L’ultima correzione di rotta: Orazio traduce Orazio

 

Siamo ormai giunti , in questo excursus oraziano, alla virata finale; non resta che l’ultimo tratto di vita del Poeta nel quale, ancora una volta, assistiamo ad una nuova, originale evoluzione artistica.

 

Composte tra il 20 e il 13 a.C., le Epistole, raccolte in 2 libri, 20 nel primo e 3 nel secondo (le cosiddette grandi epistole, quella a Floro, quella ad Augusto, e quella ai Pisoni, più nota come Ars Poetica), costituiscono, poco prima della morte, avvenuta il 27 novembre dell’8 a.C., il testamento spirituale e artistico di Orazio.

 

Si può dire che le altre raccolte oraziane siano nate sempre a partire da un evento significativo:

·        dopo Filippi e il crollo dei sogni giovanili nel 42 gli Epodi di matrice archilochea

·        dopo l’incontro con Mecenate, il suo circolo, l’esperienza di Roma, il dono di Mandela, tra il 40 e il 30, le Satire, sintesi  tra il filone greco della diatriba di Bione e il filone latino della satira di Lucilio

·        dopo l’alta coscienza poetica dei propri mezzi, a conclusione di un decennio di lavoro, nel 23, le Odi, complessa ed originale rielaborazione di spunti lirici risalenti ad Alceo, Saffo, Anacreonte, Pindaro, Callimaco.

 

E’ come se il percorso poetico di Orazio si fosse svolto dall’acquisizione di un’autarkeia morale (Epodi e Satire), alla conquista di una sintesi estetica (Odi), per approdare ora ad un’autarkeia poetica.

Le Epistole hanno infatti per modello, e ne rappresentano il superamento e la sintesi, le Satire stesse.

 

L’epistolografia è raramente presente nella letteratura greca (Platone, Epicuro, il Nuovo Testamento, l’epistolografia fittizia di matrice sofistica con Alcifrone), più frequentemente in quella latina (Cicerone, Sallustio ?, poi Plinio).

In poesia il primo testimone è Orazio, seguito poi da Ovidio.

 

Anticipando, sulla base di alcuni elementi che abbiamo già acquisito, delle direttrici generali di interpretazione, possiamo  affermare che le Epistole si rifanno alle Satire per il tono discorsivo e piano, proprio del sermo; per il senso della terra, della campagna e della natura; ed ancora per la tensione etica.

Si rifanno invece alle Odi per il primato della vita contemplativa sull’attiva, anche se non si tratta più solo di una contemplazione estetica, connessa con l’alto sentire di una missione poetica, ma di una contemplazione etica, interiore, connessa al nuovo sentire di una missione etica (nuovi e numerosi sono gli amici, anche molto più giovani, di cui il Poeta diviene insensibilmente ma prepotentemente maestro).

Le Epistole costituiscono dunque una sorta di ponte tra le due raccolte precedenti, un esito ancipite tra due versanti già esplorati.

Perciò riesce più comprensibile, per la sua realizzazione, il ricorso, ancora una volta, all’inesausto strumento satirico.

E più comprensibile senz’altro riesce quella spesso rimarcata ancipicità tra le  alte vette  di una assoluta perfezione etica ed estetica e quel funestus veternus (Ep. I,14) dovuto ad una vecchiaia precoce, a malannucci vari, al fatto di essere caelebs.

 

Ancora una brevissima osservazione relativamente al sentimento di amicizia, che è ovviamente sotteso a tutto l’epistolario.

Anche in questo ambito possiamo affermare che il concetto epicureo di amicizia e quello stoico di umanesimo universale si fondono in un nuovo sentire, un nuovo intendimento di amicizia, che è comunione profonda, a prescindere dalla contiguità, proprio perché risolta dallo strumento epistolare.

 

 

L’epistola che in modo particolare ho scelto di proporvi è la I,10, diretta ad Aristio Fusco, l’amico “male salsus” che, nella Satira I,9, aveva piantato in asso il Poeta, in balia del seccatore.

 

Urbis amatorem Fuscum salvere iubemus
 ruris amatores, hac in re scilicet una
 multum dissimiles, ad cetera paene gemelli
 fraternis animis, quicquid negat alter, et alter,
 adnuimus patiter, vetuli notique columbi.
 Tu nidum servas, ego laudo ruris amoeni
 rivos et musco circumlita saxa nemusque.
 Quid quaeris? Vivo et regno, simul ista reliqui
 quae vos ad caelum fertis rumore secundo,
 utque sacerdotis fugitivus liba recuso,
 pane egeo iam mellitis potiore placentis.
 Vivere naturae si convenienter oportet,
 ponendaeque domo quaerenda est area primum,
 novistine locum potiorem rure beato?
 Est ubi plus tepeant hiemes, ubi gratior aura
 leniat et rabiem Canis et momenta Leonis,
 cum semel accepit Solem furibundus acutum?
 Est ubi divellat somnos minus invida cura?
 Deterius Libycis olet aut nitet herba lapillis?
 
