Pittura a Ferrara e Palazzo Schifanoia

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Preside (Prof. D. Guglielmo)

Dirigente Scolastico

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Ferrara e la sua Scuola di pittura

All’inizio del Quattrocento la corte degli Estensi a Ferrara è artisticamente piuttosto arretrata: è infatti rimasta ancorata al tardogotico, come testimoniano il gusto per il romanzo cavalleresco e lo studio dell’astrologia, così come pure l’interesse dell’arte figurativa per le miniature. Si può dire che l’Umanesimo fiorisca nella città emiliana soltanto alla metà del secolo, grazie al marchesato di Lionello D’Este (1407-1450, marchese1 dal 1441): egli, educato dall’umanista Guarino Veronese, studioso di greco a Costantinopoli e poi professore allo Studium Generale di Firenze, abile politico e raffinato mecenate, arricchì la tradizione culturale ferrarese e riuscì ad attirare svariati artisti. Tra coloro i quali transitarono nella corte vi sono Pisanello, Andrea Mantegna, Leon Battista Alberti (che compone il De re aedificatoria proprio su commissione di Lionello) e Piero della Francesca, oltre al fiammingo Rogier van der Weyden, molto apprezzato dal marchese e che probabilmente visitò Ferrara tra il 1449 e il 1450. Lionello inoltre garantì la rifioritura dell’Università –la quale, schiacciata tra gli Studii di Padova e Bologna, era prima trascurata da studenti e professori- ampliò la biblioteca di famiglia e avviò una raccolta antiquaria e una manifattura di arazzi; convinzione propria dell’ambiente culturale ferrarese era che la dimensione figurativa fosse uno strumento attraverso il quale amplificare la poetica, arte tanto amata a corte. Non è però sotto Lionello che si forma la fertile “Officina ferrarese” –come Roberto Longhi la definirà nell’omonimo saggio del 1934, bensì con il suo successore Borso (1413-1471, marchese dal 1450, duca dal 1471) e in occasione della decorazione dello Studiolo di Belfiore. Questa stanza, già voluta dal suo predecessore nel 1447 e realizzata nell’omonimo castello in città, era stata decorata secondo un progetto del Veronese (che fondeva le Muse tradizionali con altre figure, prendendo spunto da un commento medievale alle Opere e i giorni di Esiodo) e comprendeva un ciclo pittorico su tavola delle nove Muse; di queste una, è Calliope3 -ma l’interpretazione propende talvolta per Erato, è opera del fondatore della scuola ferrarese, Cosmè (o Cosimo) Tura (1430 ca.-1495). Egli aveva lavorato presso la bottega di Francesco Squarcione, unendo la formazione miniaturistica ferrarese ai moduli padovani, ed era ammiratore di Donatello (da cui apprese la prospettiva lineare e l’espressività, filtrate però dal maestro). Caratteristica tipica della Scuola di pittura di Ferrara è la capacità di fondere il favolismo e l’eleganza tradizionali con le espressioni artistiche a essa contemporanee, di creare opere verosimili e fantastiche al contempo, e la tendenza all’esasperazione espressiva è San Giorgio libera la principessa, Cosmè Tura 1469, sportelli dell’organo della cattedrale di Ferrara, Museo della cattedrale. Assieme al Tura, gli altri esponenti della Scuola nel XV secolo sono Ercole de’ Roberti (1450-1496) e Francesco del Cossa (1436-1478).

 

