Verso la fine del XIX secolo l’uomo bianco ebbe un moto di curiosità per gli indiani e così alcuni giornalisti intraprendenti intervistarono guerrieri e capi, dando loro la possibilità di esprimere le loro opinioni su ciò che stava accadendo nel west. La qualità di queste interviste dipendeva dalla bravura degli interpreti o dalla disponibilità degli indiani a parlare liberamente: alcuni temevano rappresaglie dicendo la verità, altri si divertivano a burlarsi dei giornalisti raccontando loro storie incredibili. Fra le più ricche fonti di dichiarazioni di indiani, fatte in prima persona, vi sono i resoconti delle riunioni svoltesi per stipulare trattati e altri incontri formali con rappresentanti civili e militari del governo degli stati uniti. Da queste fonti di storia orale esce il racconto della conquista del west americano come lo hanno vissuto le vittime: gli indiani sapevano che la vita era proporzionata alla terra e alle sue risorse, che l’america era un paradiso, e non comprendevano perché gli intrusi che venivano dall’est fossero decisi a distruggere tutto ciò che era indiano, così come la stessa america. Oggi la povertà, la disperazione e lo squallore di una moderna riserva indiana ci danno la possibilità di capire quale opera di rapina e degradazione sia stata svolta dai bianchi. Agli inizi del 1900, una parte dell’opinione pubblica comincia a rendersi conto

Indiane in una riserva.

delle atrocità commesse contro i nativi, che vengono sempre più spesso condannate nelle pagine dei giornali e nei lavori di vari intellettuali. Il governo americano decide quindi una nuova strategia per “domare” le ultime tribù sopravvissute: un’integrazione veloce e forzata degli Indiani alla vita dei bianchi. Per fare ciò bisogna sradicare l’antica etica tribale, distruggere l’identità culturale indiana, la religione, i miti, l’economia collettivistica, la struttura sociale, in breve l’indiano. Già nei secoli precedenti erano stati fatti tentativi del genere e la vita sociale e famigliare dei Nativi aveva subito sostanziali modifiche. Ma l’obiettivo ora è più radicale e segue un disegno ben pianificato: trasformare l’indiano in un bracciante nella campagna o in un proletario nelle grandi città. Un grande passo verso questa direzione è stata la divisione delle terre di proprietà tribale in piccoli pezzi di terra che i coloni potevano comperare dal singolo proprietario a prezzi ridicoli. Così si introduce anche tra gli indiani il concetto di proprietà privata della terra e li si spoglia definitivamente dell’unica ricchezza che ancora possiedono facendogli entrare di fatto nella classe sociale a loro destinata: quella dei poveri. La privatizzazione della terra inoltre, esautora l’autorità del consiglio della tribù: il governo tratta ora con ogni indiano singolarmente, e questo non è più sottoposto alle leggi tribali, ma a quelle nuove e incomprensibili dei bianchi. Per sancire la cosa il

Bureau of Indian Affaire, l’ufficio governativo creato apposta per la questione indiana ( notoriamente uno dei più inefficienti e corrotti del governo federale), si affretta ad avere come interlocutori privilegiati non più gli anziani capi del consiglio, ma i giovani, più facilmente manovrabili e ricattabili con lo specchietto di un possibile lavoro o incarico governativo. Per quanto riguarda la cultura e la religione,

sia il governo degli Stati Uniti, sia il Canada emanano leggi che vietano espressamente riti e cerimonie indiane…. Bisognerà aspettare fino al 1952 perché sia permesso agli Indiani di celebrare il rituale quasi senza limitazione. Ma il popolo indiano è fondamentalmente mistico: riti e cerimonie continuano ad essere celebrati nella clandestinità…Gli Indiani, soprattutto i vecchi e gli adulti, non riescono a rinunciare alla loro identità, che viene costantemente soffocata dalla povertà, dalla mancanza di spazio, dalla repressione di leggi, assolutamente estranee a loro. Fra la popolazione indiana sono molto comuni epidemie dovute alla mancanza di igiene e di cure mediche, alla sottoalimentazione e alla promiscuità. Molti vecchi guerrieri si suicidano, altri si lasciano morire di inedia, la piaga dell’alcolismo dilaga. Il governo americano decide allora di puntare sui bambini: allontanati dalle famiglie, anche grazie al fatto che nelle riserve scarseggiano le scuole, potranno essere educati alla vita dei bianchi, e si avrà allora una nuova generazione di Indiani finalmente integrati. Le scuole sono laiche o religiose, ma tutte impongono ai piccoli di dimenticare la lingua, le usanze, i vestiti, il modo di acconciare i capelli, il cibo, tutto ciò che è indiano. Molti bambini scappano per ritornare nelle riserve, altri si trovano “sdoppiati”: pregano un dio a scuola e celebrano gli antichi riti quando tornano in famiglia per le vacanze, parlano inglese pensando nella lingua nativa, studiano la storia degli stati uniti su dei libri che tacciano gli avi come selvaggi, imparano il Giuramento alla Bandiera, senza sapere veramente cosa sia quel pezzo di stoffa. Nel frattempo scoppia la prima guerra mondiale e gli Indiani partecipano nelle fila dell’esercito americano al conflitto. Nel 1924 tutti i Nativi ottengono la cittadinanza americana, anche se bisognerà aspettare fino al 1948 perché tutti gli stati dell’unione riconoscano il loro diritto al voto. Sarà però la crisi economica del 1929 a far venire qualche dubbio sulla bontà dell’american way of life. Senza comunque mettere in discussione la superiorità della società bianca, si riconoscono l’importanza e l’utilità dell’organizzazione tribale indiana e i soprusi economici subiti dai Nativi. Vengono stanziati fondi a favore delle tribù: queste comperano terre fertili e capi di bestiame e sembrano rifiorire, anche se allo scoppiare della seconda guerra mondiale il tasso di mortalità tra la popolazione indiana è ancora il più alto fra tutte le minoranze e il tasso di alfabetizzazione il più basso.

