di Walter Jens

"Andavo sul battello per Venezia... Mio Dio, con quale commozione rividi l'amata città, dopo essermela portata nel cuore per trent'anni... Riudii la sua quiete, lo sciacquio misterioso contro i silenziosi palazzi, e la sua nobiltà legata a un senso di morte mi avvolse di nuovo. Facciate di chiese, piazze e scalinate, ponti e calli con i loro rari passanti mi si rivelarono con sembianze inaspettate e fluttuanti. I gondolieri si scambiavano il loro richiamo. Mi sentivo come a casa..."

Sotto il simbolo e l'allegoria di Venezia si rivela l'intima unione di Bellezza e Morte, forma e decomposizione, purezza greca e goticismo magico arabeggiante: come già von Hoffmansthal, anche Thomas Mann vede nella vecchia metropoli adriatica una città dove oriente e grecità formano attraverso la sostanza italiana una favola lontana e meravigliosa. Est ed Ovest, Sud e Nord, grecità ed oriente, ascesa e caduta, plasticità e caos - antitesi della specie e provenienza più varie - si chiariscono nel quadro storico della città adriatica e s'innalzano a simboli vincolanti. Thomas Mann ne è sempre stato consapevole: conobbe la città fin dal suo primo viaggio in Italia, e non ha mai esitato a citarla spesso in saggi e novelle.

E' qui che, al confine fra Europa ed Asia, gli parve di trovare quella mortifera perfezione, quella plastica perfezione ed immacolata autosufficienza, che egli, per tutta la sua vita, cercò di perlustrare in forme sempre nuove, avvertendone però anche le seducenti e pericolose possibilità. Già La morte a Venezia, punto di partenza per ogni dissertazione che verta sul rapporto di Thomas Mann con l'antichità classica, illumina la problematica del bello-perfetto in modo emblematico: la grecità appare qui per la prima volta come quintessenza di una pura, intoccabile bellezza, di cui è indiscussa signora la morte. E nel segno della morte Gustav von Aschenbach si accinge alla ricerca della bellezza. Quando, stanco di sé e appesantito dai suoi doveri, si reca una sera di maggio al cimitero, egli incontra un uomo che punta saldamente il bastone al suolo, tenendolo inclinato, e ne appoggia ai fianchi il manico, coi piedi incrociati… un uomo le cui labbra sono ritratte, così da lasciar sporgere i denti lunghi e bianchi; nessun dubbio che si alluda qui all'antica rappresentazione della morte, come attestano Lessing e Schiller: il viandante coi piedi incrociati e il bastone piegato da parte e puntato ai fianchi, corrisponde fino al dettaglio alla famosa raffigurazione lessinghiana dal titolo Come gli antichi raffiguravano la morte. Ma non si tratta qui solo di y‹natow, docile sorella del sonno, che lo sbigottito Aschenbach incontra davanti alla cappella: è anche Hermes, nelle sembianze e nella sua funzione di accompagnatore dei morti (psicopompo), che invita tramite il suo aspetto di viandante il titubante Aschenbach a seguirlo, e lo incoraggia a intraprendere quel viaggio da cui egli non farà più ritorno.

Come Hans Castorp e il giovane Joseph, come Adamo qadmon, l’uomo primigenio e Adrian Leverkühn, anche Gustav von Aschenbach intraprende un viaggio nel regno dell'Ade, da cui solo le figure divine del mito - la Tetralogia di Joseph le chiama Attis e Adonai, Osiride e Tammuz - possono risalire alla luce del sole. Al poeta non è concessa una cosa simile: Aschenbach viene condotto da Caronte, sotto le sembianze di un gondoliere che non possiede la licenza, colà dove lo aspetta Hermes, ora sotto le sembianze del bel divino fanciullo.

Tadzio, l'efebo polacco, assume il ruolo dello straniero venuto da lontano, e conduce il docile Aschenbach, dapprima lentamente, e poi sempre più in fretta, alla sua predestinata fine: Era come se il pallido e amabile psicagogo gli sorridesse, lo chiamasse con un cenno; come se egli, levando mollemente la mano dal fianco, alludesse, sospingesse verso il regno allettante della morte. E, come già altre volte, egli si avviò a seguirlo. L'efebo Tadzio, Hermes, diviene il pedagogo, che introduce il maturo Aschenbach nel regno della bellezza, ed in questo modo lo annienta. Un pensiero base di Thomas Mann, che ha sempre guardato alla bellezza pura con sospetto e imbarazzo, e che sostiene di sapere, fin dalla Morte a Venezia, che il bello culmina nella perfezione della grecità, ed essa a sua volta nell'adorazione della plasticità priva di macchia del corpo.

