Teocrito, poeta ellenistico vissuto nel III secolo prima della nascita di Cristo (vedi questa ottima bibliografia online), rappresenta nei suoi Idilli i pastori, i bovari ed i mandriani della sua patria, la Sicilia, rifacendosi ad un genere letterario, appunto il genere bucolico, che vanta una nascita ben più antica, in quanto già il poeta Stesicoro, nel VI secolo a.C., aveva narrato in un canto corale la storia del pastore mitico Dafni, e, per ritornare ancora più indietro nella storia della letteratura greca, troviamo già, nella descrizione delle armi di Achille, la rappresentazione di pastori-musici:
...due pastori, che nulla insidia suspicando, MSS Vat. lat 3867, f. 44, verso. Scena pastorale. Pastori e flauti. Terza Georgica. |
Nei suoi Idilli, Teocrito rielabora i miti relativi alla poesia bucolica, facendolo però alla luce della sua epoca, quella ellenistica, nella produzione letteraria della quale si nota la convivenza di elementi maggiormente aderenti alla realtà, quali appunto l'approfondimento del mito in chiave psicologico-realistica, ed il ludus letterario, cioè il gusto del letterato che si diverte ad ammettere alla corte della poesia i pastori siculi. Questo contrasto tra realismo e ludus letterario è una caratteristica fondamentale dell'arte di epoca alessandrina, e negli Idilli compare in modo assai evidente ogni volta che Teocrito evidenzia alcuni particolari realistici, per i quali dimostra ancora un certo gusto, e, parallelamente, quando fa parlare i suoi pastori facendo citare loro figure puramente letterarie come accade in Idilli VII, 148-155:
Ninfe Castalie, che avete dimora sul sommo Parnaso, forse che un vino tale ne l'antro roccioso di Folo entro il cratere stillò per Ercole il vecchio Chirone ? E quel pastore che visse su l'Anapo un dì, Polifemo, quel forte che le navi colpia con le creste dei monti, a sgambettar nelle stalle fu indotto da un nettare tale qual era quello che, o Ninfe, ci deste da bere quel giorno presso a l'altar di Demetra, dell'aia signora? (trad. E. Romagnoli).
Alla fine, i suoi pastori sono tutt'altro che rustici nel loro modo di esprimersi, e si trova tra loro un certo lato aulico e cortese, che è in netto contrasto, ad esempio, con la celebre lite tra i pastori Eumeo e Melanzio in Odissea XVII, 258-305:
"...Dove meni quel ghiottone, o buon porcaio, quel mendico inopportuno...." Ciò disse, ed appressollo, e nella coscia gli dié d'un calcio. (trad. I. Pindemonte).
Egli dunque si vale dell'antico motivo dei pastori cantanti e musicanti per presentare, nella sua poesia pastorale, cose di attuale interesse letterario, facendolo però in modo evidentemente scherzoso, in quanto sempre traspare la dissonanza tra l'elemento bucolico primitivo e quello letterario raffinato. Un tipico esempio è riscontrabile nel lamento per Dafni, in Idilli VII, 74-77:
"..e la montagna con lui soffriva, e piangevan le querce, quante del fiume Imera verdeggiano presso le sponde, quando egli si struggeva d'amor, come neve su l'Emo, su Ròdope, su l'Ato, sui picchi del Caucaso estremo" (trad. E. Romagnoli)
Infatti, parlare di Emo, di Ato, del Rodope o del Caucaso non è linguaggio di pastori, ma è tono patetico da tragedia, che ha qui uno scopo simile a quello che aveva in Menandro, che metteva in bocca a degli schiavi, e non a persone colte, citazioni della tragedia, ovvero sia quello di prendersi gioco con cosciente ironia dei pastori siciliani.
Se invece andiamo ad esaminare le Egloghe di Virgilio (uno sguardo alle due più complete pagine dedicate a Virgilio online: quella dell'Università della Pennsylvania e il Vergil Project, mantenuto sempre alla stessa Università), la situazione è completamente capovolta, in quanto il poeta latino percepisce Teocrito come un modello, ma poiché la sua età è profondamente diversa, ne rielabora senza accorgersene i contenuti proprio alla luce di essa, perdendo quella antitesi tra ludus letterario e realismo paesaggistico che ormai non è più colta nella sua valenza storica, cioè per quello che essa poteva significare ai tempi di Teocrito. Un esempio potrebbe essere il modo in cui Virgilio introduce la figura di Dafni nelle Egloghe, in quanto Dafni è sicuramente un personaggio del mito in Egloghe, II 26:
Non temerò il confronto persino con Dafni, se tu vorrai giudicarci.
