Intervento di Silvia Romani

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Preside (Prof. D. Guglielmo)

Dirigente Scolastico

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Giorno e notte non avete un istante (il riferimento è agli esseri umani),

nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.

Dialogo “Le Muse”, con cui si chiude la recensione di Untersteiner a Pavese.

Proprio la necessità di illuminare il silenzio delle origini pare essere il motore immobile da cui scaturisce la fisiologia del mito di Mario Untersteiner dalla quale, di fatto è indispensabile partire per comprendere la genesi del suo approccio al mito e sin da questo resumé tardivo (i dialoghi con leucò sono, com’è noto, successivi alla prima edizione della fisiologia) si intuisce come il lavoro di Untersteiner sul mito si possa collocare in un prima ideale che precede l’età del disincanto negli studi sul mito antico.

Precede, insomma, quel reductionism in scope and in method di cui parlava l’indologa Wendy Doniger a metà degli anni ’90 del secolo scorso, riferendosi ai suoi studi sui miti indiani.

La linea di demarcazione fra l’età aurorale in cui tutto è sembrato possibile e la condizione di ora, in cui al contrario sembra prevalere un’antiquaria della ricostruzione mitica, la predilezione per la genealogia, l’analisi dei micromondi illuminati dalle pagine di Pausania o da un verso di una tragedia… ecco, questa linea di demarcazione è perfettamente visibile ma non facile da tracciare e va probabilmente messa in stretta relazione con l’ascesa e la caduta dell’eidolon della grande dea madre, la potnia che ha dominato non solo una stagione di studi, ma anche l’immaginario del pubblico colto di tutta Europa nel primo quarto del XX secolo.

Certamente Mario Untersteiner non praticava il reductionism in scope né, tantomeno, il reductionism in method come è facile intuire anche soltanto leggendo l’esergo con cui si apre la famosa lettera del 18 marzo del 1977, indirizzata a Pola de Dominicis e Anna Testa:

Puntavo in alto!

A “consuntivo”, come dichiara lo studioso stesso, del lavoro di una vita:

Io, devo ammetterlo, fin da ragazzo, quando decisi di studiare lettere, puntavo in alto: o tutto o niente. Posizione pericolosa, perché, se non fossi riuscito, mi sarei creato una sorda infelicità, che ho vista in alcune persone che non riuscivano ad arrivare alla meta.

Comunque io ci riuscii, nonostante la parentesi fascista che mi aveva sbarrato la strada.

Questa lettera, densissima e molto citata dagli esegeti del pensiero di Untersteiner, si chiude con l’allusione alla tragedia della sua cecità, in parte collegata a un peccato di hybris, una punizione per il “mio orgoglio e la fiducia in me stesso”.

Impossibile non mettere in relazione il bilancio del ’77 con le parole con cui Untersteiner descrive la physis del mito, nella Fisiologia del mito:

il mito è una nebulosa fosforescente; è la scia di una cometa che piano piano trascolora in alto mentre sulla terra i micenei invadono creta, i dori calano a raffreddare la passionalità mediterranea, gli elleni migrano, i tiranni sorgono e cadono, la classe media si forma, il mondo delle poleis si dissolve.

Si leva l’astro di Omero a cui il razionalismo cinico di Senofane farà da temporanea epigrafe. Trionfa il pensiero filosofico come gemello diverso del mito; arrivano l’allegoria, l’etimologia, la storia a salvare il mito e i suoi dèi dalla fine.

La trasparente luce di Apollo cala sulla tragedia dionisiaca; appare la Sofistica come la sintesi fra il cristallo teso di Pindaro e il dionisismo tragico. Si avverte lo sbriciolarsi del mito in Euripide e in Tucidide, che segue di pari passo il rovinare delle mura della polis e poi, ancora, il tentativo di farlo risorgere dalle ceneri della fenice che riprendono nuova vita nei miti platonici.

Il destino personale dello studioso, quello sguardo levato in alto, da sempre, come lui stesso afferma, è quindi proteso verso la nebulosa fosforescente del mito, alla ricerca della “voce” che si leva dal silenzio delle origini.

Nel contempo, la Fisiologia ha certamente a che fare con una ricerca sulla physis del mito, ma finisce, o inizia, con l’intercettare la physis profonda di Mario Untersteiner. Una dimensione emotiva della riflessione sul mito, la ricerca di quell’assoluto che, solo, quieta la belva dell’infelicità sorda che Untersteiner tanto temeva. Meglio essere
hybristes, quindi! Al pari di tutti i ritratti di filosofi, poeti e storici, di cui la galleria della Fisiologia del mito è affollata.

