L’Italia alla metà del ‘600

L’Italia che possiamo discernere intorno alla metà del secolo XVII è certamente spoglia di gran parte dei suoi privilegi e delle sue prerogative. Le sue reti mercantili, non ancora scomparse, non dominano più né il Mediterraneo, che ha perduto molta della sua importanza, né il resto del mondo raggiunto dall’Europa, che continua a crescere economicamente e a d aumentare di peso e d’importanza. Se i suoi porti restano ancora animati dal movimento delle navi, queste battono assai spesso bandiera straniera. Tanto più che se c’è un porto che conosca un’eccezionale prosperità è Livorno, la strana città creata dai granduchi di Toscana, dove il mercante ebreo opera, lontano ma attento, al servizio del capitalismo degli olandesi. In questo caso non dobbiamo vedere una prova di vitalità, ma di asservimento: l’esatto rovesciamento della situazione di un tempo. Anche la banca italiana non ha più l’antico prestigio: il denaro genovese rimane a Genova, e Venezia vale come scuola per gli apprendisti banchieri, non più come importante centro finanziario. L’università di Padova non è più il punto di incontro dell’Europa intellettuale. E l’abito maschile dai vivaci colori, la parrucca incipriata, le mode femminili annunziate mediante l’invio di manichini da Parigi si impongono al gusto italiano.
Fra le perdite subite dall’Italia dobbiamo scrivere a lettere nere le forti diminuzioni di popolazione in seguito alle pestilenze: quella di Venezia (1629), quella di Milano e di Verona (1630), quella di Firenze (1630-31), quella di Genova e di Napoli (1656), ecc.Comunque tutta l’Europa ha subito colpi analoghi, e scongiurati questi flagelli, l’Italia è rimasta pur sempre il paese con maggior densità di popolazione nel continente.
La supremazia italiana è scomparsa, ma se si eccettuano alcuni gruppi di patrizi ed un tipo di artigianato, piuttosto ristretto di numero, la vita italiana non è molto mutata.
Quello che la recessione italiana rileva intorno al 1650 è un paese che continua a mandare avanti, come sempre, il suo lavoro agricolo e artigianale, almeno per quanto è possibile. Da tempo è cominciata la lotta insidiosa contro le zone inondate e paludose, dove infuria la malaria. Il risultato, ma anche la causa, più spettacolare è l’ampio fenomeno per cui le classi ricche si rivolgono alla terra e al suo sfruttamento. Si tratta di un largo processo di ruralizzazione delle classi possidenti italiane: una rifeudalizzazione. Ben presto a Venezia i grandi palazzi del Canal Grande conteranno meno delle lussuose ville in riva alla Brenta.
Vero è che queste campagne verranno sfruttate in modo "capitalistico", perché ciò che può apparire semplice pietrificazione del capitale nelle dispendiose residenze secondarie corrispose di fatto a intelligenti investimenti in una agricoltura produttiva.
Mentre in Spagna la crisi che coinvolge tutta l’Europa, ma anche le guerra che deve affrontare nella prima metà del ‘600 e il venir meno dell’argento americano, hanno provocato anche una crisi della agricoltura, che viene abbandonata dal denaro dei ricchi, l’Italia invece nel secolo XVII potrà contare su una solida agricoltura che almeno garantirà il cibo alla popolazione, eccettuati gli anni delle gravi carestie. Sussistono ancora un’accumulazione del capitale, una possibilità di ripresa, mentre si conservano alcune industrie, quanto meno quella della seta o i prodotti di Napoli, accanto ad un commercio che non è soltanto passivo.

Torna