In seguito alla definitiva crisi del
sistema comunista tra il 1989 e il 1991, gli Stati Uniti rimasero, di fatto,
l’unica superpotenza mondiale. George H. W. Bush, repubblicano, eletto
presidente nel 1988, lanciò contro Panamá, nel dicembre dell'anno successivo, la
più vasta offensiva militare dai tempi del Vietnam; rivolta a rovesciare e
catturare il dittatore Manuel Antonio Noriega, considerato uno dei maggiori
narcotrafficanti centroamericani, l’operazione causò anche la morte di diverse
migliaia di civili.
Nel 1991, in seguito all’invasione irachena del Kuwait, gli
Stati Uniti si posero alla guida di un’ampia coalizione internazionale lanciando
l’operazione nominata “Desert Storm” (“Tempesta nel deserto”): era cominciata la
Guerra del Golfo. In politica interna, George Bush si ritrovò ad affrontare una
grave recessione e un grosso debito federale; gli ulteriori tagli apportati
dall’amministrazione alla spesa sociale crearono tra le classi più
povere un
clima di esasperazione e nell’aprile del 1992, in seguito a un episodio di
razzismo di cui fu protagonista una pattuglia della polizia, nei sobborghi di
Los Angeles scoppiò una delle rivolte più violente della storia statunitense,
provocando in pochi giorni una sessantina di morti, centinaia di feriti ed
estese distruzioni.
Dopo il lungo periodo di predominio
repubblicano, i democratici si aggiudicarono le elezioni presidenziali del
novembre 1992 con Bill Clinton. Questi, che fu favorito nella corsa alla Casa
Bianca dalla partecipazione alle elezioni di un terzo candidato di area
conservatrice, Ross Perot, riuscì tuttavia ad affermarsi soprattutto recuperando
gli elettori che avevano abbandonato il Partito democratico durante l’era Reagan.
Clinton perseguì una politica di riforme che affrontasse sia
la situazione economica del paese, investito da una forte recessione, sia la
critica situazione sociale, onde impedire il ripetersi di rivolte. Clinton cercò
anche di attuare una vasta riforma del sistema sanitario e assistenziale
(affidandone lo studio a una commissione guidata dalla moglie Hillary), ma il
progetto venne tenacemente avversato dai repubblicani e dalle grandi compagnie
private di assicurazione.
In politica estera, Clinton confermò il sostegno al
presidente russo Boris Eltsin e sostenne energicamente le trattative di pace tra
israeliani e palestinesi, culminate nello storico incontro di Washington tra
Yitzhak Rabin e Yasser Arafat (settembre 1993). Gli Stati Uniti ebbero un ruolo
importante nella risoluzione della crisi bosniaca e lo sforzo della loro
diplomazia condusse agli accordi di Dayton (1995).
Alle elezioni di medio termine del 1994 il Partito democratico subì una cocente sconfitta e i repubblicani conquistarono la maggioranza in entrambe le camere del Congresso. La situazione del paese, migliorata sensibilmente dal punto di vista economico e occupazionale, presentava però gravi problemi legati alla povertà (soprattutto tra le comunità nere e ispano-americane) e alla sicurezza. Il paese conobbe anche l’intensificarsi di un fenomeno settario bianco, antigovernativo e razzista, e dopo il tragico episodio consumatosi a Waco nel 1993 (costato la vita a un'ottantina di aderenti a una setta estremista), nel 1995 un devastante attentato dinamitardo realizzato a Oklahoma City da un gruppo di “suprematisti” bianchi provocò 186 morti e centinaia di feriti.
Nel 1996
furono riconfermate sia la presidenza democratica sia la maggioranza
repubblicana nel Congresso. Il secondo mandato di Clinton si caratterizzò per un
ulteriore miglioramento dell’economia e dell’occupazione, ma anche per un forte
deterioramento della situazione sociale. A monopolizzare tuttavia la scena
politica nazionale fu per lungo tempo il “Sexgate” (o “caso Lewinsky”, dal nome
della stagista della Casa Bianca che agli inizi del 1998 aveva rivelato la sua
relazione con il presidente Clinton). Sottoposto a un’inchiesta meticolosissima
da parte del procuratore Kenneth Starr e in seguito accusato di falsa
testimonianza e di intralcio alla giustizia, Clinton fu oggetto di un’ossessiva
e morbosa campagna politico-giuridico-mediatica. L’offensiva nei confronti della
Casa Bianca non ebbe tuttavia gli effetti sperati dai repubblicani, che,
penalizzati nelle elezioni di “medio termine” (1998), si videro in seguito
bocciare la richiesta di impeachment a carico di Clinton.
In politica estera, Clinton si sforzò di rafforzare il ruolo
internazionale degli Stati Uniti. Confermata la sua ostilità a Cuba e alla
Libia, il presidente americano si lanciò in un’energica campagna contro il
fondamentalismo islamico che lasciò molto freddi i suoi tradizionali alleati
arabi come l’Arabia Saudita o la Giordania; questi due paesi si unirono infatti
alla protesta araba quando gli Stati Uniti minacciarono un nuovo massiccio
intervento militare in Iraq alla fine del 1998 (poi scongiurato grazie al
successo della missione diplomatica del segretario delle Nazioni Unite Kofi
Annan).