Come forse già si intuisce da questa breve introduzione, la Fisiologia del mito del mito NON è semplicemente un tentativo di ricostruire complessivamente l’origine mitica della civiltà greca, ma è soprattutto una storia del pensiero umano: una storia “sociale” e letteraria. Sul brodo di coltura fecondo del mito si intreccia e si innesta il binomio filosofia e tragedia che di fatto costituisce lo scheletro della ricerca e dell’esperienza umana di Untersteiner in un solo apparente binomio insoluto mythos e logos che pare costituire l’ossatura del suo pensiero, in particolare negli anni terribili della guerra.

Non a caso, negli stessi anni del resto, Cesare Pavese andava elaborando la sua concezione dinamica dell’arte in continuo magmatico rivolgimento fra le due polarità di mito e di logos, che sarebbe poi approdata nel capolavoro dei Dialoghi con Leucò, la cui genesi va assegnata alla cosiddetta “stagione romana”, fra il ‘45 e il ‘47 (Einaudi apriva la filiale romana), che probabilmente è stata influenzata dalla Fisiologia del mito, per lo meno negli ultimi dialoghi, come pensa Eleonora Cavallini.1

Il fatto che la Fisiologia del mito fosse immaginata dal suo autore a tutti gli effetti come una storia letteraria è confermata anche dal rinvenimento nell’archivio Untersteiner di un manoscritto intitolato Letteratura greca in due redazioni (del ‘35 e del’ 42) che corrispondono di fatto al nucleo della Fisiologia del mito, come ha recentemente annunciato Alice Bonandini l’agosto scorso nella giornata di Velia. La Fisiologia del mito era pensata originariamente come un’overture alla riflessione sulla sofistica che avrebbe poi condotto a una monografia e all’edizione critica. Naturalmente ha il periodare mosso che riflette gli interessi di Untesteiner: molti sofisti e poco Aristotele, Pindaro e non i monodici, il trionfo della filosofia eleatica, Eschilo più di Euripide; poco ellenismo…

Il mito, in questo affresco di rara ampiezza prospettica, è un animale vivo che nasce, giunge a maturità, si dilata, si contrare, muore e poi, immancabilmente, sino alla fine, sino alle pagine dedicate all’avvenire, rinasce.

La biologia del mito ingloba o pare inglobare molta parte degli interessi di Untersteiner: i presocratici, i lirici, la tragedia: la parola “genetica” ricorre in più punti (per Eschilo e per Pindaro per esempio).

Nel contempo, l’oggetto mitico è immaginato come una cartina di tornasole delle evoluzioni storiche che attraversano la Grecia: così la vittoria nelle guerre persiane viene messa in relazione con l’ultimo, vero, trionfo del mito, mentre la caduta rovinosa della guerra del Peloponneso coincide con la sua disgregazione.

Così Untersteiner uomo, antifascista che sperimenta l’atroce asfissia, non solo storica, ma anche culturale, del tempo di guerra, riversa nella sua teoria del rapporto fra mito e storia l’idea osmotica del rapporto binario fra sopra, il mondo degli dèi, e sotto, il mondo degli uomini; l’arte quindi, come forma di resistenza civile, di resistenza al male: un convincimento che certo Untersteiner condivideva, fra gli altri, con Cesare Pavese.

La polarità mythos-logos pare trovare fin da subito nell’opera una sua partitura cronologica:

Che l’evoluzione del pensiero greco, dalle sue più remote origini alla sofistica si possa definire come un graduale trapasso dal mito al logos, può considerarsi come un principio ormai chiaro”, afferma Untesteiner in una delle prime pagine della Fisiologia (p. 8).

In verità, questa dichiarazione programmatica verrà corretta dalle oltre 500 pagine che seguiranno. Il rapporto fusionale fra mito e logos troverà un suo andamento ondulato, simile a quello delle mareggiate… e quando sembrerà che per il mito sia arrivato il momento del de profundis, rinascerà invece dalle sue ceneri, fino all’ultimo, fino a quello sguardo gettato sull’avvenire (all’ellenismo), che restituisce alla dimensione mitica l’incanto delle origini.