Non a caso Tadzio appare come una copia di statue classiche: "il volto pallido e gentilmente assorto, incorniciato dai capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la vezzosa bocca, l’espressione soave e divina di gravità, ricordavano le sculture greche dell’epoca aurea …". Nel malizioso ma serio divino fanciullo Gustav von Aschenbach incontra la bellezza della forma, come controparte della vita, incarnata in una forma corporea. Dove regna la bellezza, misura e critica perdono di peso e d'influenza, e si rivela un'antinomia fra il principio plastico del figlio della natura, ed il contegno critico dell'uomo dello spirito, antinomia che Mann mostra per la prima volta ne La morte a Venezia, e poi analizzerà molto precisamente più tardi, soprattutto nel Nono frammento per il problema dell'Umanità e nelle "operationes spirituales" de La montagna incantata. La grecità appare seduttiva, la plasticità un estremo pericoloso, solo sostenibile nei limiti di un'alta civilizzazione. Perfezione e bellezza si associano facilmente alla demoniaca freddezza, ed il trapasso nell'illimitatezza della morte è appena riconoscibile. Ciò che un attimo prima era contemplazione di epicurea felicità, diviene un attimo dopo torbida incoscienza o incontrollabile esaltazione. Come figlio del suo secolo, Mann formula l'ambivalenza di questa situazione con linguaggio nietzschiano, e ci rappresenta l'apparizione del dio dionisiaco tramite la descrizione della gloria dell'Atene classica nella scena di Socrate e Fedro sotto il platano dell'Ilisso. Razionalità e coscienza, plasticità e calcolo si tramutano improvvisamente in sogno ed ebbrezza, ed in questo stato di trance ed irrazionalità Aschenbach esperimenta l'epifania del dio, accompagnato dal grido di evoè e dal suono del flauto. Lo scenario muta: l'epidemia colerica tramuta l’immagine serena di Venezia, il paesaggio deificato che si eleva a mondo mitico, col suo mare che diviene il Ponto, lo splendore del sole che diventa una copia di Atene, le sue albe che divengono Eos; tutto questo s'estingue, e rimane solo lo squallido e macabro scenario delle nebbie miasmatiche della pestilenza, dove ha luogo l'apparizione del dio straniero.

La morte di Aschenbach è l'estrema conseguenza di uno sviluppo, che era iniziato con la rinuncia all'ironia e la lenta rimozione di ogni analisi critica. Al principio tutto appariva assai assennato e distaccato: tecnicistica e fredda approvazione tocca alla figura di Hermes con i tratti di Eros (Il capo di Eros, dallo splendore giallognolo del marmo pario), e una socratica superiorità era capace di misura e distacco: "Aschenbach era tentato di minacciarlo col dito. 'Ti consiglio, Critobulo,' pensava sorridendo, 'fai un viaggio di un anno! Perché di tanto tu hai bisogno per risanarti'". Presto però l'amore socratico si trasforma, distanza ed ironia scompaiono insensibilmente, ed alla fine, sotto l'argenteo luccicante azzurro dell'etere, si procede alla ricerca della bellezza in sé. Il mondo fantastico dei campi Elisi, l'alito leggero d'Oceano, l'infocato carro del dio sole, si rivelano pericolose seduzioni. All'adorazione del bello si associa un'indolenza dell'anima, e lo sguardo ormai rapito di Aschenbach scambia alla fine bellezza di forma e perfezione dello spirito. Non a caso egli guarda al mondo di Platone in una condizione già guardata da Platone stesso con critico distacco: nell'enthusiasmòs nemico del lògos, nell'esaltazione di estasi ed ebbrezza, che gli fa vedere il corpo dell'efebo come modello e specchio di bellezza spirituale.

La forma perfetta - intesa come perfetta assimilazione di archetipo e copia - nasconde, secondo l'opinione di Mann, la stessa potenzialità della malattia: da un lato essa può liberare e beatificare lo sguardo del posseduto, dall'altro lo abbatte in decadimento e distruzione. Amore e morte - ci si consenta già qui uno sguardo al mito di Ischtar-Tammuz e di Iside Osiride della Tetralogia di Joseph - sono uno vicino all'altra. E non invano Aschenbach, sul punto di morire, diviene uno "scultore" di parole, alla cui origine erotica egli crede. Come trasognato, riconosce acriticamente la dottrina platonica, secondo cui la via della bellezza è anche via di Eros; ma la risalita verso lo spirito e lo sguardo indietro dagl'Inferi gli rimangono impossibili; infatti, quando si rivolge a Fedro, egli, che un tempo si era rivolto a Critobulo con tanta autoconsapevolezza, non è più un socratico da un bel pezzo. La catabasi nel regno degl'Inferi rimane irripetibile; Aschenbach, che si era affidato a Hermes-Eros come accompagnatore delle anime, e aveva dimenticato la vita, per aver adorato la forma, che ne è creatrice, oltre ogni senso e misura di un'estetica ebbrezza e di amori omoerotici, deve pagare questo atto con la morte.

