex attrice Eva Duarte, che si guadagnò rapidamente un grande ascendente sulla popolazione argentina. Nell'ottobre del 1946 Perón promulgò un ambizioso programma quinquennale per lo sviluppo dell'economia.

 

 

 

La nuova Costituzione

Nel marzo del 1949 venne introdotta una nuova Costituzione, che permetteva la rielezione del presidente della repubblica per un secondo mandato. Avvalendosi della nuova disposizione, nel luglio dello stesso anno Perón venne ufficialmente ricandidato dal suo partito per le elezioni in programma nel 1952. Le fortissime critiche dei partiti d'opposizione e della stampa a questo velato tentativo di dar vita a un regime personale spinsero la maggioranza governativa a mettere a punto una serie di norme limitanti l'azione delle opposizioni, sino alla chiusura degli organi di stampa indipendenti. In questo modo l'intera campagna elettorale del 1951 risultò fortemente falsata e, significativamente, oltre alla scontata riconferma del presidente uscente, i peronisti ottennero 135 dei 149 seggi a disposizione alla Camera dei deputati.

 

 

Il secondo mandato

Nel gennaio del 1953 il governo inaugurò il suo secondo piano quinquennale, questa volta incentrato sull'incremento della produzione agricola. Nei mesi successivi l'Argentina strinse importanti accordi commerciali ed economici con diversi paesi (fra cui Gran Bretagna, Unione Sovietica e Cile), riportando in attivo la bilancia commerciale; la moneta argentina continuò invece a subire una forte svalutazione.

Nel novembre del 1954 Perón avviò una fase di scontro frontale con le istituzioni cattoliche (accusate di fomentare attività antigovernative) e fece approvare, nell'arco di due mesi, una legge sul divorzio.

 

 

 

La caduta di Perón

Il 16 giugno 1955 alcuni dissidenti dell'aeronautica argentina diedero vita a un tentativo di rivolta antiperonista, fallito per la scelta dell'esercito di rimanere fedele al governo. La vicenda si ripeté tre mesi dopo, ma questa volta il pronunciamento militare mostrò una base di consenso più estesa, così che, dopo tre giorni di guerra civile (che costarono la vita a circa 4000 persone), Perón fu costretto a dimettersi e a riparare in esilio prima in Paraguay, quindi in Spagna. Nel frattempo, il 20 settembre, il maggiore Eduardo Lonardi aveva assunto le funzioni di presidente provvisorio dell'Argentina, promettendo al paese la pronta restaurazione di un regime democratico.

 

 

 

 

I presidenti provvisori

Il governo Lonardi cadde in meno di due mesi, vittima a sua volta di un colpo di stato guidato dal generale maggiore Pedro Eugenio Aramburu. Motivo ufficiale del golpe fu la riluttanza di Lonardi a reprimere il peronismo, specialmente tra le file dell'esercito e della classe lavoratrice. Aramburu abrogò la Costituzione del 1949 ristabilendo quella liberale del 1853, che proibiva la rielezione del presidente. Un tentativo di rivolta peronista fu annientato nel giugno del 1956, con migliaia di arresti e l'esecuzione di 38 simpatizzanti dell'ex presidente in esilio.

Le votazioni per l'elezione di un'assemblea costituente ebbero luogo in luglio: il Partito radicale del moderato Ricardo Balbín ebbe la maggioranza dei consensi, seguito dal Partito radicale intransigente di Arturo Frondizi. I peronisti, messi al bando come partito, votarono scheda bianca.

 

 

I presidenti eletti

L'assemblea costituente inaugurata a Santa Fe nel mese di settembre adottò nuovamente la Costituzione del 1853, dopo il ritiro dai lavori dei radicali intransigenti. Le successive elezioni presidenziali del febbraio 1958 furono vinte da Frondizi, sorretto anche da peronisti e comunisti, mentre i radicali intransigenti si assicurarono la maggioranza dei seggi in Parlamento.

Nonostante le agitazioni sindacali e il continuo aumento del costo della vita, un certo grado di stabilità interna, sia sociale che economica, fu raggiunto nei mesi successivi anche grazie al ricorso a ingenti prestiti internazionali (tra i quali spicca quello di oltre un miliardo di dollari ottenuto nel 1960 dagli Stati Uniti). La popolarità di Frondizi calò tuttavia notevolmente, come mostrò, nelle elezioni del marzo 1962, il 35% dei consensi raccolti dai peronisti, nuovamente ammessi alla corsa elettorale. Nonostante proibisse a cinque esponenti peronisti di assumere l'incarico di governatore provinciale conquistato elettoralmente, il presidente fu destituito dai vertici delle forze armate, che lo accusarono di scarsa fermezza contro il movimento peronista. A succedergli fu chiamato il presidente del Senato José María Guido, che però lasciò il potere di fatto ai militari.