Quando gli eventi storici dell’età di Alessandro, così straordinari da offuscare lo splendore di qualsiasi dio, dissipano “le energie primigenie” e sembra dominare un nuovo nume, il cieco caso, la Tyche, per cui si erigono templi, in quel preciso momento, ricorda Untersteiner, sorgono:

divinità più nell’ombra, meno definibili, più immateriate, negli aspetti della natura, nella purità della notte, nelle ombre cerule dei boschi, che serbavano un senso religioso più puro, più profondo, più augusto. La fede popolare se ne era impossessata e le manteneva p
iù tenace.”

In verità qui Untersteiner accoglie una citazione di Ettore Bignone (dalla Letteratura greca), ma è impossibile non leggere, in questo richiamo, il grande tema del dio paesaggio, di cui, di fatto, è intriso il pensiero pavesiano, ben al di là dei Dialoghi con Leucò. Qui, nella chiusa della Fisiologia, in queste considerazioni sul crepuscolo borghese della mitologia antica si avverte il tentativo di riportare a un centro primigenio, a una sorta di scaturigine primaria narrativa la genesi del racconto mitico, con un’intenzione che certamente non è quella di decretarne la fine a favore del trionfo del logos.

Persino la splendida sezione dedicata a Platone inventore dei miti, con grande originalità si stacca dall’immagine consunta del filosofo come distruttore dell’impianto mitologico tradizionale. Al contrario, il logos platonico per Untersteiner è lo strumento attraverso cui ridar vita, come a una fenice, alla potenza immaginifica del mythos.

*****

Scendendo un po’ più in dettaglio, mi sembra di poter dire che la Fisiologia si possa definire in un’architettura tripartita:

  • Una prima sezione, molto ampia, è dedicata al sostrato mediterraneo
  • Una seconda, il cuore dell’opera, è dedicata alla ricerca dell’aitia, della causa: in linea con gli interessi di Untersteiner studioso e uomo, a cui si lega il grande tema della “morte apparente” della tonalità passionale mediterranea che coincide, come si diceva, con il crepuscolo della storia politica e sociale greca.
  • L’ultimo breve quadro, intitolato “Sguardo all’avvenire”, lega inesorabilmente il fato dell’astro-Alessandro Magno con la conclusione della “metamorfosi subita dal mito dei Greci”.

La prima sezione occupa, all’interno dell’opera, la funzione dell’archeologia tucididea. Vi trova posto l’analisi del sostrato mediterraneo del mito greco. È il trionfo della dea madre, la potnia theron, regina delle fiere che rappresenta e ingloba un’idea diffusa di femminilità, e che regna incontrastata, con il suo giovane paredro, non solo e non tanto, verrebbe da dire, sui palazzi minoici e sui loro abitanti, ma soprattutto sugli studi con vista degli studiosi inglesi, italiani e tedeschi a cavallo fra Ottocento e Novecento.

Anche Pavese subisce il fascino remoto di questa antica regina mediterranea, immaginando nel suo dialogo La belva, un’Artemide tutt’occhi, incarnata nel corpo magro di una ragazza adolescente.

È questa l’età, per Untersteiner, di un’esperienza osmotica, sensoriale con l’intero universo è il tempo in cui:

Il mito sta dunque fra la religione e la metafisica e perciò guarda al mondo con un metodo che non si serve delle leggi del pensiero nella maniera a noi solita.”

Creta è il centro di un moto centrifugo e centripeto: è il fulcro della spiritualità indoeuropea. Proprio a Creta, nell’età del bronzo, sarebbe germogliata, e mai verbo fu più appropriato, quella contiguità fra sonno delle piante e morte degli uomini, fra la resurrezione delle anime e il rinnovarsi della vita in primavera che è il principio di una religiosità a matrice agraria e dionisiaca. Una dimensione estatica del divino, un rapporto sentimentale con la divinità oggetto di sentimenti appassionati, fonte di gioia di vivere, sullo sfondo del ciclo vita-morte-risurrezione “quale le divinità femminile e maschile compiono, imprimendo così un senso alla vita universale”.

In questo quadro Untersteiner recupera un esempio caro a Pestalozza che immaginava nei suoi lavori sull’eterno femminino un’Arianna dea della vegetazione, rapita da Teseo, che Privitera considerava il doppio di Posidone, e consegnata a una morte apparente, alla quale l’amore trionfante, vegetale di Dioniso la strappa riportandola alla vita.

1 È importante ricordare che ricordarsi che nella recensione ai Dialoghi di Untesteiner, pubblicata nel dicembre del 1947, l’accento è posto proprio sulla profonda conoscenza di Pavese del sostrato egeo, mediterraneo ed ellenico della civiltà greca.

