Romanizzare e divulgare la filosofia

presupposto per una rinnovata coscienza civile

(De republica e Fedro)

 

 

 “Più di una volta aveva preteso che gli amici lo chiamassero filosofo, non oratore;  la filosofia diceva infatti di averla scelta come occupazione primaria, dell’oratoria invece se ne serviva come uno strumento quando faceva politica  secondo le necessità” (Plut. Cic. XXXII,6).
Φιλόσοφος, o forse meglio τῆς σοφίας φίλος, amante della conoscenza, perché filosofo, nell’accezione corrente del termine, Cicerone non fu mai, né per originalità, né per sistematicità, né per appartenenza.

 

Eppure, 12 e di notevole mole (De republica, De legibus, Paradoxa Stoicorum, Academici, De finibus, Tusculanae disputationes, De natura deorum, De divinatione, De fato, De senectute, De amicitia, De officiis) sono gli scritti filosofici rimastici, oltre a numerosi altri perduti (Hortensius, Consolatio, De virtutibus, ecc.).

 

Divulgatore dunque?

Sarebbe una definizione riduttiva per chi ha avuto il grande merito

·        di aver dato alla filosofia di indiscussa etichetta greca un carattere romano,

·        di averla ricreata in una prosa d’arte limpida e avvincente,

·        di averla voluta comunicare a vasto raggio.

Da qui anche la scelta letteraria del dialogo. Da qui l’importanza da Cicerone assunta nel varo della filosofia cristiana (da M. Felice a Lattanzio, da S. Ambrogio a S. Agostino a Boezio).

 

Ma i tre meriti che abbiamo rilevato risulterebbero ancora parziali, se non li interpretassimo alla luce di un unico costante obiettivo: rifondare, in un momento in cui i sacri mores non sono più esaurienti, in cui la respublica è lacerata dai particolarismi, in cui tutto ciò che è ellenico o ellenistico suona come evasione artistica, la coscienza di una Romanità che, affondando le radici nel proprio passato, attingendo nuovo vigore dalla Grecità, sappia riproporsi come guida politica e morale di una nuova universalità.

 

Incline alla filosofia fin da giovane, per temperamento e per tendenza culturale dell’epoca, nutrito dalla lettura delle opere greche e dalla frequentazione con i filosofi greci, esercitato dalle traduzioni di opere complesse come il Timeo e il Protagora, Cicerone trovò nell’otium indotto dalla rallentata attività politica, tra l’uno e l’altro triumvirato, l’occasione di organizzare le varie fonti greche cui si era formato, estraendo dalla molteplicità delle tradizioni, con ampia libertà di giudizio (così da apparire eclettico), un tutto sostanzialmente organico.

 

In coerenza con il proposito generale del corso, ho scelto alcune pagine che mi permettano di evincere più nei dettagli il metodo tecnico di traduzione adottato da Cicerone e di cogliere contemporaneamente l’obiettivo specifico che abbiamo appena evidenziato.

Si tratta di uno dei passi più famosi che ricorre identico sia nel I libro delle Tusculanae (I, 53-54), sia nel VI libro del De Republica (VI, 27 sg.) e che costituisce la traduzione della famosa dimostrazione di Platone,  fatta esporre da Socrate nel Fedro (245 c-e), circa l’immortalità dell’anima.

 

 

 

 

 

Traduzione

“L’anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è eterno, mentre ciò che muove qualcos’altro ed è mosso da altro, quando finisce di muoversi, smette di vivere. Solo ciò che si muove da sé, poiché non si allontana mai da sé, non smette mai di muoversi, ma anche per tutto quanto è mosso è fonte e principio di movimento. E ciò che è principio è ingenerato. Infatti è dal principio che tutto ciò che c’è deriva, mentre esso non deriva da nient’altro; se infatti il principio derivasse da qualcos’altro, non sarebbe più un principio. Dal momento quindi che è ingenerato, non può che essere anche incorruttibile. Infatti, una volta finito, il principio non potrà più nascere da altro, né altro potrà nascere da esso, se tutto deve derivare da un principio. Ne consegue che principio del movimento è proprio ciò che si muove da sé. Ed esso non può né finire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra precipiterebbero in una sola caduta e si fermerebbero e non avrebbero più il principio da cui trarre movimento ed esistere. Essendo dunque chiaro che ciò che si muove da sé è immortale, sarà possibile affermare che proprio questa è l’intima essenza dell’anima. Così, ogni corpo a cui il movimento proviene dall’esterno è inanimato, mentre quello a cui proviene dall’interno da sé è animato,  poiché questa è la natura dell’anima. Se le cose stanno così, cioè che non c’è nient’altro che si muove da sé se non l’anima, ne consegue che l’anima è ingenerata e immortale.”