Donne Navaho in una riserva

Dopo la seconda guerra mondiale tra i bianchi si diffuse la consapevolezza della natura multiculturale della società americana. Nacque così un nuovo interesse per i vari gruppi etnici del paese alimentato dalle nuove conoscenze scientifiche e antropologiche; anche la cinematografia contribuì a diffondere questa curiosità verso la multiculturalità dei nativi americani. Inoltre le lotte degli Indiani per il riconoscimento dei loro diritti acuirono la sensibilità dei bianchi verso i problemi dei pellerossa.

Negli anni 50 il governo americano fa firmare al congresso un decreto, il Termination Act, con l’intento di tagliare ogni forma di assistenza agli indiani, quindi smantella le tribù, iniziando da quelle che hanno le terre più ricche: gli Indiani ricevono del denaro e sono costretti a lasciare il territorio. – Nel giro di poco tempo i soldi finiscono e non si trova lavoro: è la miseria più nera. Non servono a niente le proteste, le delegazioni inviate a Washington, gli incidenti. Fra il 1954 e il 1960 ben 61 comunità indiane si vedono scacciate dal loro territorio. Nel frattempo il famigerato Bureau of Indian Affaire studia e finanzia un progetto per accelerare l’urbanizzazione dei pellerossa: riceveranno un piccolo aiuto economico che permetterà loro di insediarsi nelle città e vivere per un po’ prima di trovare un lavoro. E i pochi fortunati che lo trovano scopriranno ben presto che a loro sono riservati i lavori

 

Malgrado un aumento della popolazione ( da 250.000 unità del 1900 ai quasi 2.000.000 attuali) i pellerossa restano fra tutte le minoranze etniche presenti negli Stati Uniti, quelli con la più bassa speranza di vita alla nascita, il più basso reddito pro capite, il più alto tasso di disoccupazione. L’elevato numero di suicidi e l’abuso di alcolici indicano che se da un lato l’integrazione, tanto auspicata dai bianchi non è riuscita, l’identità umana e culturale dell’indiano è stata comunque messa profondamente in discussione.

 

 

 

 

La cronologia che segue riguarda la lotta che i nativi hanno condotto per il riconoscimento dei loro diritti:

-1972: marcia di 6.000 km attraverso gli Stati Uniti che si conclude con il saccheggio dell’Ufficio degli Affari Indiani a Washington

-1973 Marlon Brando rifiuta l’Oscar in nome degli indiani oppressi.

          Assedio di Wonded Knee: 350 indiani resistono alla polizia, 2 di loro vengono uccisi.

-1975 Il presidente americano Richard Nixon riconosce agli indiani il diritto all’autodeterminazione

-1976 Lunga marcia per la sopravvivenza in occasione del bicentenario della nascita degli stati uniti

-1980 Inutile resistenza dei Cree contro la prima parte della realizzazione della diga del Quebec

-1982 Il Canada riconosce i diritti dei popoli autoctoni. Dennis Banks, responsabile del gruppo indiano American Movement, si consegna spontaneamente alla polizia
-1988 maratone religiose attraverso Stati Uniti e Giappone. L’uranio della bomba di Hiroshima veniva dal territorio Navaho. Gli Indiani si scusano con il Giappone

-1990 Pellegrinaggio indiano a Wonded Knee per il centesimo anniversario dell’assassinio di Toro Seduto e del feroce massacro di 350 Indiani.

-1992 Manifestazione degli Indiani in Europa per far conoscere i loro diritti.

           Cerimonia di purificazione e di lutto per il quinto centenario della scoperta dell’America.

 

Nel 1989 il congresso americano avviò il progetto di un museo capace di esporre senza pregiudizi il passato e il presente dei nativi americani, i curatori e lo staff hanno dedicato anni a contattare i rappresentanti delle tribù di tutto l’emisfero occidentale, dall’Alaska alla terra del fuoco. È stato inaugurato nel settembre del 2004. – Il museo è un’arma tagliente. Sta in bilico tra un passato che non è facile ricordare ( l’olocausto indiano uccise, si presume, circa 10.000.000 di nativi) e un presente in cui l’ideologia del Melting Pot non appare più tanto convincente. Si dibatte spesso, anche se gli oggetti contenuti nei musei appartengano a chi li possiede o a chi li ha fatti. A questo proposito, e visto che gran parte degli oggetti del museo furono ottenuti con mezzi che oggi sarebbero considerati illegittimi, West ( il direttore del museo, nonché membro delle tribù Cheyenne e Arapaoh dell’Oklahoma) osserva: “ Noi Indiani amiamo i musei, perché hanno la nostra roba; ma noi Indiani li detestiamo anche perché hanno la nostra roba… Questo non è un museo soltanto sull’olocausto, che è importante, ma non è l’intera storia dei Nativi. Noi eravamo qui prima, siamo stati qui dopo, siamo qui ora e saremo ancora qui in un futuro molto lontano.”- Tratto dall’intervista riportata in Repubblica nel settembre del 2004,nell’articolo intitolato “Attualità degli Indiani” di S. Brandolini.

Oggi il National Museum of The American Indian a Washington mette in mostra la cultura dei Nativi americani.