Al di là dei numerosi esempi che ancora si potrebbero fare di questa linea interpretativa, occorre dire però che gli abiti della signora delle fiere e degli uccelli vanno bene un po’ per tutte le stagioni e per tutte le taglie, potremmo dire.

La riflessione Untersteiner su questo tema appare, in ogni caso, come spesso capita leggendo le sue pagine sul mito, densa di intuizioni profondamente innovative.

Per esempio nell’accento sulla dimensione estatica della religiosità minoica che solo di recente è diventata la lettura prevalente del rapporto che i minoici intrattenevano con il divino.

Con le scoperte archeologiche dei santuari sulle vette e con la ricostruzione della dimensione performativa, dei rituali che vi avevano luogo, si è ora portati a ritenere, in assenza della letteratura, di un’epica mitologica minoica, che si trattasse di una venerazione più legata alla performance, legata ai gesti, ai momenti rituali, in particolare alla dimensione estatica. (così l’archeologa irlandese Christine Morris).

I principi con i copricapi piumati, le divinità avvolte nelle spire dei serpenti: queste remote figure divine circondate da gigli, da cuccioli di fiera, sarebbero i protagonisti di un pantheon a cui l’epica, dopo tutto, non serviva. Bastava, tra virgolette, la danza.

Il fascino esercitato da quest’antica concezione del divino, secondo Untersteiner, era il senso di unità delle cose, nell’unità del divino. Una sensazione che accontenta lo spirito e proprio questo effetto placebo sembra essere la chiave per questa petizione all’unicità.

Nella civiltà micenea, al contrario, l’individuo, nella sua forza creatrice maschile, si afferma con una più compiuta coscienza di sé. Il senso della maternità scompare.

Di più, per Untersteiner, l’approdo, intorno al 2000 a.C., alla mitologia degli Achei, porta con sé la fine di un’idea di femminilità potente e superiore e la frantumazione di quest’immagine ideale in infinite ipostasi di donne, irrimediabilmente, colpevoli.

Attraverso il medium, culturale e religioso, del culto eroico, quest’unità iniziale, mobile e duttile, che aveva permeato il mondo minoico, si rifrange nel pluralismo degli Achei, che darà vita a un pantheon ben più affollato di quello minoico. È la grande creazione del politeismo.

L’universo degli dèi omerici viene descritto come la versione imbalsamata, mummificata del mondo minoico. Un cielo statico e incombente, fragile ed eterno nello stesso tempo, in cui solo certe coloriture isolate, solo alcuni singoli momenti ricordano quella che è stata la fragilità inquieta del dio minoico. Per esempio Atena occhio di civetta ricorda la dea mediterranea signora degli uccelli: la potnia ornéon.

La più bella eredità dei Minoici fu lo spirito, quella dei Micenei fu la ragione, sostiene Untersteiner. È l’eterno conflitto fra mythos e logos e questa dicotomia troverà poi una ricomposizione nel grandioso affresco che U. dedica alla tragedia in quel punto in cui, nel cuore dell’opera, la trasparenza apollinea della luce profusa da Pindaro sulle vicende mitiche si riverserà nella problematica dionisiaca che affonda le sue radici lontane nell’estasi muta dei minoici e che si declinerà nella più grande incarnazione del mito, secondo Untersteiner, la tragedia attica.

Nell’edizione del ’72, questa prima parte dell’opera rappresenta, di fatto, l’unica sezione che subisce modifiche evidenti rispetto alla prima del ’46. Le modifiche riguardano quasi esclusivamente la necessità di dar conto della decifrazione della lineare B a opera di Michael Ventris, annunciata per radio, alla BBC, nell’estate di vent’anni prima, nel 1952. Proprio la necessità di dar conto di quella storia scritta in un “libro di figure senza testo”, come diceva efficacemente Angelo Brelich in una comunicazione del lontano ‘67, spinge Untersteiner a riscrivere almeno parzialmente la parte che riguarda quella sovrapposizione cruciale fra crepuscolo della civiltà minoica e alba dei micenei.

Quest’inserzione successiva non intacca tuttavia il nucleo della riflessione di Untersteiner sul rapporto fra minoici e micenei che rimane ancorata a una stagione di studi pesantemente influenzata dall’idea di inizio secolo veicolata in sostanza dalla grande dea mediterranea.

I riferimenti bibliografici in questa parte non superano la Manica: il confronto è con gli studi classici di Pestalozza, di Brelich, sugli eroi in particolare. Qualcosa di Nilsson e di Friedrich Otto, ma nessuna esplicita allusione, al di là della scoperta della lineare B, alla rivoluzione prospettica introdotta nella storia degli studi.

