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Un esemplare di jambè djembè bongo, tipico tamburo maori.
Nel 1642 l’esploratore olandese Abel Tasman approda nell’arcipelago neozelandese: questo segna l’inizio della colonizzazione europea. L’immigrazione dei pakeha (bianchi) si fa massiccia nel secolo successivo, generando duri conflitti che hanno come oggetto la proprietà delle terre.

Il Trattato di Waitangi, piccola isola neozelandese, firmato nel 1840 da cinquanta capi tribali e dal governatore britannico William Hobson, si propone appunto l’obiettivo di regolare i rapporti fra le due parti. Il documento segna  la nascita della Nuova Zelanda. Questo trattato, però, non viene incorporato nella Costituzione. I tre principi fondamentali del trattato erano: collaborazione, partecipazione, consultazione.
Negli anni successivi aumenta velocemente il numero degli immigrati europei, provenienti spesso dalla Gran Bretagna. Fin dall’inizio il Trattato di Waitangi si dimostra lettera morta, e le contese territoriali danno luogo a varie guerre. In varie occasioni i soldati britannici devono soccombere ai Maori.
La guerra e le malattie di origine europea decimano i Maori, che passano dai 256.000 del 1871 ai 45.000 del 1874. Unico sprazzo di luce in questo periodo di declino, nel 1867 quattro maori sono ammessi in Parlamento.
All’inizio del Novecento i Maori danno vita a diverse formazioni politiche, come il Partito dei Giovani Maori ed il Ratana. Quest’ultimo, di ispirazione cristiana, chiede che il Trattato di Waitangi venga incorporato nella legislazione vigente.
Fino all’inizio degli anni Trenta i Maori vivono quasi esclusivamente nelle zone rurali, ma è solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che l’urbanizzazione diventa un fenomeno visibile. Poco più tardi inizia il loro incremento demografico, accompagnato però da quello della mortalità infantile: nel 1960, un bambino maori muore entro il primo anno molto più facilmente di uno bianco. La discriminazione è diffusa, ma nelle città meno che nei piccoli centri; trovare un alloggio è più difficile che trovare un lavoro. Nel 1990 viene fondato il Congresso nazionale maori e oggi sono presenti in tutte le forze politiche, ed esiste anche un partito maori. Ma la storia odierna dei Maori è anche un’altra, segnata dall’alcoolismo, dall’abbrutimento e dalla violenza. Diversamente da molti altri popoli indigeni, che abitano solo certe regioni del paese in cui si trovano, i Maori abitano in tutte le parti della Nuova Zelanda, e le terre che reclamano sono sparse un po’ ovunque. Questo rende molto difficile una piena attuazione del Trattato di Waitangi.
La cultura maori era entrata nel pieno della fioritura già al tempo della scoperta di James Cook, esploratore, cartografo e navigatore britannico, nel 1769. L'organizzazione sociale era ben definita su basi aristocratiche. Tutta la popolazione era suddivisa in grandi tribù, indipendenti , i cui rispettivi antenati si facevano risalire ai mitici navigatori della grande migrazione oceanica. Ogni tribù era divisa in tribù secondarie, a loro volta ripartite in tante hapu, famiglie.
Maori "ornati" da tatuaggi tipici della loro etnia.

I sacerdoti , tohunga, erano figure molto importanti per la quantità di importanti mansioni che erano loro affidate. Essi  erano astrologi, botanici, poeti, storici e precettori dei giovani capi e dei figli dei nobili. Vi era, inoltre, il ceto medio, composto soprattutto dai guerrieri. Gli schiavi, ultimi nella società, erano considerati semplici oggetti di cui ciascuno poteva disporre a proprio piacimento. I re, ariki, non avevano una funzione molto importante nella società ma venivano , comunque, consultati in caso di necessità.
Una grande importanza rivestivano tra i Maori le usanze che riguardavano la nascita e il matrimonio. Quando la moglie di un capo si accorgeva di essere incinta, si allontanava dalla casa del marito e andava a vivere in un'altra costruita apposta per lei. Al momento del parto si trasferiva in una capanna provvista di uno speciale "letto di travaglio". Le altre donne invece partorivano indifferentemente all'aperto e al chiuso. Il sacerdote, provvedeva a rendere il neonato libero da sortilegi, infatti al momento della nascita il bambino era considerato impuro. Per il "battesimo" il tohunga doveva recitare cantando i nomi di tutti gli antenati del bambino e se questi si muoveva o piangeva durante il passaggio di un nome, quello stesso nome gli veniva imposto. I Maori, ricchi di decine di cerimonie e riti per ogni avvenimento della loro vita, anche il meno importante, si sposavano senza alcuna formalità: una donna andava a dormire una notte nella casa del suo uomo e la loro unione veniva subito codificata agli occhi di tutta la tribù. I giovani erano liberissimi di amarsi e altrettanto liberi di scegliersi.
I Maori erano un popolo di guerrieri in perenne atmosfera di allarme, giacché nei villaggi lo stato di guerra era praticamente ininterrotto e il fattore sorpresa costituiva un elemento importante del successo. Quando una spedizione stava per partire, il sacerdote doveva fare i suoi presagi; piantava tanti bastoncini nel terreno quanti erano i capi e i guerrieri migliori e dal numero di quelli che cadevano al levarsi della brezza notturna poteva prevedere le perdite che si sarebbero subite. Molto solenne era la cerimonia del taglio dei capelli che precedeva la partenza per una spedizione guerresca: tutti i tohunga del villaggio recitavano degli incantesimi davanti alla fila dei comandanti schierati al centro della piazza, poi, mentre il sacerdote officiante chiedeva il soccorso degli dei, procedevano alla loro completa tosatura, operazione in cui a una ragione mistica se ne aggiungeva una pratica, perché una testa rasata non forniva nessun appiglio all'avversario nel corpo a corpo con la mazza. L'armamento di un guerriero maori era molto semplice, ma nello stesso tempo perfetto nella sua funzionalità micidiale. Lo strumento di lotta più comune era una sorta di mazza corta a forma di spatola, lunga dai trenta ai quaranta centimetri, larga dieci e spessa quattro, con i bordi e la punta rotonda molto affilati. La più pregiata era di giada verde e si chiamava merè, ma ve ne erano di altri tipi in basalto (patu onewa), in osso di balena (patu paraoa) e in legno (tumera).

Altra arma usatissima era il taiaha, o hani, una sorta di spiedo di legno duro lungo un metro e mezzo circa. Su una estremità recava scolpita una faccia atteggiata in un'orribile smorfia, con la lunga lingua sporgente a simbolo di sfida; la zona dell'impugnatura era ornata con una criniera gialla di cane e piume rosse, l'altra estremità era a forma di spatola. Vi erano poi il paraoa roa, una costola di capodoglio tutta scolpita, la lancia lunga fra i quattro e i cinque metri, di legno durissimo, e la fionda.

 
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