Francesco del Cossa

Nato a Ferrara nel 1436 (stando ad un carteggio tra i due letterati e rimatori bolognesi Angelo Michele Salimbeni e Sebastiano Aldrovandi) da un muratore, Cristoforo, della sua vita si hanno scarse notizie: si formò probabilmente presso il Tura e sicuramente poté conoscere le opere di Donatello e del Mantegna, come pure quelle di Piero della Francesca; si distingue infatti dai conterranei per la maggiore solennità delle figure, che sembrano derivare dalla lezione di quest’ultimo. La prima opera documentata è una Deposizione realizzata nel 1456 per il Duomo di Ferrara, andata però perduta prima della fine del secolo; al 1460 risalgono invece due atti notarili che lo qualificano come pictore e lo affrancano dalla tutela paterna. In questo periodo gli era stata attribuita la realizzazione della musa Polimnia nello Studiolo, in quanto sembrava discostarsi in parte dai canoni ferraresi; tuttavia l’attribuzione è estremamente incerta, e ad oggi si preferisce citare un maestro anonimo. Polimnia, Anonimo ferrarese 1460, Gemäldegalerie di Berlino piede sx che travalica la cornice e sembra superare il confine tra dipinto e spettatore, espediente del Mantegna (Presentazione al tempio, 1445 e Cristo Morto, 1475/78). Nel 1462 del Cossa è a Bologna al battesimo del figlio di Bartolomeo Garganelli, la cui famiglia gli commissionerà in seguito un importante ciclo di affreschi. Nel 1463 il padre muore, e si pensa che allora abbia intrapreso un lungo viaggio formativo, del quale -ad eccezione delle sicure Firenze e Roma- non si conoscono le tappe. Nel 1467, nuovamente a Bologna, realizza il cartone per due vetrate della chiesa di San Giovanni in Monte, una Madonna col Bambino e angeli e una Madonna col Bambino ora conservate al Museo Jacquemart-André di Parigi. Tra gli anni immediatamente successivi e il 1470 Francesco del Cossa lavora al Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia sotto la direzione di Cosmè Tura: dei dodici settori gliene competono tre, quelli di Marzo, Aprile e Maggio, che si distinguono per il bilanciamento del tono fiabesco con un’attenta cura della costruzione prospettica e una rappresentazione umana più naturale di quella del maestro. Al termine del lavoro però, deluso dal magro compenso ricevuto per il salone, nonostante avesse protestato per il trattamento subito in una lettera del 25 Marzo 1470 indirizzata allo stesso Borso d’Este per essere stato pagato “dece bolognini” a piede quadrato, cosa che gli faceva ritenere di essere stato “tratato et iudicato et apparagonato al più tristo garzone di Ferrara“, lui che si riteneva il migliore tra gli artisti della sala, decide di trasferirsi stabilmente a Bologna. Qui avvia un’intensa attività, favorita dalla mancanza di un monopolio artistico da parte della corte: fra le prime opere vi sono le scene dell’Annunciazione e della Natività sulla predella di una pala per la chiesa di San Paolo in Monte, detta dell’Osservanza, e le tavole per la medesima pala raffiguranti Santa Chiara, Santa Caterina e un Frate francescano in preghiera. Entro il 1472 dipinge la Madonna del Baraccano, variamente considerata restaurata e integrata dal Cossa ma opera di Lippo Dalmasio (1360-1410) oppure propria del ferrarese, ma sicuramente commissionatagli dall’allora signore di Bologna, Giovanni II Bentivoglio. Riceve inoltre l’incarico di un’importante famiglia locale per il Polittico Griffoni, che realizza a due mani con il concittadino Ercole de’ Roberti; esso, ormai smembrato ma ricostruito virtualmente da Longhi nel già citato saggio sull’arte ferrarese, comprendeva vicende della vita di San Vincenzo Ferrer nella predella, una Crocifissione e un’Annunciazione e le figure di San Pietro, San Giovanni Battista, Santa Lucia e San Floriano, ora distribuite in vari musei. Allo stesso periodo sempre il Longhi attribuisce anche il Pestapepe, affresco conservato nella Pinacoteca Civica di Forlì e tradizionalmente considerato di Melozzo (1438-1494).  Nel 1474 del Cossa appone firma e data sulla Pala dei mercanti (Madonna in trono tra i santi Petronio e Giovanni evangelista)ç, opera di grandi dimensioni richiesta da Alberto de’ Cattanei e Domenico degli Amorini per il palazzo della Mercanzia della città (ora alla Pinacoteca Nazionale).  Nel 1477 inizia i lavori per decorare le volte della Cappella Garganelli nella cattedrale di San Pietro: muore però di peste nel 1478, lasciando nelle mani del de’ Roberti -ormai suo successore spirituale- l’opera, che sarà distrutta durante la ricostruzione della cattedrale nel 1605 (ne resta solamente un frammentoç particolare espressività del volto che rimanda al Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca).