Invece in altri due luoghi (VII, 1 e IX, 46) egli non è che un semplice pastore. Nella quinta Egloga Dafni è sia un personaggio mitico, sia un amico di Menalca e Mopso (amavit nos quoque Daphnis V, 52).
MSS Vat. lat. 3867, f. 6 recto. Scena di poesia. Menalca, Dameta e Palemone. Terza Egloga. |
Dunque Virgilio può fondere il mondo mitico con quello bucolico: questo processo, progressivo, lo porterà ad inserire persino un suo contemporaneo, il poeta elegiaco Cornelio Gallo, nella scena di canto arcade.
Virgilio, come dicevamo, quando legge gli Idilli teocritei e vi trova alcune espressioni tipiche della tragedia, non le considera una parodia, ma suoni seri e solenni, carichi di contenuto patetico e di sentimento, e tutto ciò accade poiché egli, senza volerlo, vede già quelle immagini con gli occhi di nascente classicismo, riavvicinandosi sempre più alla serietà ed al pathos della poesia greca classica ed abbandonando la giocosità ellenistica, trasformando Teocrito in ciò che riteneva puramente greco, ed arrivando invece, involontariamente, a creare qualcosa di totalmente nuovo, di non assimilabile a nulla di quanto già esisteva. La poesia di Virgilio è dunque vicina all'arte classica perché i suoi componimenti non sono appunto semplici imitazioni di idilli ellenistici, ma vere e proprie opere d'arte compiute formalmente. A sua volta questo fatto dimostra che l'arte virgiliana si avvia già a diventare qualcosa di indipendente, di non legato ad alcuna circostanza determinata: insomma a un fatto di pura letteratura. La poesia, come componimento in sé perfetto, diviene per la prima volta un "oggetto di bellezza". A Virgilio dunque interessa rappresentare nelle Egloghe le situazioni comuni della vita quotidiana, senza però realismo, bensì con una sistematica idealizzazione, e presentandole avviluppate, e quindi profondamente trasformate, dal suo sentimento.
MSS Vat. lat. 3867, f. 16 recto. Scena di poesia. Melibeo, Corydon e Thyris. Settima Egloga. |
Nello stesso tempo però non restano esclusi da questo mondo i
personaggi della realtà contemporanea, e quindi gli amici stessi del poeta trovano posto
tra i pastori musici dell'Arcadia.
Ed inoltre, come a questo punto è lecito aspettarsi, anche qui gli eventi della realtà
esterna appaiono condizionati dal clima sentimentale dell'Arcadia, e sono vissuti
soprattutto in funzione della nostalgia per l'età dell'oro. Dunque si concretizza qui
quella aspirazione alla pace che, come vedremo meglio in seguito, avrà una grande
importanza nella poesia virgiliana anche della maturità.
Questo mondo totalmente nuovo è un mondo inesistente, in cui il bisogno di sentimento e
di giustizia di Virgilio può trovare espressione compiuta, e che egli invita il lettore a
condividere. E' inoltre totalmente nuovo il fatto che con un mondo fatto di sogni si
intrecci così da vicino il mondo reale: il fatto è che in Virgilio tutto si deve
risolvere in un rapporto lirico col mondo, e che tutto parimenti deve
essere rivissuto alla luce dell'intimo e del famigliare. Questa esigenza di intimità,
però, porta Virgilio in rotta di collisione con la realtà, dove egli trova solo
brutalità e violenza. Virgilio cerca l'intimo ed il famigliare in un mondo lontano
spiritualmente, perché le esigenze della sua anima sono più grandi. Questa affermazione
può trovare conferma nell' Egloga X, dove il poeta Gallo, amico di Virgilio, è
ammesso, solo mortale, nel ritrovo dei pastori: nel suo sfogo sentimentale sulle sue
sofferenze d'amore, egli conosce momenti di abbandono al pensiero della morte che non
trovano precedenti nella poesia occidentale. In Egloga X, 33-36, troviamo un evidente
autocompiacimento patetico:
O mihi tum quam molliter ossa quiescant, vestra meos olim si fistula dicat amores! atque utinam ex vobis unus vestrique fuissem aut custos gregis aut maturae vinitor uvae! Oh, quanto
riposerebbero dolcemente le mie ossa |
Palatinus latinus 1631 fol. 15, verso: una pagina dal MSS "Virgilio Palatino", custodito nella Biblioteca Vaticana, contenente il testo da Egloga IX, 67, a Egloga X, 21. |
Dunque straordinaria è la consolazione che il canto dei pastori arcadi può offrire ad un mortale. Ma quale sarebbe il vero motivo di questo, se non che Gallo ha trovato nei cantori arcadi degli ideali compagni di vita? Gallo ha sposato il modo di vita arcadico, ed è entrato in Arcadia, ha abdicato dalla gretta vita reale. Per dimostrare che tutto questo è assolutamente nuovo, è sufficiente un solo brevissimo confronto: l'isolamento di Esiodo a colloquio con le Muse ci mostra che per lui le Muse sono realtà divine realmente esistenti, e non accompagnatrici di un vagare romantico-sentimentale, come le ninfe con cui Gallo dichiara di voler vivere.