Purior in vicis aqua tendit rumpere plumbum
 quam quae per pronum trepidat cum murmure rivum?
 Nempe inter varias nutritur silva columnas,
 laudaturque domus longos quae prospicit agros.
 Naturam expelles furca, tamen usque recurret
 et mala perrumpet furtim fastidia victrix.
 Non qui Sidonio contendere callidus ostro
 nescit Aquinatem potantia vellera fucum
 certius accipiet damnum propiusve medullis
 quam qui non poterit vero distinguere falsum.
 Quem res plus nimio delectavere secundae,
 mutatae quatient. Siquid mirabere, pones
 invitus.
Fuge magna; licet sub paupere tecto
 reges et regum vita praecurrere amicos.
 Cervus equum pugna melior communibus herbis
 pellebat, donec minor in certamine longo
 imploravit opes hominis frenumque recepit;
 sed postquam victor violens discessit ab hoste,
 non equitem dorso, non frenum depulit ore.
 Sic, qui pauperiem veritus potiore metallis
 libertate caret, dominum vehet improbus atque
 serviet aeternum, quia parvo nesciet uti.
 Cui non conveniet sua res, ut calceus olim
 si pede maior erit, subvertet, si minor, uret.
 Laetus sorte tua viues sapienter, Aristi,
 nec me dimittes incastigatum, ubi plura
 cogere quam satis est ac non cessare videbor.
 Imperat aut servit collecta pecunia cuique,
 tortum digna sequi potius quam ducere funem.
 Haec tibi dictabam post fanum putre Vacunae,
 excepto quod non simul esses cetera laetus.

 

TRADUZIONE A CURA DI CECILIA CASSINARI, LEONARDO CAZZOLA, EMILIA FLOCCHINI, LUCA FOSSATI, FEDERICO LONGOBARDI, CHIARA MOMO, ROBERTA ROSSI,  CHIARA SALANTI, ILARIA SPAGNOLI, DAVIDE VAMPA.

 

Tra i due corre una profonda e positiva amicizia. Paene gemelli fraternis animis (vv.3-4), quasi gemelli per la perfetta sintonia su tutto, hanno una sola profonda discrepanza. Fusco è innamorato di Roma, Orazio della campagna.

 

Ma la differenza, non da poco, divarica due mondi, non solo geograficamente distanti, ma moralmente antitetici.

La città è il luogo dello spazio ristretto, dove al massimo puoi difendere il tuo (tu nidum servas, v.6); la campagna è il luogo dello spazio aperto, sconfinato, dove tutto è di tutti, i corsi d’acqua, le rocce coperte di muschio, i boschi (v.7), dove, una volta liberatoti da tutti quei capestri che la città comporta (vita di corte, clientelismo, pressioni politiche ed artistiche, amicizie stesse), puoi finalmente vivere convenienter naturae (vv.8-11).

Ne consegue, non solo un benessere materiale: inverni più miti, estati più fresche (vv.15-18); ma anche un benessere morale: in campagna infatti meno si avverte il morso dell’invidia che tormenta il sonno (v.18).

Se  in campagna  tutto è autentico: l’acqua non scorre intasata in tubi di piombo, ma zampilla gorgogliando lungo ruscelli declivi (vv.20-21); il profumo e lo splendore dell’erba non sono certo inferiori a quelli delle pietre preziose, né il verde è coltivato tra colonne variegate, ma vittorioso esplode dovunque (vv. 19-25), anche la calliditas viene autenticamente educata.

Perché in campagna impari a distinguere non la porpora sidonia da una semplice stoffa che è stata tinta, errore in cui, senza un eccessivo danno, si può anche incappare, ma il vero dal falso, che invece è sempre rovinoso confondere (vv.26-29).

E sarà questa calliditas interiore a guidarti progressivamente, ma sicuramente, alla vera libertas, che è poi perfetta letizia (vv.39-44). Poche, ma precise le regole: non esaltarsi eccessivamente della buona sorte (v.30), non cercare grandi mete (v.33), non pretendere di accumulare più del necessario (v.46).

E gli apologhi del cavallo, che per battere il cervo si fa servo del suo cavaliere (vv.34-38), e della scarpa troppo stretta o troppo larga, che comunque è dannosa per chi la porta (vv.42-43), stemperano con una metafora sorridente il rigore etico di questo traguardo e chiudono con una nota scherzosa, dietro il fatiscente tempietto di Vacuna (vv.49-50), le confidenze tra questi “due affiatati colombi un po’ vecchiotti” (v.5).