Il senso del "classicismo" di Cicerone
che è poi quello del suo "umanesimo"
(Tusculanae, de optimo genere oratorum, Gorgia)
In quest'ultimo incontro desidero lasciarvi una breve sintesi di quanto siamo venuti chiarendo nelle tre precedenti lezioni. Ed una sintesi a partire da due termini che usiamo con tale frequenza, e in generale e nei confronti di Cicerone, da averne spesso sfumata la portata, vale a dire "classicismo" e "umanesimo".
"Classico" per eccellenza, riconosciuto tale da tutti e sempre senza eccezioni, è Cicerone e simbolo stesso di umanesimo.
Ebbene, ancora una volta, Cicerone è pervenuto ad una composizione straordinaria.
Se la sua potenza, infatti, fu nella assoluta padronanza della parola (classicismo), lo fu altrettanto e contemporaneamente anche nella cultura e nel pensiero che tale parola sosteneva ed esprimeva (umanesimo).
Questa la mia tesi e per la sua dimostrazione partirò da un breve ma significativo giudizio espresso su di lui da Ottaviano (Plut., o.c. XLIX, 5):
λόγιος ἁνὴρ, ὦ παῖ, λόγιος καὶ φιλόπατρις
(fu un uomo colto … che sapeva perfettamente parlare e amava la patria)
Già Ottaviano aveva dunque inteso che cultura, eloquenza, prassi costituivano per Cicerone un unicum e un continuum, un trittico sostanzialmente unitario.
Ma come Cicerone è pervenuto a questo risultato? Attraverso quale cammino? Da quale intenzione?
Anche questa volta, per cercare una risposta, mi avvarrò di una sua rigorosa traduzione dal Gorgia di Platone. Dialogo estremamente complesso, difficile oltre che da datare (appartiene al primo periodo, quello del primo viaggio in Sicilia, o ai grandi dialoghi della maturità?), anche da sottotitolare, e quindi da centrare nel suo significato principale (sulla retorica? Sulla giustizia e l'ingiustizia? Sulla felicità?), comunque perfettamente rispondente agli specifici interessi di Cicerone.
La discussione verte sulla felicità del saggio, affermata da tutte le scuole filosofiche, e l'inequivocabile oggettività di certi mali, dai quali lo stesso sapiente non è immune.
Eppure, se la felicità è sinonimo di pienezza (cfr. fetus, fecundus) e chi è malvagio è privo di bene, ne consegue che il malvagio non può essere felice; viceversa lo è il saggio, nonostante i mali accidentali, perché egli è pieno di bene, cioè appunto fecundus e quindi felix.
Cicerone quindi concorda con l'assioma platonico (Tusc. V, 34-35):
apud quem saepe haec oratio usurpata est
ut nihil praeter virtutem diceretur bonum
(nel qual Platone ricorre spesso questa affermazione
che al di fuori della virtù non si può parlare di bene)
Questo nello specifico il testo di Platone (Gorg. 470 d-e) tradotto da Cicerone (Tusc. V, 35).
A Polo che gli ha appena chiesto se neppure Archelao, figlio di Perdicca, che allora era ritenuto l'uomo più fortunato, egli consideri felice, Socrate risponde:
Σωκράτης οὐκ οἶδα, ὦ Πῶλε: οὐ γάρ πω συγγέγονα τῷ ἀνδρί.
haud scio, inquit; numquam enim cum eo conlocutus sum. – Ain tu? An aliter id scire non potes? – Nullo modo. – Tu igitur ne de Persarum quidem rege magno potes dicere beatusne sit? – An ego passim, cum ignorem quam sit doctus, quam uir bonus? Quid? Tu in eo sitam uitam beatam putas? – Ita prorsus existimo, bonos beatos, improbos miseros. – Miser ergo Archelaus? – Certe, si iniustus.
Le scelte lessicali di Cicerone, nella sostanziale corrispondenza con il testo greco, sono ancora una volta interessanti.
Innanzitutto, al generico συγγίγνομαι (stare con qualcuno, frequentarlo, conoscerlo; cfr. consuetudo et usus) Cicerone fa corrispondere il preciso colloquor (parlare con), facendo coincidere quindi la εὐδαιμονία - beatitudo con il bonum, ed ancora una volta non ideale, metafisico, ma interiore e coerentemente espresso.