I lirici greci arcaici hanno scoperto la nozione di anima circa 600 anni prima di Virgilio. Essi hanno saputo intuire che le funzioni dell'anima sono distinte da quelle del corpo, e permettono all'uomo di percepire dentro il suo io delle sensazioni complesse. In effetti, è con loro che si chiarifica per la prima volta che queste sensazioni non sono solo il risultato di un'azione divina sull'uomo, o comunque una reazione, ma invece qualcosa di molto personale, che accade al singolo con grande peculiarità. Inoltre essi si sono forse per la prima volta nell'occidente resi conto che in virtù di queste sensazioni diversi uomini possono sentirsi legati a vicenda, e che esse possono anche essere condivise da più persone. Infine essi hanno intuito che la sensazione è qualcosa di problematico che ingenera tensione, e che proprio da questa contraddizione può nascere il concetto di profondità dell'anima. Ebbene, queste peculiarità della vita dell'anima costituiscono il naturale contesto in cui dobbiamo inserire anche tutte le osservazioni che abbiamo finora fatto al riguardo dell'Arcadia di Virgilio, con la precisazione che Virgilio elabora e reinterpreta queste caratteristiche fondamentali della vita interiore:
MSS Vat. lat. 3867, f. 14, recto. Ritratto di Virgilio. Sesta Egloga (dettaglio). |
Il fatto di avere elaborato in questo modo le caratteristiche
dell'anima non è privo di conseguenze per la ricezione stessa di Virgilio nelle età
seguenti: non dipende certo solo dalla profezia dell'Egloga IV se il Medioevo ha
ritenuto Virigilio il precursore del cristianesimo. Ma quello che a noi sicuramente preme
per una lettura veramente consapevole dell'Arcadia virgiliana, è che con questa
particolarità del sentimento, in Virgilio si profila per la prima volta anche una nuova
consapevolezza dell'essere poeta. Virgilio è troppo modesto per vantarsi in modo diretto
della propria poesia, ma è chiaro dalla figura stessa di Gallo nell'Egloga X che
tale nuova consapevolezza porta a vedere il poeta come un essere divino, che trova
comprensione da parte della natura, perchè il suo modo di sentire è più profondo e
sensibile di quello degli altri, e pertanto egli deve anche soffrire in misura maggiore.
Nella dichiarazione programmatica di sapore callimacheo posta da Virgilio all'inizio dell'Eloga
VI:
"... pastorem, Tityre, pinguis pascere oportet ovis, deductum dicere carmen" |
" O Titiro, bisogna che il pastore |
noi troviamo anche la speranza che qualcuno possa leggere "haec quoque ... captus amore": invero un augurio poco callimacheo, che ci fa pensare a quanto Virgilio volesse coinvolgere il suo lettore nel suo personale discorso sentimentale, proprio perché esso si costituisce come la caratteristica fondamentale della sua poesia. Interessante, per meglio approfondire questa nuova concezione di poesia, il confronto con l'altro grande poeta augusteo, coevo ed amico di Virgilio: Orazio (i più importanti testi oraziani online). Anch'egli si dichiara già in Carmina I, 1,30-36 separato dai comuni mortali a causa dell'edera, premio della fronte del poeta:
"Me doctarum hederae praemia frontium Dis miscent superis, me gelidum nemus Nympharumque leves cum satyris chori Secernunt populo, si neque tibias Euterpe cohibet nec Polyhymnia Lesboum refugit tendere barbiton. Quodsi me lyricis vatibus inseres, Sublimi feriam sidera vertice." |
"L'edera, premio delle fronti dei dotti mi mescola agli dei superi, il gelido bosco e i leggiadri cori delle Ninfe con i Satiri mi separano dal popolo, se Euterpe non costringe al silenzio i flauti, o Polimnia non si rifiuta di tendere il barbito dei Lesbi. Perciò se mi annovererai nel numero dei poeti lirici, io ferirò le stelle con la mia testa nelle sublimi altezze del cielo". |
Questo atteggiamento è perfettamente in linea con il "divine poeta" dell' Egloga X,17; e in Egloga V, 45 Menalca così chiama Mopso, che ha appena cantato la morte di Dafni Quando poi Orazio nella prima Ode romana, pronuncia il celebre "Odi profanum vulgus et arceo", al senso di superiorità si mescola perfino un odio, di difficile comprensione, almeno per noi moderni. Certo, Orazio nella prima Ode romana si sente investito di valori altissimi, si vive come educatore e diffusore di misteri mai rivelati, nella sua funzione di sacerdote delle Muse. Se vogliamo davvero meglio comprendere la portata di queste affermazioni oraziane, dobbiamo ritenere i singoli motivi non troppo vincolanti. Custode di segreti misterici, sacerdote delle Muse, educatore della gioventù: mentre nella poesia greca queste cose volevano dire quello che dicono, cioè erano ancora legate a un contesto referenziale preciso, qui invece, nella poesia augustea, questi motivi sono ormai divenuti simboli, proprio come accade per la metafora.