Se la prospettiva qui talvolta risulta un po’ schiacciata da un approccio un po’ vetusto alla riflessione sul mito, in verità, ancora una volta, la modernità del testo si ritrova nelle intuizioni del suo autore, che intravede, con assoluta originalità, nello stretto perimetro del sema, del taphos eroico, della tomba insomma il motivo propulsore della narrazione mitica micenea e poi ellenica.

Il cuore del libro, il cuore del mito

Nel cuore, anche fisico del libro, dopo la tragedia, troviamo il passaggio alla ricerca della causa (aitia): il mito diventa filosofia che si trasforma in storia.

È la stagione della filosofia ionica, di Talete, della rinuncia all’antropomorfismo di Senofane e, soprattutto, è il trionfo della luce pindarica che costituisce, per Untersteiner, l’antecedente della grande creazione filosofica dell’idea platonica: un bello poliedrico, il “complesso, rilievo infinito delle cose che si precisano con una chiarezza lineare, dal valore imperituro che poi calerà con tutta la sua divina trasparenza apollinea sulla passionalità dionisiaca dando vita alla tragedia.”

Basta ampliare, anche di poco, lo sguardo oltre la Fisiologia, e conoscerne l’originaria funzione per poter anticipare i ritratti che vi sono ospitati. Così Eschilo trionfa su Euripide, i Sofisti, Gorgia in particolare, rappresentano il distillato più puro dell’idea del bello e del tragico. A Democrito tocca, mentre si sta smarrendo la fede negli dèi, indagarne la ragione profonda, scandagliare il senso di smarrimento di fronte ai fenomeni inspiegabili della natura.1

E ancora verso un ritratto profondamente moderno del rapporto fra Socrate e il mito, quasi freudiano, a partire dalla celebre affermazione contenuta nel Fedro di Platone:non son capace ancora, secondo l’iscrizione delfica, di conoscer me stesso: e mi sembra ridicolo, non sapendo ancora questo, indagare ciò che m’è estraneo.”

Il Socrate di Untersteiner mette in parallelo la ricerca della propria identità, di una dimensione etica della realtà con l’universo del divino. Socrate sente gli dèi in funzione degli uomini e dei loro problemi etici. Le divinitàsono identificate qui con il mondo oggettivo degli stati di coscienza: da qui l’accusa di empietà.

Si approda poi alla dissoluzione del mito in Platone, letta come un “primo schizzo verso una nuova verità”, come uno sguardo verso il futuro, improntato però profondamente dal passato.

Dice ancora Untersteiner:

Appare dunque in Platone l’opera di chi ha saputo ricreare, fra le ceneri del mito da lui stesso arso, una nuova forma mitica che fosse espressione del mondo delle idee (…) Importa inoltre notare che gli elementi dei miti platonici non sono inventati dal filosofo, il quale deve molto alla mitologia e alle leggende correnti.”

Respiro

L’ultima parte di questa partitura ideale, a trittico, è dedicata, come si diceva, al trionfo della tyche, al ritorno, in qualche modo, a quel silenzio iniziale da cui l’opera si era mossa. In questo apparente caos, nel vuoto generato dal trionfo del caso nella vita degli uomini e degli dèi del pantheon tradizionale, la nuova via pare essere una voce appena udibile, anche per l’ascoltatore attento. Come un primo sussurro, così ne parla Untersteiner, di nuove divinità intessute d’ombra, meno antropomorfe, meno definite, più vicine alla natura, più natura esse stesse: sono ancora in parte i demoni di cui parlava Democrito, vivi e presenti in ogni aspetto della natura, e parte di questa.

Nel dialogo pavesiano La vigna che amo molto, come credo l’amasse Untersteiner, in chiusura la ninfa Leucotea, rivolgendosi ad Arianna che aspetta il dio Dioniso che verrà, risponde a una domanda della figlia di Minosse con queste parole:

Leucotea Cara mia, ma gli dei sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa

Gli dèi sono il luogo: così l’avvenire prospettato da U. si riflette nella modernità di Cesare Pavese in un cerchio che non pare avere soluzioni di continuità.

Ammesso di potermi spingere così in là nell’esegesi del pensiero di Untersteiner sul mito, devo dire di aver sempre avuto la sensazione che le pagine finali sull’avvenire servissero anche a Untersteiner per chiudere il cerchio, per riportare il sentimento del mito ai giorni di Cnosso e della dea madre. Alle divinità della vegetazione al ciclo ininterrotto delle stagioni. Se gli dèi muoiono o tacciono, mentre Tyche trionfa, altri ne nascono, dalla stessa terra da cui i primi erano nati millenni prima, nelle sale di un palazzo minoico.