 

Palazzo Schifanoia e la storia del Salone dei Mesi

Palazzo Schifanoia, via Scandiana, a Ferrara, è una delle Delizie estensi: si tratta cioè di un edificio adibito ad uso della famiglia d’Este come luogo ricreativo e di ritrovo mondano, distinto dalla sede ufficiale del potere (le Delizie erano cinquantatré tra palazzi, casini di caccia, ville e ritiri estivi disseminati nel ferrarese); non a caso il suo nome significa letteralmente “schivare la noia”, qualificandolo appunto come luogo di svago. La sua costruzione è iniziata e conclusa nel 1385 da Alberto V d’Este, ma è Lionello ad ampliarlo e Borso a farlo affrescare –con particolare attenzione al salone di rappresentanza- dal 1467, per celebrare un’importante occasione: la già anticipata nomina a duca di Ferrara da parte di papa Paolo II, che sarebbe avvenuta nel 1471 e avrebbe “ratificato” quella a duca di Modena e Reggio Emilia del 1452, per opera dell’imperatore Federico III d’Asburgo. L’edificio, progettato dall’architetto Pietro Benvenuto degli Ordini, ha pianta quadrangolare ed è privo di ali laterali; al primo piano si trovano l’appartamento ducale e il grande Salone delle Feste, poi ribattezzato dei Mesi proprio per la decorazione realizzatavi nel giro di tre anni al massimo, con l’impiego di più mani proprio perché fosse terminata in tempo per la nomina ducale. Il palazzo è molto amato dagli Estensi, ma alla fine del XVI secolo inizia a perderne l’interesse; le decorazioni del Salone, ad affresco sulle pareti est e nord e a stucco su quelle sud e ovest, e su parte della parete settentrionale, cominciano a deteriorarsi tanto per la fragilità stessa dello stucco quanto per l’incuria. Con l’incorporazione di Ferrara nello stato pontificio e il trasferimento della corte estense a Mantova, nel 1598, il palazzo è adibito ad uso civile e il salone diviene prima sede di una manifattura di tabacchi, poi granaio, aumentando il deterioramento delle pitture, le cui porzioni a secco saranno già quasi del tutto scomparse nel XVIII secolo. Nel secolo successivo l’ingresso originale al salone, posto sulla parete a Nord di modo da portare lo sguardo immediatamente ai mesi di Gennaio e Febbraio, sulla parete meridionale, viene chiuso e sostituito con un nuovo scalone la cui porta viene aperta sul lato orientale; ciò rende però incongrua la posizione del ciclo agli occhi dei visitatori. Tra il 1820 e il 1840, un primo lavoro di restauro rimuove gli strati di intonaco apposti nei secoli (due sono le ipotesi: che fossero stati apposti per poter appoggiare i mobili alle pareti, oppure per motivi igienici, nella convinzione che sanassero l’ambiente), rivelando i sette campi ancora leggibili, corrispondenti ai mesi da Marzo a Settembre.

 

Il Salone dei Mesi

La decorazione del salone è stata progettata con il preciso intento di farne un manifesto politico e artistico della grandezza del duca e del suo buongoverno; il tema è uno di quelli cari al gotico internazionale, il Ciclo dei Mesi. Già diffuso nell’arte medievale, esso era apprezzato poiché permetteva di coniugare la sacralità con il lavoro quotidiano, l’ordine cosmico con il mestiere agricolo; spesso lo si trova nelle decorazioni scultoree esterne delle chiese romaniche. La porta dei Mesi nel Duomo di Ferrara, Maestro dei Mesi 1220-1230, rilievi dei XII mesi nel Battistero di Parma, Benedetto Antelami 1276. In seguito se ne perdono i caratteri popolari e s’introducono elementi fantastici e della vita di corte, contrapponendone l’eleganza al lavoro dei contadini. è Ciclo dei Mesi di torre Aquila, Palazzo del Buonconsiglio a Trento, Venceslao 1397-1400. Très riches heures du Duc de Berry, codice miniato del 1412-1416 illustrato dai tre fratelli Limbourg, fonte anche per Van Eyck. Il ciclo è stato realizzato sulla base del programma redatto da Pellegrino Prisciano (come conferma la sua menzione da parte del Cossa nella sua lettera a Borso d’Este), diplomatico, astrologo e storiografo di corte: di lui si hanno scarse notizie, ma molto apprezzato in seguito è il suo trattato di storiografia ferrarese, le Historie Ferrarienses; lo storico dell’arte Wilhelm Hermann Gundersheimer (1903-2004), nel suo saggio edito a Princeton nel 1973 (Ferrara. The Style of a Renaissance Despotism) dice in suo proposito “probably the most learned man in Ferrara in the last quarter of the fifteenth century, […] this fascinating humanist, astrologer, courtier, antiquarian, historian and diplomat deserves extended study”. Il fregio si sviluppa per 540m2 lungo le pareti del salone, che misurano 7,5m in altezza, 24m in lunghezza le pareti nord e sud e 11 quelle est e ovest; inizia dalla parete meridionale e prosegue da destra a sinistra in uno dei più estesi cicli pittorici profani rinascimentali. Lesene dipinte dividono questo spazio in 12 settori, 3 per ogni lato corto e rispettivamente 2 e 4 per il primo e l’ultimo lato; ogni settore è a sua volta suddiviso in tre registri orizzontali, di cui quello centrale più stretto. Lo schema comporta la raffigurazione, dall’alto verso il basso, del trionfo della divinità pagana che presiede al mese attorniata da figure ad essa collegate, poi una fascia che mostra il segno zodiacale del mese accompagnato da tre decani, ed infine la rappresentazione di scene della vita di corte dominate dalla figura di Borso d’Este.