Peronisti e comunisti furono nuovamente esclusi dalle elezioni presidenziali del luglio 1963, che portarono alla nomina del candidato moderato Arturo Illía. Questi annunciò un programma di ricostruzione nazionale e di regolazione degli investimenti stranieri: l'introduzione di minimi salariali, di scarsi controlli governativi su prezzi e beni, nonché la regolamentazione delle agitazioni sindacali.

 

 

 

Il ritorno di Perón

Nelle elezioni del 1965 le liste peroniste conquistarono molti seggi, pur conservando il partito governativo di Illía una maggioranza di 71 seggi nella Camera dei deputati. Le agitazioni dei lavoratori, indotte dalla difficile situazione economica, proseguirono per tutto l'anno successivo, mentre i peronisti continuavano a ottenere successi nelle elezioni amministrative. Risultato di questa situazione fu il colpo di stato del giugno 1966: una giunta militare prese il potere; dopo Juan Carlos Onganía e Roberto Marcelo Levingston, fu il generale Alejandro Augustín Lanusse, che assunse l'incarico nel 1971, ad avviare il rientro nel regime civile. Nel 1972, tuttavia, il paese fu colpito da una nuova ondata di violenze, scioperi, rivolte studentesche e atti di terrorismo, alimentati dall'ulteriore aggravarsi della crisi economica.

I peronisti vinsero largamente le elezioni del marzo 1973, e il loro candidato presidenziale Héctor Cámpora assunse l'incarico il 25 maggio successivo. Immediatamente vi fu un intensificarsi degli atti di terrorismo di matrice fascista, ma altrettanto violenti scoppiarono gli scontri entro lo stesso partito di maggioranza, diviso tra moderati e radicali progressisti; il giorno del rientro di Perón a Buenos Aires (20 giugno), una manifestazione di protesta degenerò provocando 380 vittime.

Un mese più tardi Cámpora si dimise, e in settembre un nuovo pronunciamento popolare riportò Perón alla presidenza con più del 61% dei consensi; la sua terza moglie Isabelita Perón venne eletta vicepresidente e quando, il 1° luglio 1974, il suo consorte morì, andò al potere. Durante il suo governo, le condizioni politiche ed economiche del paese peggiorarono drammaticamente, mentre lo scatenarsi del terrorismo di sinistra e di destra giunse a provocare oltre 700 morti nel solo anno 1975. Fallito un primo tentativo di golpe militare nel dicembre di quell'anno, nel marzo successivo una giunta guidata dal luogotenente generale dell'esercito Jorge Rafael Videla assunse i pieni poteri, sciolse il Parlamento e impose la legge marziale, governando da allora per decreto.

 

 

 

Il regime militare e la guerra delle Falkland

 

Reynaldo Bignone

 

Nei mesi immediatamente successivi al colpo di stato militare, il terrorismo continuò a dilagare; Videla lanciò allora la sua campagna di terrore contro gli avversari politici, basata su arresti, torture e assassinii di massa. La situazione economica rimase caotica; Videla fu sostituito dal maresciallo Roberto Viola (nel marzo 1981), a sua volta deposto meno di un anno dopo dal generale Leopoldo Galtieri. Il governo di quest'ultimo riuscì a raccogliere il paese attorno a sé nell'aprile 1982, occupando le isole Falkland (Islas Malvinas per gli argentini), ma dopo la breve guerra delle Falkland la Gran Bretagna recuperò le isole, screditando senza appello il dittatore, che venne sostituito dal generale Reynaldo Bignone.

 

 

Il ritorno alla democrazia

Nell'ottobre del 1983, in una situazione di crisi economica estrema, con un debito estero senza precedenti e un'inflazione a oltre il 900% annuo, il paese tenne le prime elezioni presidenziali democratiche dopo dieci anni, eleggendo il candidato del Partito radicale Raúl Alfonsín. Questi guidò il paese nel ritorno alla democrazia: le forze armate furono riorganizzate; i precedenti leader militari e politici emarginati; il debito estero fu ricontrattato e progressivamente ridotto; vennero introdotte riforme fiscali. Risultò invece insoluto il nodo dell'inflazione e delle gravi violazioni dei diritti umani avvenute durante tutto il precedente regime militare (che avevano causato anche la morte di circa 30.000 oppositori, molti dei quali desaparecidos, "scomparsi").

