"Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti,
nessuno avrà diritto al superfluo,
finché uno solo mancherà del necessario."

Salvador Diaz Miròn


 


un medico che cura gli abitanti
di una bidonville

Nel Terzo mondo il metodo più conosciuto per “misurare” la povertà è quello che individua le fasce di popolazione con un reddito inferiore a uno o due dollari il giorno; ma non si ottengono dati precisi: infatti nei paesi in via di sviluppo una parte consistente della vita economica si basa sull’autoproduzione o sul baratto.
Le difficoltà della statistica sono dovute anche alle varie situazioni della popolazione, perché città e campagna, economia globale (cioè che si basa su modelli globalizzati) ed economia rurale esprimono situazioni di vita diverse.
Esistono in Africa due povertà, quella rurale e quella urbana; addirittura tre con quella dei disperati dei campi profughi per i quali il problema immediato non è lo sviluppo ma la sopravvivenza. Ciascuna povertà va affrontata con una distinta strategia.
La Tanzania in base alle statistiche dell’Onu, è uno dei paesi più poveri del mondo. C’è chi dice che sia anche tra i più corrotti. Ma è anche un paese che ha goduto di un lungo periodo di pace, che non soffre i mali del tribalismo e della xenofobia.
E’ lo specchio di quello che l’Africa nera è, e potrebbe essere, se non è travagliata dalle guerre e dalle catastrofi naturali: ha un grande potenziale turistico (tre nomi: Zanzibar, Kilimangiaro, Ngorongoro), miniere d’oro e pietre preziose, un’agricoltura non afflitta da siccità epocali. Non che la gente comune in Tanzania se la passi bene, tutt’altro. La vita media è di poco superiore ai 50 anni per via dell’Aids che sta spopolando intere classi di età, lasciando i nonni ad allevare i nipoti. Il 29% della popolazione è analfabeta. Il 36% non è in grado di soddisfare le esigenze più elementari e il 19% non è in grado di alimentarsi adeguatamente. Però l’economia oggi liberalizzata ha ricominciato a muoversi dopo anni di stagnazione, le organizzazioni internazionali e quelle non governative sono attive e si avverte la presenza di una classe dirigente in crescita, con tecnici di buon livello culturale e una società civile, anche femminile, strutturata e attenta.


nelle tribù c'è molta solidarietà

Bisogna però rendere sopportabile la povertà rurale. Nei villaggi africani in condizioni normali non si muore né di fame né di freddo. La solidarietà interna alle famiglie e ai nuclei tribali consente di far fronte ai problemi ordinari. Nella famiglia tutti lavorano, compresi i figli sopra i cinque anni. La ragazza che aiuta la madre (o le madri) in casa, il bambino che si occupa delle bestie o aiuta il padre nei campi, svolge una occupazione che lo fa sentire utile e lo prepara alla società degli adulti. Non è certo un quadro idilliaco: sarebbe meglio che i ragazzi andassero a scuola. Ma quando mancano maestri e libri, la bottega del padre o la cucina della madre è l’unica vera scuola esistente.
Non a caso, gli esperti delle organizzazioni internazionali distinguono tra child work, ampiamente diffuso e fisiologico in una società arretrata, e child labour, che deve invece essere combattuto con ogni mezzo. Si ha child labour quando i ragazzini sono mandati a lavorare sotto padrone nelle piantagioni di caffè o nelle miniere.
Oppure quando le bambine vanno a servizio in città e finiscono nei bordelli o quanto meno stuprate dal padrone di casa. O, sempre in città, nel caso delle bande di ragazzini al soldo dei raccoglitori di immondizia o di altre organizzazioni ai margini della legalità.
La vita nei villaggi può contare su un tessuto sociale che nelle città si disgrega. E così, nelle grandi metropoli africane la criminalità è in costante aumento. Una parte consistente della popolazione urbana vive di piccoli traffici, di scambi che non producono un effettivo valore aggiunto, mentre il  passaggio dall’ economia statalizzata al libero mercato ha messo in crisi molte attività artigiane e ha ridotto sostanzialmente l’occupazione industriale senza peraltro far decollare, almeno per ora, nuovi investimenti. E’ il prezzo di una riforma economica necessaria, ma che scarica i costi iniziali sui  più deboli. A noi europei le città africane possono sembrare un inferno, ma non c’è da farsi illusioni: per gli africani sono un’irresistibile calamita. Chi può lascia la campagna per affrontare le lusinghe della baraccopoli. Troppa è la  differenza nella qualità della vita: la possibilità di concedersi qualche lusso proibito a chi vive sostanzialmente in un’economia di baratto, di potersi permettere una televisione o magari solo una birra gelata al baretto col frigo davanti a  casa.