 

I Trionfi

La tradizione dei Trionfi è legata all’omonimo poema petrarchesco, ed in particolare alla raffigurazione ch’egli presenta di Amore trionfante su un carro, secondo l’uso romano, ed alle sue spalle una schiera di amanti: nelle corti rinascimentali, durante le feste nuziali e quelle carnevalesche vi erano spesso messe in scena di trionfi simili. Le rappresentazioni del Salone dei Mesi seguono questo topos –che influenza, fra gli altri, anche Piero della Francesca, presentando 12 divinità diverse su carri trainati dagli animali più svariati (dai comuni cavalli ai cigni, alle aquile, alle scimmie…), circondate da personaggi che praticano le attività rese propizie dal particolare segno astrale. I riferimenti simbolici sono spesso oscuri, poiché il codice cui ci si riferisce è quello della erudita cultura umanistica. Secondo lo storico e critico d’arte tedesco Aby Moritz Warburg (1866-1929), la fonte cui il Prisciano attinse per questa serie sono gli Astronomica del poeta e astrologo romano Marco Manilio, poema didascalico in 5 libri composto in età augustea di cui era stata rinvenuta una copia, grazie alle ricerche di Poggio Bracciolini, nel Monastero di San Gallo nel 1416/7.

 

I Decani

Nella fascia centrale di ogni settore troviamo il segno zodiacale corrispondente, accompagnato da tre figure di enigmatica interpretazione. È sempre Aby Warburg a fornirne la più accreditata ipotesi circa la loro identità: si tratterebbe dei Decani, figure proprie della cultura astrologica dell’antico Egitto, che presiedevano ciascuno ad uno degli archi ricavati dalla suddivisione del cerchio zodiacale in 36 decadi. Essi, assimilati nel pantheon greco soltanto nel I secolo a.C. e inseriti dal matematico persiano Abu Ma’shar nel IX secolo nel sistema astrologico di derivazione tolemaica, tradotto in latino quattro secoli dopo (nell’Astrolabium planum di Pietro d’Abano), entrano così a far parte della cultura medievale, pur essendo spesso visti come demoni (ad esempio da Sant’Agostino). Frances Amelia Yates, storica e saggista britannica, li definisce in questi termini:

« I decani, come vennero chiamati in età ellenistica, erano, di fatto, divinità sideree egiziane del tempo, che erano state assorbite nell’astrologia caldea e collegate con lo zodiaco. Tutti avevano proprie immagini, varianti a seconda delle diverse liste in cui venivano elencati, e queste liste delle immagini miracolose dei decani provenivano tutte dagli archivi dei templi egiziani. I decani avevano vari aspetti. Essi avevano un preciso significato astrologico, in quanto “Oroscopi” che presiedevano alle forme di vita nate nei periodi di tempo da essi controllati; erano inoltre assimilati ai pianeti posti sotto il loro dominio, e ai segni dello zodiaco (tre decani erano collegati con ciascun segno, del quale costituivano le tre “facce”). Ma erano anche dèi, potenti dei egiziani, e questa loro natura, mai dimenticata, attribuiva ad essi una misteriosa importanza ».