 

Osservazioni

Possiamo raggruppare le differenze in tre ambiti: lessicale, sintattico, stilistico.

 

A livello lessicale possiamo rilevare subito una maggior concretezza laddove a termini astratti come κινήσεως e ζωῆς vengono preferite azioni verbali quali movendi e vivendi.

Oppure al più generico ἀρκὴ δὲ ἀγένητον viene fatto corrispondere il più determinato principii autem nulla est origo.

Più notevole risulta  la scelta di aver evidentemente voluto evitare la corrispondenza ἀθάνατος / immortalis, che pure non è ignota al lessico ciceroniano. Qui Cicerone preferisce ricorrere ad attributi di valenza temporale quali sempiternus / aeternus. E non a caso. Immortale, per lo stoicheggiante Cicerone, non è infatti ogni singola anima (ψυχὴ πᾶσα), bensì l’anima mundi, l’universale λόγος. Proprio perché parte di questo e ad esso riconducibile ogni singola anima non potrà che essere eterna.

 

A livello sintattico la difficoltà dei numerosi participi, o sostantivati o congiunti, nel testo greco viene risolta con subordinate,  per la maggior parte di tipo relativo, o causale o temporale, come è possibile rilevare dalle sottolineature apportate ai due testi.

Possiamo ancora notare come al genitivo assoluto greco ἀρχῆς γὰρ δὲ ἀπολομένηςmeno rigido di quello latino nella mancanza di legami con la proposizione principale, corrisponda in Cicerone la soluzione invece del participio congiunto col soggetto: principium extinctum nec ipsum ab alio renascetur.

 

A livello stilistico è innegabile, rispetto al testo greco, il tono più asseverativo. Tutti gli esempi sono facilmente reperibili, perché evidenziati in modo corrispondente nei due brani.

Lo notiamo dall’inserimento di necesse est; viceversa dall’eliminazione di ἀνάγκη sostituito tout-court dall’affermazione ne occidit quidem umquam.

Ugualmente avviene per l’espressione in Platone “se le cose stanno così”, sottaciuta in Cicerone.

Ad un periodo ipotetico della possibilità, Cicerone fa corrispondere l’irreale e radicale “nec enim esset id principium quod gigneretur aliunde”.

Più recisa risulta ancora l’interrogativa retorica “quis est qui…neget” rispetto al più indeterminato  τις λέγων οὐκ αἰσχθνεῖται.

E per concludere, Cicerone fa corrispondere alla possibilità di ἐξ ἀνάγκης ἀγένητόν τε καὶ ἀθάνατον ψυχὴ ἂν εἴη" la risolutiva affermazione “neque nata certe est et aeterna est”.

Sostanzialmente corrispondenti sono i due brani che abbiamo esaminato, ma la differenza, e non da poco, la determina la loro collocazione.

Il discorso sull’immortalità dell’anima pronunciato da Socrate si trova infatti all’interno di quello emblematico di Eros filo-sofo, colui cioè che insegue la Verità senza posa, cercando di innalzarsi ad essa sempre di più, nel contesto di un agone dialettico tra il bel dire, il ben dire ed il vero dire. In una dinamica quindi teoretica.

Quello ripreso da Cicerone si trova invece a conclusione del cosiddetto Somnium Scipionis e costituisce le ultime parole che  Scipione l’Africano, dopo essere apparso in sogno al giovane Scipione Emiliano, dopo avergli predetto le prossime grandi imprese,  dopo averlo trasportato insieme al padre Emilio Paolo nell’alto della Via Lattea ed avergli mostrato da lassù la piccolezza della terra, solennemente pronuncia: la vera vita è lassù tra le sfere celesti, dove hanno avuto origine le anime e dove ritorneranno quelle di coloro che avranno esercitato ed innalzato la loro anima col patriam conservare, adiuvare, augere. E, prima di scomparire, ribadisce: “Hanc tu exerce in optimis rebus! Sunt autem optimae curae de salute patriae”

Non teoria quindi, ma morale e morale civica!