In seguito ai drammatici sviluppi del conflitto in atto tra
serbi e albanesi in Kosovo, nel febbraio del 1999 gli Stati Uniti presero parte,
con gli altri paesi del gruppo di contatto (Russia, Francia, Germania, Gran
Bretagna e Italia), ai negoziati di Rambouillet, rivolti a raggiungere un
accordo che garantisse l’autonomia della provincia serba e la sicurezza della
popolazione di etnia albanese e che scongiurasse il precipitare della crisi.
Dopo il fallimento dei negoziati, l’amministrazione statunitense fu la più
risoluta nel sostenere l’intervento armato dell’“Allied Force” (Forza Alleata),
una coalizione formata da alcuni paesi della NATO, tra cui l’Italia: tra gli
effetti collaterali del conflitto vi fu un deterioramento delle relazioni tra
Stati Uniti, Russia e Cina.
Nel corso degli ultimi due anni della presidenza Clinton l’economia del paese,
grazie soprattutto al settore delle telecomunicazioni e ai sorprendenti sviluppi
delle attività legate alla cosiddetta “new economy”, registrò un’ulteriore
crescita (nel maggio 1999 l’indice Dow Jones, triplicato sotto la presidenza
Clinton, superò per la prima volta 11.000 punti). I profondi sconvolgimenti
avvenuti nell’economia e nella società statunitense e la sempre più ineguale
distribuzione della ricchezza favorirono anche la diffusione del malcontento e
la comparsa di un forte movimento di critica alla globalizzazione, che, nato
all’interno dei movimenti della sinistra radicale ed ecologista, si estese
presso altri settori della società statunitense e nel mondo del lavoro; nella
primavera del 2000, tra i protagonisti della clamorosa protesta contro il
vertice di Seattle dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), vi
furono infatti i sindacati e centinaia di organizzazioni operanti nei più
diversi ambiti sociali.
A contrassegnare l’ultima fase della presidenza di Clinton,
fu anche l’affermarsi, sulla scena politica internazionale e in diretta
contrapposizione con gli Stati Uniti, del terrorismo di matrice islamica. Nel
1998 le ambasciate statunitensi di Kenya e Tanzania vennero colpite da due gravi
attentati. Clinton rispose con un nutrito lancio di missili contro il Sudan e
l’Afghanistan, diventati, nel corso degli anni Novanta, i principali santuari
della galassia radicale islamica e in particolare dei gruppi legati
all’organizzazione Al Qaeda di Osama Bin Laden. Durante il suo secondo mandato,
Clinton provò anche a rilanciare il processo di pace in Palestina, ma il suo
tentativo si arenò contro l’intransigenza delle leadership israeliana e
palestinese.
Primi passi della Presidenza Bush
La campagna
elettorale per la presidenza, che oppose nel novembre 2000 il vicepresidente Al
Gore, candidato dei democratici, a George W. Bush, si concluse con la vittoria
di quest’ultimo. Decisiva ai fini del risultato finale fu la candidatura di
Ralph Nader, popolare difensore dei diritti civili, che sottrasse al democratico
Gore una parte dell’elettorato, sebbene modesta (2,6%).
Quelle del 2000 furono tra le elezioni più incerte e
combattute della storia degli Stati Uniti, non solo per l’insolita
lunghezza della campagna elettorale – durata praticamente tutto l’anno – e per
la sua asprezza, ma anche per la confusione che caratterizzò la fase conclusiva.
Molte inchieste contestarono la validità del voto, furono tutte respinte dalla
Corte Suprema. Bush fu eletto presidente, ma, va ricordato, al suo esordio si
vide accolto, durante la tradizionale "passeggiata" dei neo eletti verso la casa
bianca, da decine di migliaia di manifestanti che, a suon di uova, costrinsero
il corteo ad accelerare.
Nei primi “cento giorni” – che nel sistema politico
statunitense rappresentano un importante segnale dell'indirizzo che la nuova
amministrazione intende seguire – il presidente Bush prese decisioni
significative circa molte questioni anticipate durante la campagna elettorale:
lotta all'aborto, alleggerimento della pressione fiscale, tagli ai finanziamenti
dei settori assistenziale, previdenziale e scolastico. Dopo timidi segnali di
ripresa economica, a partire dalla primavera 2001 l’industria statunitense
iniziò a perdere colpi; le maggiori perdite si ebbero nel settore della New
economy, con la chiusura di centinaia di imprese.
In politica internazionale le prime iniziative della nuova
amministrazione indicarono un netto cambiamento di rotta e una ridefinizione
degli obiettivi strategici americani. Annunciata dallo sblocco della vendita di
armi a Taiwan e da due aspri scontri diplomatici con Mosca e Pechino, la
strategia statunitense si delineò ulteriormente con la rimessa in discussione di
una serie di importanti trattati internazionali – sull’ambiente, sulle armi
batteriologiche, sulle armi leggere, sulle mine antiuomo – in attesa di
ratifica. Il nuovo vento “unilateralista” si manifestò anche con la diminuzione
dell’impegno nei confronti di alcune questioni internazionali (ad esempio il
conflitto nei Balcani e in Medio Oriente), costantemente nell’agenda della
passata amministrazione. Bush rilanciò inoltre il progetto del cosiddetto “Scudo
spaziale” – la National Missile Defense, Difesa missilistica nazionale – già
caro al presidente Reagan, incontrando la ferma opposizione della Cina e della
Russia ma anche la perplessità dei paesi dell’Unione Europea, preoccupati di una
pericolosa corsa al riarmo.