Alle presidenziali del maggio 1989 il candidato peronista Carlos Saúl Menem fu eletto presidente. Menem impose un drastico programma di austerità d'ispirazione neoliberista, ed entro i primi anni Novanta riuscì a frenare l'inflazione, pareggiare il bilancio, privatizzare le aziende di stato e saldare i debiti del paese con le banche. Nel 1990, con il paese ancora sottoposto a gravi tensioni e al ricatto delle gerarchie militari, Menem concesse l'amnistia agli esponenti del regime militare con un legge detta "dell'obbedienza dovuta".

Nel 1993 Menem ottenne una modifica della Costituzione per ripresentarsi alle elezioni presidenziali. Alle elezioni del 1995 fu rieletto alla presidenza, ma subito dopo grosse divisioni si verificarono all'interno del partito di governo, che prefiguravano già la lotta per la successione. Menem fu accusato di corruzione, assieme a tutto l'entourage governativo, dal suo ex ministro dell'Economia Domingo Cavallo. Nel 1997 la grave situazione economica e sociale causò una forte ripresa del conflitto sindacale e politico (rivolto anche a scongiurare il piano governativo di deregolamentazione del mercato del lavoro), e nelle elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati il Partito giustizialista perse la maggioranza assoluta.

 

 

 

Il passato sotto inchiesta

Nel 1995, con la pubblicazione della testimonianza di un ufficiale dell'aeronautica, si riaprì la pagina dolorosa dei desaparecidos. L’ufficiale – che in seguito, sottoposto a continue minacce, ritrattò parte delle sue affermazioni – sostenne di aver fatto parte, durante la dittatura militare, dell’equipaggio di un aereo utilizzato dai militari per liberarsi dei prigionieri politici, gettandoli in mare ancora vivi. Nel 1998 alcuni militari – tra cui Jorge Videla, uno degli alti ufficiali succedutisi alla guida della giunta militare – furono sottoposti a inchieste giudiziarie e arrestati con l’accusa di sequestro di minori, un reato non previsto dalle misure di amnistia di cui avevano goduto i protagonisti della violenta dittatura. Al provvedimento della magistratura argentina – che suscitò il malcontento delle forze armate – si aggiunse peraltro quello del magistrato spagnolo Baltasar Garzon (lo stesso che aveva causato, con un’analoga inchiesta, la lunga permanenza agli arresti domiciliari dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet a Londra); nel novembre 1999 Garzon spiccò infatti dodici mandati di cattura internazionali contro membri della passata giunta militare argentina, tra cui lo stesso Videla, l’ex capo della marina Emilio Massera e il generale Leopoldo Galtieri (il protagonista della disastrosa guerra delle Falkland). Tre ufficiali dell’esercito argentino furono in seguito perseguiti dalla legge anche in Italia, per la scomparsa di cittadini italo-argentini durante la dittatura militare; al termine di un processo che vide la testimonianza di diversi parenti degli scomparsi, agli inizi del 2001 i tre ufficiali vennero riconosciuti colpevoli dei reati loro ascritti e condannati in contumacia a pesanti pene detentive.


 

La questione dei diritti umani, grazie anche alla cresciuta attenzione internazionale e al clamoroso “caso Pinochet”, tornò così alla ribalta anche in Argentina. Agli inizi del 2001 un giudice federale dichiarò per la prima volta incostituzionali le leggi cosiddette dell’”obbedienza dovuta” e del “punto finale”, che, approvate nel 1986-87, avevano garantito l’impunità per tutti i militari coinvolti nella violenta repressione. Il provvedimento, sebbene valido per un unico processo a carico di undici militari, fu accolto con estrema soddisfazione dalle organizzazioni argentine e internazionali che si battono per il rispetto dei diritti umani.

Nel 1998 Menem non riuscì nel proposito di ottenere dall’Alta Corte un parere favorevole alla sua terza candidatura alle elezioni presidenziali e dovette cedere il passo a Eduardo Duhalde. Il forte malcontento diffuso nel paese nei confronti del Partito giustizialista non favorì tuttavia la corsa di Duhalde, che nelle elezioni dell’ottobre 1999 fu battuto, al primo turno e con uno scarto di dieci punti, da Ferdinando de la Rúa, il candidato dell’Alleanza, composta dai radicali e dal FREPASO (Fronte per un paese solidale).