Credenza popolare dell’età medievale era che i decani influissero sugli umori del corpo, conferendo così all’individuo le peculiarità caratteriali proprie del suo segno. Secondo una recente interpretazione in chiave astronomica, avanzata da Gianluigi Magoni nel saggio del 1977 Le cose non dette sui decani di Schifanoia, Una lettura astronomica, la fascia intermedia degli affreschi potrebbe costituire un eccezionale calendario astronomico, associando ogni decano ad una costellazione e sostenendo che la loro raffigurazione rispecchi efficacemente la configurazione delle stelle appartenenti ad essa nel cielo.

 

Le Scene della vita di Borso d’Este

L’ultimo registro orizzontale, ad altezza d’uomo, mostra Borso d’Este impegnato in attività di governo e di rappresentanza così come in momenti ludici; l’intento è sì celebrarne il governo, ma al contempo mostrarne le virtù in ogni occasione. Nelle scene si nota la rigorosa attenzione prospettica che incastra le eleganti architetture contemporanee con le rovine romane, segno lapalissiano dell’influenza della cultura pittorica rinascimentale anche sulla corte ferrarese, rimastane in principio esclusa. Le figure che accompagnano il duca erano sicuramente riconoscibili per gli ospiti nei funzionari e dignitari di corte, mentre i pochi, bucolici sprazzi di vita contadina che talora compaiono sullo sfondo sembrano essere mirati più a contribuire all’idea del ducato florido ed economicamente prosperoso sotto Borso che ad indicare l’alternanza delle stagioni.

 

Marzo

Registro superiore

La scena raffigurata è il trionfo di Minerva: la dea celebra il trionfo su un carro ornato da festoni che si piegano al vento e trainato da cavalli bianchi (o, secondo alcuni, liocorni); nella mano destra reca una spada, che la qualifica come dea della guerra, e nella sinistra un libro, simbolo della sua saggezza. Tra le sue altre prerogative, sono state scelte dal Prisciano anche quella di amministratrice della giustizia e Athena Ergane (“industriosa”), protrettrice delle attività femminili; in particolare l’attività prescelta è la tessitura, legata alla dea dal mito di Aracne. î Aracne, giovane fanciulla della Lidia abilissima nel tessere, si era vantata di aver insegnato l’arte ad Atena; ella aveva tentato di dissuaderla dall’arroganza tramutandosi in un’anziana donna, ma la ragazza l’aveva addirittura sfidata in una gara. Atena, alla vista dello splendido lavoro di Aracne, che rappresentava gli amori degli dei, aveva distrutto la tela e l’aveva colpita con la sua spola. La giovane aveva tentato di togliersi la vita per sfuggire all’ira divina, ma era stata invece tramutata in ragno, così che scontasse la sua hybris essendo costretta a tessere la tela per l’eternità, vedendosela distruggere ogni giorno. Alla sinistra della dea troviamo appunto un gruppo di giovani riccamente abbigliate intente nella tessitura; in primo piano le tre Parche (Clòto, Làchesi e Àtropo) rappresentano il destino assegnato a ciascuno a seconda del proprio segno astrale. Alla destra si osserva un gruppo di saggi, i “discepoli” della dea, che leggono e discutono. Tra di essi, probabilmente tutti intellettuali della corte estense, Ranieri Varese riconobbe il ritratto di Leon Battista Alberti (il secondo da destra, l’uomo vestito di rosso che volge lo sguardo al carro, subito sopra alla testa del cavallo in secondo piano). Sullo sfondo è raffigurato un paesaggio che si allunga lontano, quasi surreale, fantastico.