Thomas Mann non si è stancato di elaborare in metamorfosi sempre nuove la discrepanza fra obbligo morale e bellezza plastica, fra rigore etico e estetismo pseudo-platonico. Ne sono prova innanzitutto il dramma Fiorenza e il racconto Gladius dei. In ogni caso, il precetto della ragione di fare di Platone un dio si dimostra pericoloso e unilaterale; frivolezza estetica e antico culto della bellezza risvegliano forze contrarie che, da parte loro, assumono un carattere troppo facilmente estremo: il culto di Platone, consueto nella cerchia di Lorenzo de Medici chiama alla ribalta il movimento iconoclasta di Savonarola, e la Madonna dipinta in stile pagano provoca la ribellione del frate fedele, che, nelle strade di Monaco, annuncia l’imminenza del giudizio divino: "Gladius dei super terram… cito et velociter."

Al più tardi dal Tonio Kröger, nell'opera di Thomas Mann all’antinomia plastico-critica si lega una dura antitesi fra la sobria analisi del carattere tedesco settentrionale e l’apprezzamento della bellezza di tipo meridionale, priva di vincoli. Tonio è il primo personaggio nell'opera dello scrittore che conosca questo contrasto e sappia del pericolo di seduzione che comporta l'elemento mediterraneo. Egli comprende la minaccia dell'ozio e della sonnolenta indolenza: ecco la ragione dell'esodo dal mondo italiano alla Cesare Borgia e del ritorno nel nebbioso regno danese di Amleto: E Tonio Kröger si diresse verso il nord. Ancora più aspra e quasi violentemente personale è la condanna del sud greco - già individuato come pericolo seducente ne La morte a Venezia - nella novella apparsa assai più tardi, nel 1930, dal titolo Mario e il mago: "Certo, si tratta del Sud, del tempo della classicità, del clima della fiorente cultura umana, del sole di Omero, etc. Ma dopo un momento non posso trattenermi e vengo con facilità indotto a ritenere che tutto ciò sia motivo di stordimento. Il vuoto incandescente del cielo mi risulta, giorno dopo giorno, molesto, la violenza dei colori, l'infinita naïveté e la persistenza della luce risveglia sì sentimenti gioiosi e concede certo serenità e sicura indipendenza dagli sbalzi e dagli umori del tempo; ma, senza che ce ne si accorga all'inizio, esso lascia progressivamente insoddisfatte necessità piuttosto profonde e complesse dell'anima nordica, e ispira alla lunga qualcosa di simile al disprezzo."

Qui è scomparso l'accenno al dio dalle gote infiammate, il quale spinge attraverso lo spazio celeste il suo carro infuocato; e ancora sembra che l'elogio appassionato abbia ceduto il posto a una considerazione alquanto moderata, l'entusiastica febbre di bellezza platonica ad un prosaico il sole di Omero eccetera; cosicché ci si potrebbe domandare se la vecchia classica contrapposizione fra sud e nord, misura e bellezza, critica e plasticità non sia stata già da molto abbandonata dallo scrittore. Chi ponesse una tale domanda, potrebbe avvalersi del passo molte volte citato del discorso tenuto a Varsavia nel 1925 per il P.E.N. Club, dove Mann sottolinea come per il pensiero e la cultura tedeschi il problema orientale-occidentale svolga oggi lo stesso ruolo di quello meridionale-settentrionale un tempo - una tesi che appare confermata in modo evidente dall'agone dialettico dei signori Naphta e Settembrini ne La montagna incantata, terminata un anno prima, nel 1924.Una più precisa osservazione ci insegna per altro che la vecchia contraddizione fra nord e antichità classica, così espressivamente interpretata sia ne La morte a Venezia sia nel Tonio Kröger, non solo non è scomparsa, ma – come potrebbe essere altrimenti nell’opera di tutta una vita, che vive di norma di rimproveri, di analogie e di citazioni segreti? - al contrario ravvivata potentemente sotto un nuovo segno. Proprio il capitolo Neve ne La montagna incantata mostra la solita antitesi nella più scarna semplificazione immaginabile: alla contemplazione di un paesaggio ideale meridionale e quasi georgiano corrisponde ora il brusco risveglio e la partecipazione all'orribile pasto sanguinario nel tempio di Demetra e Persefone. La baia del mare meridionale, mai vista, ma contemplata durante un'anamnesi, si confonde in dimensioni incommensurabili e oltre all'intelletto, fino a che, improvvisamente e inaspettatamente, ha inizio nel mondo ciclopico di templi dorici la terribile scena del sacrificio umano. L'interpretazione è la stessa della fine de La morte a Venezia. In ogni caso la cortese e raffinata comunità mediterranea viene sconvolta, e dietro di essa viene reso visibile il mondo caotico e primitivo, simboleggiato dal nome del dio ebbro, in tutta la sua primitività.