Sebbene Orazio non parli in modo esplicito di Arcadia, tuttavia risulta chiaro anche dalla sua poesia che per lui esiste, proprio come per Virgilio, un luogo riservato, accessibile al poeta, e dove regnano indiscutibilmente la dignità dello spirito, la delicatezza dell'anima e la bellezza. Il poeta, che ne è in costante ricerca, non può essere un uomo di questo mondo. Di conseguenza, per la prima volta, si apre un grande abisso fra realtà e poesia, fra ciò che è quotidiano e ciò che dà un significato all'esistenza. Ma poiché il poeta augusteo trae tutto ciò che ritiene serio e di grande importanza dalla cultura e dalla letteratura greca, ciò significa che ogni elemento preso a prestito rischia di divenire un'allegoria, e l'arte augustea un regno di simboli. Pertanto, ciò che dà veramente un significato all'esistenza, sono i contenuti e le immagini del mondo letterario greco, svuotate della loro referenzialità e rese qualcosa di altro.
MSS Vat. lat. 3867, f. 11, recto. Scena di canto. Menalca e Molpo. Quinta Egloga. |
Per esempio, parlare di Efesto come "metonimia" del
fuoco, diventa per un greco un modo di dire, che sottintende certo però la realtà
autentica di Efesto. Prendendo a prestito immagini e motivi dai Greci, invece, i Romani si
sono creati appunto la loro Arcadia, il paese della poesia e dello spirito. In Virgilio
tutti i personaggi del mito, come le Ninfe, le Muse, Pan e Apollo, si avvicinano molto ad
allegorie, poiché in loro si incarna la vita idilliaca dell'Arcadia, la sua natura
giocosa e la poesia sentimentale, per cui i pastori vi si trovano. Ogni originario
elemento religioso relativo a quelle figure mitiche è pertanto scomparso: nascono
"figure di desiderio" che incarnano l'importante, lo spirituale, tutto ciò che
non è possibile trovare nel mondo della realtà.
Forse questo processo è già in parte in atto anche nella poesia attica coeva a Virgilio,
ma noi non la conosciamo abbastanza per poterlo dire. Certo è però che ai Romani le
figure mitiche greche non apparvero mai come completamente reali; essi le ereditarono come
patrimonio culturale, ma di esse si servirono per ritrovare quel mondo dello spirito che
già i Greci avevano scoperto. Ma proprio grazie a questo fondamentale evento, nel momento
cioè in cui un'altra cultura scopre le categorie spirituali che le sono proprie per mezzo
della letteratura greca, da quest'ultima inizia a svilupparsi la letteratura del mondo
occidentale.
Un fenomeno analogo è avvenuto anche in Oriente, dove attraverso Filone e Clemente d'Alessandria il patrimonio culturale greco è stato incorporato rispettivamente nel giudaismo e nel cristianesimo. Il processo di allegorizzazione ha permesso ai miti e alla saggezza greca di sopravvivere, e ha tolto loro quella pericolosità ed estraneità alle culture di arrivo, a causa delle quali queste ultime non avrebbero mai potuto né comprenderli né accettarli al loro interno. Ma il carattere fondamentale di Virgilio e di tutta la tradizione romana da Ennio fino a Catullo, è che, contrariamente a quanto accadde in oriente, qui il carattere greco fu assunto e recepito dai romani attraverso l'arte, e precisamente la poesia. Quando nasce con Virgilio un'arte che rende questi motivi letterari greci forme perfette e compiute di bellezza, allora l'arte diviene "simbolo". E questo fenomeno non è mai esistito prima di lui, e non ha confronti dentro l'arte greca tutta.