La bancarotta

 

Menem

L’Argentina emerse dal decennio di presidenza Menem in piena recessione. Il suo debito estero ammontava a 160.000 miliardi di dollari USA. La ristrutturazione dell’economia aveva conseguito scarsi risultati e causato un acutissimo disagio sociale. Il sistema di protezione sociale era stato smantellato, mentre l’oligarchia, arricchitasi anche grazie alle selvagge privatizzazioni realizzate negli anni Novanta, aveva trasferito all’estero un’enorme fortuna. Secondo le stime ufficiali i disoccupati rappresentavano il 20% della forza lavoro attiva e una persona su tre viveva al di sotto della soglia di povertà.

Per fronteggiare la grave crisi economica e per ottenere un prestito di 20 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale, il nuovo governo di centrosinistra adottò a sua volta una politica di austerità, riformando il sistema delle pensioni e congelando la spesa pubblica delle province fino al 2005. I provvedimenti del governo furono severamente contestati dai sindacati, che nel novembre del 2000 bloccarono il paese con un sciopero generale di 36 ore.

Nel marzo del 2001 De la Rúa chiamò al ministero dell’Economia, concedendogli poteri speciali, Domingo Cavallo, già ministro di Menem e artefice delle legge di convertibilità che aveva agganciato il peso al dollaro nel 1992. A distanza di un anno dalle elezioni, la coalizione che aveva portato alla presidenza il radicale De la Rúa si sfaldò. Contro il rimpasto governativo – e soprattutto contro la strategia economica delineata da Cavallo – si pronunciò infatti il FREPASO, che abbandonò la coalizione. Accusato di corruzione, in giugno l’ex presidente Menem fu posto agli arresti domiciliari.

Durante l’estate la crisi argentina si acuì, nonostante il drastico piano di risanamento lanciato da Cavallo, che istituì un taglio del 13% a stipendi e pensioni. Nella provincia di Buenos Aires, gli stipendi dei dipendenti pubblici vennero pagati con buoni governativi (i cosiddetti “patacones”), anziché in denaro; chiusero le Aerolineas Argentinas, la compagnia di bandiera passata, durante la presidenza Menem, sotto il controllo della spagnola Iberia; a settembre le entrate fiscali diminuirono del 14%, mentre crollavano la produzione industriale, il consumo interno e le esportazioni.

A ottobre, nelle elezioni di medio termine per il rinnovo del Senato e della metà dei seggi della Camera, la coalizione di centrosinistra subì una severa sconfitta e De la Rúa perse la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Ad avvantaggiarsi della crisi del centrosinistra furono i peronisti del Partito giustizialista, che vinsero in 18 province su 23. Ma le urne espressero soprattutto un voto di protesta; un quinto delle schede scrutinate risultarono bianche o nulle e il 26% degli elettori si astenne del tutto (una quota elevatissima, se si considera che in Argentina il voto è obbligatorio).

A dicembre, sull’orlo della bancarotta, l’Argentina sospese i pagamenti dei rimborsi dovuti alle istituzioni finanziarie internazionali. In seguito a questa decisione, il Fondo monetario internazionale bloccò l’erogazione di un nuovo prestito già accordato al paese. Per far fronte alla gravissima situazione, il ministro Cavallo propose ulteriori tagli alla spesa pubblica e impose un limite (“corralito”) al prelievo di denaro liquido dai depositi bancari. Il provvedimento colpì in modo particolare i piccoli e medi risparmiatori e le imprese nazionali, e causò moti di protesta in tutto il paese. Il 19 dicembre centinaia di migliaia di persone scesero in piazza; a Buenos Aires un’immensa manifestazione circondò la Casa Rosada chiedendo le dimissioni del governo. In molte città argentine la folla saccheggiò i supermercati e si scontrò violentemente con la polizia; 35 persone, in gran parte giovani, caddero sotto i colpi sparati dalla polizia e dai proprietari dei negozi assaltati. Mentre il ministro Cavallo lasciava il suo incarico, il presidente De la Rúa impose lo stato d’assedio, prima di dimettersi a sua volta il giorno dopo, incalzato dalla folla.