Senza dubbio La montagna incantata va al di là della precedente novella, poiché trasmette la convenzionale antitesi nietzschiana della contraddizione occidente-oriente all'ambito più esteso della cultura umana, che concretizza in due personalità differenti, quella di un gesuita e quella di un letterato. L'antinomia non risiede dunque solo più nel cuore di colui che osserva, ma è oggettivata nel mondo contrapposto di chi è osservato. Anche Aschenbach parimenti ha subito questa scissione senza che in conseguenza il significato dell'elemento erotico ne fosse stato nel minimo ridotto.

Tuttavia la nozione di Eros sperimenta ora una imprevista dilatazione, abbraccia ad un tempo voluttà e charitas, s'avvicina, spiritualizzata, a quella sympatheia che Mann, nel Pariser Rechenschaft, chiamerà figlia di Eros e della ragione, piacere moralizzato, che porta anche il nome di Bene... e con ciò egli allude alla possibilità che l'antitesi di bellezza e spirito, piacere ed etica possa assai bene essere superata nell'affermazione del bene. Nei dialoghi de La montagna incantata è ancora difficile rintracciare questo – predomina la dialettica platonica, e i motivi esposti ne La morte a Venezia vengono esposti dal punto di vista del giusto e dell'utile: l'estetismo appare ora – i dialoghi della cerchia degli artisti di Monaco nel Doktor Faustus lo chiariranno - come fratello della barbarie; ma anche bruttezza e terrore si combinano bene come elementi anti-classici. E' scoppiata una gara in grande stile, in cui ancora una volta, come ne La morte a Venezia, molto di antico svolge il ruolo di padrino. Platone rimane protagonista, come nella novella iniziale, anche se si parla di Aristotele o Virgilio; nuovamente Mann cita il Fedro, ma ora allo scopo di raccontare del personaggio mitico egiziano di Theut, l’inventore della scrittura, e vero e proprio padrino del letterato. Ma questo Theut o Thot è - e si vede come i motivi ritornino tutti quanti - non altri che Hermes, il dio dei morti della novella, che funge anche là da giovane seduttore e ispiratore di fascino divino. É Hermes, infatti, la figura centrale (anche se invisibile) della Montagna incantata ... a volte scherzosamente apostrofato come Mercurio, altre in veste di Psicopompo, altre ancora con un travestimento orientale-ellenistica, chiamato Theut o Trismegistos, come signore dello spirito e della cultura: non solo un dio dei morti, ma anche un custode della vita, come in seguito, nella "Montagna incantata", l'antichità appare soprattutto come un'epoca amante di vita e nemica di morte, protettrice di ordine e salute - motivo per cui il signor Settembrini, nella sua funzione di avvocato della vita, si serve particolarmente volentieri di antiche citazioni, sentenze e mitologemi.

Se ne La morte a Venezia Hermes era limitato alla sua funzione ambivalente di dio dell'amore e di morte, così nella Montagna incantata si presenta per la prima volta nella piena efficacia delle sue apparizioni: "Là stava la morte avvolta in un azzurro mantello, come un retore umanista; e se si fissava negli occhi con attenzione il pedagogo dio delle lettere e l'amico degli uomini, si scorgeva, al posto di lui, una maschera scimmiesca col segno della magia e della notte sulla fronte". Anche la Montagna incantata, una "storia ermetica" kat'exochèn, è il resoconto di una catabasi, anche qui esistono viaggiatori e accompagnatori di morti, e Minosse e Radamante amministrano la giustizia - nel complesso si tratta, dal punto di vista del signor Settembrini, d'un unico grande Ade, d'un regno dei morti, in cui Hans Castorp giunge con la ferrovia con tanta certezza quanto Aschenbach con i vaporetti e le gondole. Che poi, da un punto di vista strettamente geografico, si tratti di un'anabasi, non è di disturbo, perché la constatazione di Joseph, secondo cui sopra e sotto ci sarebbero grandezze del tutto variabili, sta già alla base de La montagna incantata. Con ragione si è parlato, al fine di inserire il romanzo all'inizio della tradizione narrativa europea che si ispira all'antichità, d'una moderna Odissea, ed in verità si tratta proprio della discesa di Odisseo nel mondo sotterraneo, delle sue visioni d'oltretomba, dei suoi colloqui con le ombre senza sangue, che il poeta moderno varia e commenta con la caratteristica ironia di stampo socratico a lui familiare. Certo anche gli uomini della Montagna incantata sono privi di sangue e di ogni segno vitale e vegetano lontano dal mondo reale della pianura "come esseri sprofondati in un abisso". Anche nelle ariose altezze delle montagna svizzera c'è bisogno, per riconoscersi, d'un Cicerone e di uno Psicopompo, celati sotto maschere ed abiti di varia specie. E chi sarebbe più adatto a questo che quel dio greco, la cui essenza consiste proprio nella molteplicità e variabilità delle manifestazioni?