Se lo sguardo è puntato verso l’altro e la nebulosa fosforescente del mito è alta nel cielo, è impossibile ipotizzare di non vederla in qualche modo risorgere, sotto nuove forme.

Il logos, dopo tutto io credo, nonostante l’affermazione categorica di U., finisce per non prevalere mai, completamente, sul mythos.

Congedo

Di fronte a un’architettura di questa vastità e portata, ogni tentativo esegetico non può essere che poca cosa. Di certo la Fisiologia trattiene quella qualità profonda che è, alla fine, anche la radice profonda del mito antico: una mobilità n
arrativa inquieta, una rinuncia a illuminare gli angoli, a cancellare il mistero. La lettura di
Fisiologia produce una sorta di saturazione olfattiva: è un’immersione nell’universo dei miti greci.

Un’opera così sarebbe ormai impossibile da scrivere: per la qualità della scrittura, a tratti così poeticamente alta da poter essere accostata ai Dialoghi di Pavese, che Untersteiner riteneva, con Contini, un’opera di poesia, per il valore mitopoietico.

Forse per la volontà consapevole di guardare in alto, la Fisiologia è, abbastanza sorprendentemente, povera di riferimenti bibliografici. Il confronto è con l’Italia e la Germania soprattutto: Usener, Pestalozza, Kenenyi, Brelich, Otto. Paiono mancare alcuni dei momenti più significativi della riflessione sulla natura e la funzione del mito antico, a cavallo fra Otto e Novecento.

In particolare la scuola di Cambridge per esempio o James Frazer: Jane Harrison è citata solo rapidamente nella sezione dedicata alla tragedia a proposito di Oreste. Eppure qualche anno più tardi, in un contributo molto ampio su Eschilo, dedicato alla tetralogia eschilea degli Eolidi, in particolare nel capitolo dedicato ad Atamante, i ritualisti di Cambridge e il Ramo d’oro, sono ampiamente ricordati

Così manca il richiamo alla psicanalisi che pure doveva essere fra gli orizzonti d’interesse di Untersteiner. Pochi anni dopo la prima edizione della Fisiologia, per esempio, quando il sodalizio Pavese Untersteiner si era ormai consolidato a seguito della pubblicazione dei Dialoghi, proprio Pavese chiede in una lettera del 7 maggio del 1948 a Untersteiner se gli fossero stati recapitati i Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (Jung Kerényi) e se gli fossero piaciuti.

Parallelamente, il lavoro di Untersteiner sul mito e la grande stagione della critica francese capitanata da Jean-Pierre Vernant sembrano procedere su binari paralleli, anche se solo pochi anni, quattro per l’esattezza, dalla pubblicazione della seconda edizione della Fisiologia del ’72, Einaudi avrebbe pubblicato in italiano i lavori di Vernant sulla tragedia e sul mito, già usciti in francese per Maspero (1965, 1970).

Un’opera come la FM sarebbe ora impossibile anche per questo: per la decisione, libera, in uno studioso che pure ha abituato i suoi esegeti a una bibliografia spesso infinita, di non citare, di non appesantire lo sguardo con riferimenti paralleli.

Si respira, in tutta l’opera, un’aria di libertà che pare essere motivata proprio dallo scope come direbbe Wendy Doniger, dello studio. Senza pesi è la prosa, a tratti percorsa da squarci di poesia; libero è il procedere del flusso del pensiero, senza eccessivi gravami prodotti dalla bibliografia secondaria.

Ora, come direbbe Untesteiner, nessuno sarebbe più così hybristes da immaginarla, nessuno così coraggioso da scriverla.

1 L’origine di questa deduzione si deve ricercare nei “fenomeni sorprendenti che si producono nell’universo”: infatti, dice Democrito, “gli uomini primitivi, nell’osservare i fenomeni celesti, come tuoni, lampi e fulmini e aggregati di stelle ed eclissi di sole e di luna furono presi da terrore e credettero che ne fossero causa gli dèi. Il filosofo cerca di scoprire la radice psicologica dell’origine degli dèi… si tratta di un senso di smarrimento di fronte a una potenza superiore: la religione non è, dunque, l’invenzione di un uomo, ma una manifestazione di origine psicologica formatasi spontaneamente”.