Duhalde

Il 23 dicembre il Congresso nominò alla presidenza il peronista Adolfo Rodríguez Saá, che costituì un nuovo governo includendovi anche diversi esponenti politici coinvolti in gravi casi di corruzione. Il 29 nuove manifestazioni percorsero le città e a Buenos Aires vennero assaltati il Congresso e la sede del governo. Dopo le dimissioni di Rodríguez Saá, il 2 gennaio del 2002 il Congresso nominò un nuovo presidente, Eduardo Duhalde, il candidato peronista battuto dal radicale De la Rúa nelle precedenti elezioni presidenziali. Duhalde formò un governo di unità nazionale con l’intento di porre fine al modello economico seguito dall’Argentina nell’ultimo decennio e annunciò la moratoria sul debito estero e l’abbandono della parità tra il peso e il dollaro.

 

 

Sviluppi recenti

Nel febbraio 2002 il governo Duhalde sospende la parità peso-dollaro e impone la conversione forzata in dollari dei depositi e dei crediti; in pochi mesi il cambio con il dollaro raggiunge la quota di 4 a 1. In marzo l’Argentina raggiunge un accordo con il Fondo monetario internazionale per la ripresa dei pagamenti dei rimborsi e per la concessione di un nuovo prestito.

Il primo trimestre registra una forte caduta del prodotto interno lordo (circa il 16% rispetto al primo trimestre 2001) e un’impennata dell’inflazione (42%). La disoccupazione raggiunge livelli drammatici; cresce infatti, secondo i dati ufficiali, fino alla quota del 24%. Sempre secondo dati ufficiali, più della metà degli argentini (52%) vive sotto la soglia di povertà; tra questi, il 22% è considerato indigente. La fame colpisce alcune province del paese, mietendo diverse vittime soprattutto tra i bambini.

La grave situazione economica e sociale alimenta un forte malcontento in tutto il paese ma anche la nascita di una singolare organizzazione di base. Nelle città principali compaiono “assemblee di quartiere”, che oltre a organizzare la protesta contro il governo con marce e cacerolazos (rumorosi concerti eseguiti percuotendo le cacerolas, cioè le pentole), danno anche vita a scuole e a mercati, dove la merce viene direttamente barattata o scambiata con buoni spendibili nell’ambito del mercato stesso. Compaiono anche movimenti di disoccupati che animano folte manifestazioni e violenti scontri con la polizia; per la principale forma di lotta adottata – il blocco del traffico e degli ingressi degli uffici pubblici e delle imprese private – vengono chiamati piqueteros (da picchetto).

La protesta non si riflette tuttavia sul piano politico. Il paese esprime infatti un rifiuto e un disgusto per tutti i partiti politici, considerati in blocco responsabili della grave situazione; questo atteggiamento è perfettamente sintetizzato nello slogan più diffuso: “que se vayan todos” (se ne vadano tutti).

La forte crisi si riflette sul mondo politico, che appare diviso e più attento a conservare quote di potere che ad affrontare la grave situazione (i parlamentari argentini godono peraltro di elevatissimi compensi, tra i più alti al mondo). Le elezioni presidenziali del maggio 2003 diventano l’occasione per un nuovo drammatico scontro politico, il cui principale protagonista è il Partito giustizialista (che non riesce a esprimere un candidato comune) e soprattutto Carlos Menem, riapparso, dopo le vicissitudini giudiziarie, sulla scena politica argentina con l’intenzione di riconquistare la presidenza del paese. Al primo turno delle elezioni Menem si piazza al primo posto con il 24,4%, ma, sfavorito dai sondaggi, per evitare una cocente sconfitta che avrebbe compromesso la sua posizione all’interno del Partito giustizialista, decide di abbandonare la corsa e cedere la presidenza al secondo arrivato, Néstor Carlos Kirchner, membro dello stesso partito. Le elezioni registrano il più alto tasso di astensione della storia argentina e sanciscono il tracollo dell’Unione civica radicale, il secondo partito del paese, il cui candidato raccoglie solo il 2,3% dei voti.

Deciso a prendere le distanze dalla politica degli anni Novanta, Kirchner avvia una serie di provvedimenti mirati a dare alla popolazione una nuova immagine della politica; tra questi si collocano l’allontanamento degli ufficiali coinvolti nella dittatura militare e la destituzione dei personaggi implicati negli scandali di corruzione. In politica estera si distacca progressivamente dall’allineamento agli Stati Uniti, in favore di più stretti rapporti politici ed economici con i paesi del Mercosur. La situazione dell’Argentina resta comunque in bilico, gravata da un’economia che stenta a riprendersi, un’inflazione che ha raggiunto il preoccupante indice del 21% e una disoccupazione sempre elevata.

 

 

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