Lo incontriamo di nuovo - ora quasi capitolo dopo capitolo e in sempre diverse forme - nel mondo mitico della Tetralogia. Ma, prima dell'indagine sulle varie modalità di epifania del dio e del suo umano imitatore, appare opportuno rivolgere il nostro pensiero, almeno solo di passaggio, a due analisi teoriche, che appaiono concepite e redatte come studio preparatorio e commentario in previsione del grande monumento narrativo della Tetralogia. Si tratta innanzitutto del Pariser Rechenschaft, del 1926, dove si sviluppa per la prima volta il progetto narrativo concernente Joseph e si analizza la problematica dell'elemento mitico, che ne sta alla base. Di nuovo, come già tanto spesso, il poeta è stimolato a più profonde considerazioni da un'analisi - questa volta basata sull'introduzione di Bäumler ad un'antologia di scritti di Bachofen - di dionisiaco ed apollineo, di mondo primitivo oscuramente mitico e chiara consapevolezza del mondo illuminato, di culto romantico per il naturale, il popolare ed il terrigeno e interpretazione classico-razionalistica del mito. La decisione a favore di uno dei due estremi comporta poca fatica; essa cade a favore dell'interpretazione classica e mira - già qui - a una umanizzazione e ad un'ironizzante spiritualizzazione dell'accadimento mitico. Più precise spiegazioni dà il discorso ufficiale Freud ed il futuro, in cui l'elemento mitico stesso, analizzato in profondità e commentato dal punto di vista psicologico, appare nella sua peculiarità. Quel che si rivela qui come essenza dell'antichità è che gli manchi affatto il concetto moderno di individualità: "L'antico ego e la sua coscienza di sé erano ben diverse dalle nostre, meno esclusive, meno rigidamente circoscritte. Esso era aperto anche alla dimensione del passato, e inglobava dal passato anche molto di ciò che poteva riprodurre nel presente, e di ciò che, attraverso di lui, ancora poteva esistere.". Carattere dell'antichità è dunque la ripetibilità del passato, concepito come presente continuo, la capacità della reincarnazione del mito nello "hic et nunc" di un istante festoso – la citazione come strumento dell'iterazione. Nel momento in cui l'individuo, in occasione di una festa, pensa ai suoi antenati, egli si identifica con loro, si svincola dalla sua identità personale e diviene tutt'uno con il suo destino, ora divenuto esemplare. L’istante perde il carattere dell'"irripetibile e del momentaneo" e appare naturale e familiare, poiché si ripete ora, pur esistendo già da sempre. Questa attualizzazione del passato, evidenziata proprio dalla filologia classica degli ultimi decenni, che attraverso la ripetizione conduce ad una nuova creazione vitale, appare, secondo Thomas Mann, innanzitutto nella celebrazione di un evento festivo: "La festa è l'eliminazione del tempo, è un processo, un'azione solenne, che si attua secondo un archetipo preconiato; ciò che vi accade non vi accade mai per la prima volta, ma ritualmente e secondo il modello. Esso vince il presente e torna di nuovo, proprio come le feste ritornano nel tempo e come le loro fasi e ore si susseguono nel tempo dopo l’evento primigenio".

Queste tesi, sviluppate da Thomas Mann nel Pariser Rechenschaft e nel discorso Freud e il futuro, sono state chiarite soprattutto nell'esempio del vecchio Eliezer (che, mentre racconta, si trasforma in ciò che racconta, e non ha quindi un "ego troppo circoscritto"), e nell'ambito della festa in onore di Adonai. Joseph, l'eroe del libro, è proprio un modello esemplare della "rappresentazione". Attraverso il suo doppio "viaggio all'inferno" nel pozzo e verso il suo esilio in Egitto, egli ripresenta alla lettera il destino di Tammuz-Osiride-Adonai. Egli diviene un Dioniso-Zagreo smembrato, che risorge come un dio beato in una nuova più perfetta forma. Nel senso dell'identificazione mitica si spinge Joseph tanto in là, che egli, l'imitatore, almeno secondo come lo vedevano gli altri, diventa dio stesso: "Impersonare un dio, questo significa, secondo il modo di pensare primitivo, essere anche un po' dei.". In Joseph, bello e intelligente, dalle forme perfette ma non per questo meno dotato nello spirito, si risolve l'antitesi che Thomas Mann aveva analizzato trent'anni prima nei Buddenbrook e nel Tonio Kröger. Ma contemporaneamente Joseph supera anche la contraddizione fra apollineo e dionisiaco, poiché egli, a differenza del suonatore di flauto Esaù, si sente legato nel contempo ad entrambi gli dèi. Egli è il kalòskagathòs in senso greco, il bello dotato nello spirito, al cui fascino multiforme e cangiante alla lunga nessuno riesce a sfuggire ... un puro fratello di Hermes, copia ed immagine del dio; fratello anche dell'altro Felix che si serve, al pari del mitico servo imbroglione, di raggiri e maneggi da cavaliere d'industria.