Dal "colloquio" è infatti possibile valutare la παιδεία e la>δικαιοσύνη,ovverosia la conoscenza astratta dei principi, la dottrina, e la loro coerente e visibile applicazione.
δικαιοσύνη infatti è l'applicazione visibile (cfr. √ δεικ-/δικ-) di ciò che è e si ritiene δίκαιον.
Questa è l'unica vera bonitas, il solo metro per cui è possibile sapere se uno è bonus e di conseguenza beatus.
Altrimenti uno potrà anche essere fortunatissimus, ma sarà miser.
E la miseria è l'esatta antitesi dell'humanitas.
Alla luce di quanto abbiamo appena detto, e ad ulteriore conferma, è possibile allora inquadrare e meglio comprendere il criterio stesso di "traduzione" teorizzato ed applicato da Cicerone.
Mi riferisco ad un passo del de optimo genere oratorum (5, 14-15) in cui Cicerone afferma:
Converti enim ex Atticis duorum eloquentissimorum nobilissimam orationes inter seque contrarias, Meschini et Demostheni; nec converti ut interpres, sed ut orator, sententiis isdem et earum formis tamquam figuris, verbis ad nostram consuetudinem aptis. In quibus non verbum pro verbo nocesse habui reddere, sed genus omne verborum vimque servavi.
(Ho tradotto infatti due bellissime orazioni dei due più eloquenti oratori attici, di Eschine e di Demostene, totalmente diverse fra loro; e non le ho tradotte come un traduttore, ma come un oratore, con i medesimi concetti e rispettandone lo stile e le figure retoriche, ma con scelte lessicali adatte alla nostra mentalità. In esse non ho ritenuto necessario tradurre parola per parola, ma ho rispettato nel loro insieme il senso e la forza espressiva delle parole.)
Anche Plutarco (XL,2), se aveva rilevato che era stato proprio Cicerone il primo a "volgere ad uno ad uno in lingua latina i termini greci usati per la dialettica e per la fisica… come καὶ τὴν φαντασίαν καὶ τὴν συγκατάθεσιν καὶ τὴν ἐποχὴν καὶ τὴν κατάληψιν, ἔτι δὲ τὸ ἄτομον, τὸ ἀμερές, τὸ κενὸν", aveva anche rimarcato come egli si fosse "ingegnato, per renderli comprensibili e il più possibile vicino ai Romani, di renderne alcuni con metafore, altri con un linguaggio familiare ai lettori".
È facile cogliere la portata di quanto sopra da un rapido confronto con l'equivalente lessico ciceroniano: visum (rappresentazione/concetto), assensionis retentio (sospensione del giudizio), assensio atque approbatio (assenso della mente alle percezioni), comprehensio (percezione), corpora individua (atomi), inane (vuoto).
È evidente che Cicerone ha voluto e saputo andare oltre una semplice traduzione.
Da qui la diversa funzione di un interpres e di un orator.
Interpres e chi solamente e magari diligentemente traduce.
Orator è chi interpreta, storicizza, incarna la cultura. Coniuga cioè il pensiero con il mos, che è più della semplice "tradizione", ma è il mio vissuto, la mia storia e quella a cui appartengo, la mia necessità che è ratio e colloqui, in una parola λόγος.
Ecco allora che non supponente o arrogante, ma solenne ed emblematico suona il famoso e più volte ripetuto (in Pisonem, 72,75; Quint. IX, 4,41; XI, 1,24):
cedant arma togae, concedat laurea linguae!
(si ritirino le armi davanti alla toga, l'alloro dei trionfi lasci il campo all'eloquenza!)
Classico dunque Cicerone, non certo o non solo per la sua chiarezza, la sua eleganza, la sua concinnitas, ma perché ogni parola è lucida ed efficace espressione del pensiero.
Umanista Cicerone, non solo per la sua poliedrica cultura e la sua intensa e diversificata attività, ma perché ogni parola ha cercato di comunicarla, verbalmente, per iscritto, nelle vicende della sua esistenza.
Perciò la παιδεία si fa φιλανθρωπία, il λόγος si incarna nei mores della tradizione latina, si storicizza, si realizza, diventa amor di patria, eterno umanesimo.