 

Registro centrale

Il registro centrale presenta l’Ariete con un sole nascente sotto al ventre (probabilmente a simboleggiare l’inizio della Primavera), e le figure di tre decani. Il primo è un uomo di carnagione scura con le vesti stracciate e gli occhi arrossati, minacciosi: si è pensato ad un allegoria della Pigrizia, ma più plausibilmente si tratta del custode dell’Ariete; il Warburg invece pensa sia Perseo. Il secondo decano è una giovane donna bionda che indossa una veste purpurea ed è quasi accovacciata sopra all’animale: una prima interpretazione la considerava la Primavera o la Saggezza, ma attualmente la si riconduce a Cassiopea e a Thueris, dea egizia signora del Nilo, la cui prerogativa era di misurare il tempo (affine al demiurgo platonico). Il terzo decano, infine, è un giovane dall’aspetto elegante, con un manto rosato e un ricco medaglione sulla cintura, che reca diversi simboli: una freccia (simbolo di Marte) vista anche come frusta, un cerchio (rimando alla Via Lattea) e dei lacci ai polsi; considerato allegoria dell’Attività, si ritiene che i suoi attributi rimandino invece alla figura dell’Auriga, o Enioco, in grado di trasmettere le sue doti di cocchiere ai nati sotto di esso. Per quanto riguarda l’aspetto più prettamente astrale, va precisato che le costellazioni dell’Ariete, di Perseo e Cassiopea sono prossime in cielo, considerazione che va ad avvalorare quindi l’interpretazione cosmologica delle figure. Cassiopea e Perseo sono inoltre figure legate dal mito greco. îCassiopea, moglie di Cefeo, aveva osato sostenere che la figlia Andromeda fosse più avvenente delle Nereidi, scatenando l’ira di Poseidone; egli aveva richiesto che la fanciulla fosse sacrificata al mostro marino Ceto, ma Perseo, reduce dall’uccisione della Gorgone Medusa, ne aveva usato la testa per pietrificare il mostro e salvare la ragazza (per questo motivo, le costellazioni che recano il nome di queste figure sono state collocate vicine nel cielo).

 

Registro inferiore

Il registro inferiore è suddiviso in due grandi scene: a destra, Borso d’Este amministra la giustizia circondato da un manipolo di gentiluomini e funzionari di corte; sullo sfondo vi è un edificio tipicamente rinascimentale, decorato con stemmi, putti e medaglioni. Sull’architrave della porta alle spalle del duca si legge la parola “IVSTICIA”, a chiarire la scena presentata e legare le virtù di Borso a Minerva, dea della giustizia: in questo modo l’ultima fascia del mese si ricongiunge tematicamente alla prima. La scena di sinistra presenta invece Borso in procinto di partire per una battuta di caccia (il duca indossa una veste rossa ed è rappresentato di profilo, alla maniera numismatica): lui ed i compagni sono attorniati da cani e cavalli scalpitanti, che riportano alla cultura della caccia propria della nobiltà feudale medievale. Sull’ultimo piano vediamo un gruppo di contadini intento nei lavori di potatura e innesto; la raffigurazione del lavoro è un tema inusuale per l’arte del periodo: è infatti molto lontano dal mondo aristocratico, e la sua rappresentazione è pericolosa in quanto potrebbe implicare un intento di denuncia, di rottura del patto sociale esistente e incitamento alla rivolta. Inoltre, presentare figure intente nelle diverse mansioni richiede un altissimo grado di realismo e doti pittoriche non indifferenti. Per questi motivi gli unici artisti che lo affrontano tra il Medioevo e il Rinascimento sono appunto il Del Cossa e Wiligelmo, nelle formelle del Duomo di Modena –qui si è però in ambito biblico, e il lavoro è inteso proprio come sofferenza e punizione per Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden. Come ultima considerazione –anche in senso cronologico- è da citare Adolfo Venturi, che nel 1931 ha scorto un omaggio a Cosmè Tura nella figura del cavaliere che si trova all’estrema sinistra della scena della caccia, colui che trattiene a stento il cavallo imbizzarrito: l’espressività del suo volto è, secondo il Venturi, desunta dal San Giorgio del Tura. L’ipotesi in un primo momento non era sembrata fondata, poiché il dipinto venne ultimato nel giugno del 1469, quando ormai i lavori nel Salone dei Mesi giungevano al termine. Tuttavia, grazie ad ulteriori analisi si è scoperto che i registri di Del Cossa furono gli ultimi ad essere dipinti, e da Maggio a Marzo; inoltre, la fascia superiore venne realizzata per prima, quella inferiore per ultima: ciò ha portato a collocare il registro inferiore del mese di Marzo agli atti conclusivi della decorazione, rendendo così congrua l’ipotesi di Venturi.

 

                                                                                                                                                                                                 Valentina Sangalli