Di nuovo, ma questa volta in modo palese, Hermes è la figura dominante del libro. È l’accompagnatore di anime, che porta i morti nella loro dimora. Quando Joseph, inviato dal padre a cercare i fratelli, vaga per il deserto, incontra l’uomo sul campo – è proprio Hermes, in spoglie mortali, ma a un punto tale che non può trattenersi dal rubare dal carico dell’asino un cestino con della frutta secca e un altro con cipolle arrostite e dal nasconderle nella sua bisaccia. Non è solo "messaggero, guida e guardiano", questo Hermes, ma è anche un ladro matricolato, come ancora una volta prescrive la tradizione… un tratto caratteristico di cui riferisce in particolare l’inno omerico a Hermes, inno che è riprodotto in tutti i suoi dettagli nel discorso magistrale (invero il punto più elevato della tetralogia) tenuto da Amenhotep-Echnaton a Joseph, sbigottito e semicosciente. Ma Hermes è ancora di più: non solo l’accompagnatore di anime, che entra in gioco a buon diritto quando il giovane Joseph scende nel "regno scimmiesco dei morti in Egitto", non solo maestro di stratagemmi e truffe ladresche, ma anche il demone con il capo di scimmia della Montagna incantata, quel babbuino con la falce lunare sulla fronte, rimproverato così duramente dal Signor Naphta, che ora trasformato in sciacallo, come Anup, incontra il sognante Jaakob e, sotto forma dell’Hermes lisippeo di Napoli, gli fa notare che egli avrebbe perso di nuovo la sua testa per elevarsi fino a diventare un dio in forma umana e dio dei morti, ma anche signore dell’anima e della cultura. Proprio questo è il metier più consono ad Hermes, celebrato in modo così entusiastico dal Signor Settembrini nella Montagna incantata: come Thot e Trismegistos, insegnare le arti all’uomo e mostragli la luce dello spirito e dell’etica della ragione. Ma non basta questa metamorfosi – dove regnano scrittura e lettura, là anche la musica è tenuta in grande onore e considerazione, e anche in questo ambito Hermes è imbattibile… egli, lo scopritore dei suoni, cui il guscio della tartaruga funse da cassa armonica. Come dio dell’etica e della cortesia spirituale è in fondo chi guida il commercio, Mercurio, protettore di creditori e banchieri. Il giovane Joseph comincia il suo cammino nel suo nome; il segno del dio Thot sta sopra la descrizione del suo carattere eletto e, decenni dopo, poco prima del momento culminante della sua carriera, immediatamente dopo l’esilio egiziano, sente in modo significativo il richiamo delle stelle della sua infanzia, dopo il discorso rivoltogli da Echnaton. La clemenza del faraone riconosce lui, che era stato salvato tante volte dai doni di Thot da miseria e indigenza, come un parente nello spirito: "Io vedo… che tu ti intendi delle arti di Thot e sei uno scriba. Io penso che questo sia legato alla dignità dell’Io, ove si avvera il modello vincolante della profondità."

Come inviato di Thot-Trismegistos, Joseph padroneggia l’arte di leggere, scrivere e far di conto; come servitore di Hermes egli esercita l’arte retorica, attraente ma ingannevole, e conosce l’¥rmaÝon, la fortunata scoperta di un caso fortuito. Facendo propri i doni del dio e ripetendo nel presente l’antica situazione mitica, egli innalza il piano di comparazione e diventa egli stesso dio – un grande banchiere alla corte del faraone, un taumaturgo furbo e scaltro, un indovino onesto e un capo che conosce sempre misura e compensazione e che aspira a livellare gli estremi in una media ordinata.

Non a caso Joseph, come servitore di una divinità lunare, chiama proprio Selene la sua amata signora e padrona. Distante in egual misura da Helios, elemento maschile, e da Gaia, elemento femminile, ha piantato la sua tenda ai confini fra vita e morte, nel regno lunare, là dove elemento femminile e maschile, grazie e spirito, si collegano in un attraente scambio reciproco. Astuzia e umorismo, bellezza e charme sono le virtù su cui confida lungo il suo cammino ermetico, perché proprio spirito e umorismo sono le funzioni di Hermes, gli elementi più appropriati per essere guide, guardiani e messaggeri in un mondo dove regni la più alta civiltà: "Noi parliamo di arguzia, perché questo principio ha una sua collocazione nel piccolo cosmo della nostra storia e presto ci si rese conto che l’arguzia ha la natura del messaggero che va da una parte all’altra e anche dell’abile incaricato d’affari che media fra sfere ed influssi contrapposti."

Nella figura di Joseph-Hermes, di quell’imitatore astuto e imbroglione, che si appropria così fortemente dei caratteri del suo dio al punto da non poter più discernere con precisione, alla fine, i confini della sua individualità e tanto meno dove termini il divino e dove abbia inizio l’umano, le antitesi così reciprocamente avverse – "regno di Apollo qui – regno di Dioniso là" – vengono fuse per la prima volta in una sintesi più alta. Dove regna Joseph, rimane sconosciuto ciò che è malvagio, e i demoni, come Esaù che suona il flauto o Mut-em-enet, raffigurata come baccante, si aggirano solamente in lontananza.