se non ci sono i maestri i bambini
vengono mandati a lavorare per aiutare
economicamente la famiglia

Di questo passo, nel 2030 quasi 800 milioni di africani, pari al 55% della popolazione, vivranno nelle metropoli.  E’ una  situazione esplosiva, di fronte alla quale le iniziative internazionali, per quanto apprezzabili, sono solo palliativi. E’ necessario offrire ai giovani valide ragioni di permanenza in campagna o di ritorno ai villaggi. Solo se si riuscirà a  creare occasioni di reddito e condizioni di vita adeguate sul territorio sarà possibile evitare che la popolazione continui a  riversarsi nelle metropoli. O che emigri nei paesi industrializzati.
Sotto praticamente qualsiasi punto di vista, i tentativi di portare lo sviluppo in Africa hanno ottenuto dei risultati inferiori rispetto a quelli di qualunque altro continente. La percentuale di persone che vive in condizioni di povertà nell’Africa sub-sahariana è la più elevata del mondo: attualmente ci sono 1,2 miliardi di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, mentre circa metà della popolazione mondiale sopravvive con meno di due dollari al giorno. Avendo poche possibilità di scelta e opportunità, essi sono condannati a vivere delle vite soggette a fame, malattia, analfabetismo e disoccupazione. Molto frequentemente, essi non dispongono di cibo, acqua potabile, servizi sanitari di base, istruzione, assistenza sanitaria e moderni servizi energetici. Inoltre, mentre durante tutti gli anni ’90 le esportazioni dei paesi in via di sviluppo sono aumentate, le esportazioni dell’Africa hanno registrato degli incrementi decisamente contenuti, e la quota del commercio mondiale della regione è diminuita. Infatti, evitata dalla globalizzazione, la quota dell’Africa del commercio internazionale è diventata minuscola e, per giunta, essa sta diminuendo.
In diverse nazioni imperversano tuttora i conflitti, l’HIV-AIDS ha avuto un impatto devastante, il fenomeno della desertificazione va diffondendosi e il processo di deforestazione prosegue. Allo stesso tempo, l’assistenza internazionale destinata all’Africa è andata riducendosi.

Secondo l’ONU la povertà in Africa è rimasta indifferente alla crescita economica. Infatti, mentre la performance macroeconomica in Africa è migliorata dagli anni ‘90, l’impatto sulla disoccupazione sembra essere minimo. La crescita annuale media del PIL è aumentata stabilmente, da meno del tre per cento nel 1998 al 4,6 per cento nel 2004, eppure, la disoccupazione oscilla intorno al 10 per cento dal 1995, ma il quadro è molto più drammatico, perché questa cifra non include i numerosi lavoratori poveri e coloro che hanno rinunciato a cercare un lavoro dignitoso. Ciò anche a causa del fatto che la maggior parte della popolazione non ha impiego o fonti sicure di reddito. La creazione di lavori più dignitosi, accessibili ai poveri, costituisce lo strumento più efficace per affrontare la povertà.
I
prerequisiti per la creazione di occupazione comprendono la trasformazione delle economie africane da un’agricoltura tradizionale a bassa produttività, verso un’agricoltura intensiva ad alto valore­ e verso i settori in crescita dell’industria e dei servizi, traendo vantaggio dalle opportunità della globalizzazione.
Nella gestione delle economie africane è dunque richiesta una leadership politica che dia priorità alla creazione di posti di lavoro su ampia scala nei programmi di sviluppo nazionali, e comprenda strategie di riduzione della povertà.
Tuttavia c’è anche chi ha idee differenti sul problema africano. Alcuni, infatti, pensano che la responsabilità dei fallimenti dello sviluppo africano, malgrado quasi mezzo secolo di indipendenza dalle dominazioni europee, siano fondamentalmente dei suoi leader politici. Anzichè usare lungimiranza e originalità nelle loro scelte pubbliche, le autorità africane continuano ad abbracciare politiche che tolgono potere alla società africana. Tuttavia adesso devono cercare di modificare e orientare in maniera diversa la posizione dell’Africa in tema di economia politica globale, verso una politica di indipendenza, mirando ad una pianificazione economica continentale.

 


Torna a problemi
in Africa

Torna a Stati
Africani