Questo però non significa che l’antica contraddizione, citata così energicamente nel discorso su Umanesimo ed educazione umanistica e nella conferenza sulla filosofia di Nietzsche, non continui ad esistere nell’opera del poeta. Al contrario, ciò che appariva già superato si inasprisce di nuovo in un antitesi assai tagliente nel Doktor Faustus. Una chiara coscienza, una rettitudine sobria e un’enfasi umanistica si dimostrano insufficienti per distruggere l’intima unione di grossolanità ed estetismo. Di nuovo, come ne La morte a Venezia, ne La montagna incantata e nella Tetralogia di Joseph diventiamo testimoni di una catabasi erculea; ancora una volta incontriamo lo psicompompo, ma questa volta non nelle vesti dell’amichevole dio lunare e di accompagnatore delle anime, bensì sotto la maschera del demonio cristiano e nelle vesti del diabolico spirito ribelle. Viene ora alla luce in modo più incisivo rispetto alle opere precedenti e più intenso rispetto a Morte a Venezia l’elemento demonico di un’algida bellezza, cui aveva già fatto riferimento Riemer, un antenato di Zeitblom, in occasione della sua analisi di Goethe. Di nuovo freddezza, disciplina e bellezza legata alla morte si uniscono in una trinità diabolica, ma ora è necessario seguire non reincarnazione platonica, non Tadzio-Fedro – anche Aschenbach si vota al bello – non al fanciullo divino, ma al diavolo in persona. In una citazione che ripete il motivo dell’anello dal colloquio di Echnaton, traspare solo debolmente, all’inizio dell’inno ad Apollo di Callimaco, un’immagine rovesciata, ma anche in essa prevale il timore all’apparire del dio dalla furia travolgente. In mezzo a terrore e chaos la posizione del vecchio umanesimo appare molto fragile. Il pathos anticheggiante di Settembrini, che crede al progresso, è diventato la stanca rassegnazione di un vecchio filologo, che riconosce le forze demoniche non solo nel patto fra estetica e teologia militante, ma anche nel proprio campo, in uno spazio ristretto e circoscritto dell’educazione umanistica: perfino la sobria coscienza deve sempre difendersi, di nuovo, dal dio straniero e sottomettere le potenze ctonie, riportandole ad un’ordinata armonia: "… quando io rivolgevo il mio sguardo dall’Acropoli verso la strada sacra, su cui avanzavano i mystai, adorni di bende color zafferano e il nome di Iacco sulle labbra, e poi, quando stavo sul luogo stesso dell’iniziazione, nel territorio di Eubuleo, sull’orlo del crepaccio plutonico a strapiombo sulla roccia. Allora io provai, consapevolmente, la pienezza del gusto di vivere, quale si esprime nella devozione iniziatica della grecità olimpica si esprime davanti alle divinità degli abissi, e spesso ho spiegato dalla cattedra ai miei maturandi che la cultura consista nell’inserimento pio e ordinatore, direi quasi pacificatore, del mostro notturno nel culto degli dei." Qui, con queste parole, è Thomas Mann stesso a parlare, perché le frasi che mette in bocca a Serenus Zeitblom ripetono, in libera parafrasi, le parole che lo scrittore cinquantenne scrisse su Atene, nella sua relazione sul viaggio nel 1925. Anch’egli, in un viaggio attraverso il Mediterraneo: provenendo dall’Egitto e tornando in Italia, si ricorda del suo sguardo alla via sacra e della "eroica terra di giovinezza" della civiltà europea, vietata ai barbari. In questo contesto, riconoscendo egli "che è davvero figlio di Europa, solo chi, nelle sue ore migliori, sa fare riferimento nel suo cuore alla Grecia", fra le altre cose egli descrive, nell’enumerare i monumenti osservati, anche il modo di lavorare di quel "Fidia, oh Fidia", che univa un grande talento ad altrettanto grandi debolezze umane e che morì in prigione come ladro di materiale… una frase incidentale, gettata quasi indolentemente sulla carta, eppure una citazione dal frammento di Krull del 1911, che avrebbe assunto una grande importanza per i progressi più recenti sull’opera incompiuta. Anche Krull, come Fidia, è sì un ladro, anch’egli – come potrebbe essere altrimenti?– è scultore e pittore, anche se opera in un altro campo e abita in un altro luogo, al confine fra Logos ed Eros: un maestro ben dotato nella parola come Tonio, Settembrini o Imma Spoelmann, un grazioso amorino come Tadzio, un servitore e imitatore imbroglione di Hermes, come quel biblico Joseph, cui è così straordinariamente simile, in molti punti, e le cui attitudini mitiche egli traspone nel parodistico. Anch’egli, Krull, intraprende una catabasi – pensavamo di esserne certi e di poter confidare nella rappresentazione della permanenza di Fidia in carcere. Ora, che il Krull rimarrà per sempre un frammento, dobbiamo accontentarci dell’introduzione, ingenua rispetto all’altra, dell’incontro ermetico, a Francoforte, con le "civette". Hermes, però, il dio dei ladri, sotto forma di bel fanciullo divino, si accinge già a tessere la sua tela e quando l’eroe, diversamente da Joseph, così ubbidiente al suo Thot-Trismegistos, non si rende ben conto dei legami con il suo ritratto vivente divino, e deve essere informato da una sua amante, Madame Houpflé, delle sue gambe "simili a quelle di Hermes" e quindi della sua affinità con il suo patrono, allora non si può dubitare del significato che il dio furbo ha nell’ultima opera del poeta. Proprio Felix, che, come figura autenticamente mitica, come Joseph, non ha "un ego chiaramente delimitato" ed è affascinato dal pensiero della possibilità di scambiare tutte le cose, dovrà certamente lasciarsi raffigurare, come nessun altro personaggio, come un imitatore (anche se involontario) di qualcosa che presenta molte facce. E come potrebbe non accadere che lui, dotato di ali, come Joseph saggio e bello allo stesso tempo, fosse rapito dalla grazia di quel dio, che è in certo qual modo la personificazione dell’eleganza e, già grazie al suo aspetto, richiama immediatamente alla mente armonia e giusto accordo? Sì, non è alla fine egli stesso, in tutto il suo splendore luccicante (e quindi un po’ sospetto) qualcosa come un "nevrotico Hermes"?

In Tadzio, Joseph e Felix Hermes incarna la perfezione della figura umana, la forma per sé e in sé, unita a grazia e spirito. Alla armonia greca del suo corpo, "la forma come pensiero divino", corrispondono la prontezza della sua mente, la furbizia del suo spirito versatile. Non vi è alcun dubbio che si sia creduto, a buon diritto, che la definizione di Hermes alluda ad un autoritratto nascosto del poeta: "… ordinatore e capo, che governa il mondo fra le tortuosità, sorridente mentre si volge indietro con un bastone sollevato … insomma un mago benevolo con tutte le sue astuzie" – è palese, poiché il bastone del dio dei morti rappresenta anche quello del rapsodo e l’epiteto "mago" fa riferimento ad una affinità assai personale desunta dalla sfera privata.

Nei dialoghi fra Echnaton e Joseph, in quel confronto dialettico che si svolge nella atmosfera serena del culto della luce tardoplatonico e gnostico e nella conversazione fra Krull e il re portoghese Carlos I, un tardo discendente – meno importante – di Amenhotep IV, la forma preferita del poeta assume i suoi contorni più plastici. Basandosi sull’esempio della bellezza problematica e sfruttando il motivo dell’Eros e della catabasi, Thomas Mann delinea i tratti del dio. Catabasi, bellezza, Eros e Hermes sono i consueti riferimenti stereotipati all’antichità, contenuti all’interno delle opere di transizione, … cosa per cui bisogna tenere nel dovuto conto che Eros (in senso platonico) ed Hermes, in quanto entrambi mediatori fra l’uomo e dio, in grado di unire il mondo terreno con l’aldilà, e amministratori di reciproci scambi fruttuosi, sono – d’ora in poi – vicendevolmente imparentati e figurano, nel mondo di Thomas Mann, solo come differenti manifestazioni di un medesimo fenomeno, cosicché Hermes, il furbo e l’accompagnatore di anime, proprio come Eros, risveglia quella "grande gioia", che infonde sempre nuova vita alla morte. Sembra quasi che il poeta riassuma le sue opinioni, conoscenze ed esperienze del mondo greco nel ritratto di quel dio multiforme e ironicamente sereno, verso il quale lui, il socratico, ha una particolare inclinazione dai tempi de La morte a Venezia fino alle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull. Non a caso l’espressione "elegante e spirituale", citata nel resoconto del viaggio del 1925, quando osserva le korai dell’Acropoli, è costantemente connessa alla caratterizzazione del suo amato dio. Hermes: si tratta, parimenti, dell’incarnazione del "giovanile-europeo", l’espressione simbolica di un "sentimento europeo di comune appartenenza", del quale il poeta tratta nell’analisi delle tradizioni antiche sopravvissute, contenuta all’interno del trattato Educazione umanistica ed Umanesimo. Hermes, il dispensatore di vita e il messaggero di morte, l’astuto e l’arguto, che partecipa dell’erotico, del versatile, che possiede costanza e scaltrezza, appare così come un’allegoria di quell’immagine dell’uomo, "che spesso è sprofondata, ma che sempre è riuscita a riemergere alla luce del sole."