Il rapporto di Cicerone con l’oratoria greca e latina
Disertissime Romuli nepotum
“Il più elegante e perspicuo” (disertus), non solo il più eloquente (facundus), avvocato di tutti i tempi.
Ed in questo apparentemente svagato giudizio di Catullo (Carm. 49) risiede la soluzione del rapporto di Cicerone con l’oratoria greca e latina.
E’ nel Brutus (del 46) che, oltre ad un’esposizione della storia dell’Oratoria romana, noi possiamo rinvenire i termini ancora vivi di una polemica non solo tra due modi stilistici diversi di concepire l’oratoria (atticismo e asianesimo), ma tra due mondi diversi nella concezione dell’arte.
Ed è sempre nel Brutus che Cicerone, con piena consapevolezza di essere arrivato a costituire un vertice ideale ed un apice professionale nel campo dell’oratoria, precisa la propria posizione.
Sì, perché in questo consiste la peculiarità di Cicerone: nell’essere stato un ottimo, preparatissimo, intelligente avvocato (un principe del foro), ma nell’aver inteso, con mentalità squisitamente greca, che un oratore diventa eterno, al di là dell’occasione transeunte della sua orazione, se riesce a trasformarla in un’opera d’arte.
Se cioè nel testo, oltre al contenuto e alla bella forma, vive con tutto il suo pathos, inscindibilmente, l’autore. E’ questo che distingue, in qualsiasi campo artistico, il capolavoro destinato all’eternità, da una copia destinata al riciclaggio.
Possiamo dire che Cicerone fu sempre poeta della parola, capace cioè di farle travalicare i confini contingenti della sua attualità, per farle attingere l’eterno.
E’ in questo senso che possiamo inquadrare allora quella sua insistente rivendicazione di essere “demostenico”.
Fino all’ultimo con le Filippiche evidentemente volle ancora richiamarsi al grande oratore ateniese. Non certo per lo stile, quanto proprio per l’identica concezione artistica dell’oratoria.
L’oratore, secondo la tradizione greca, ha per suo fine non solo il persuadere, ma anche il dilettare e il commuovere (de opt. gen.1,3-4).
et docet et delectat et permovet ”
Ma se il persuadere è ovviamente il fine pratico dell’oratore, il delectare e il movere ne sono il fine vero, quello artistico, che esula dalla contingenza pratica del momento, ma proietta l’orazione in uno spazio trascendente sempre accessibile e sempre attingibile.
Ecco perché la polemica tra asianesimo, al pur asiano Cicerone, e atticismo, al pur demostenico Cicerone, suona fittizia.
Non si tratta si rispettare rigorosamente ed elegantemente delle regole, un modello. Si tratta di ardor.
Di un’orazione che Bruto, grande oratore ed amico ma, insieme a Calvo, esponente pervicace dell’atticismo, gli aveva inviato sollecitandone il giudizio, egli scrive (ad Att. XV,1a,2):
“Est autem oratio scipta elegantissime sententiis, verbis, ut nihil possit ultra:
ego tamen…scripsissem ardentius”
E’ dunque quella deficienza di ardor o mancanza di vis (la δεινότης demostenica) che egli rimprovera agli atticisti come Bruto e Calvo (multae erant et reconditae litterae, vis non erat).
E’ grazie a questa vis, e non a delle norme retoriche, che un oratore si impone, si fa intendere dagli ascoltatori, domina le folle con la parola (ad Brut. ap. Quint. 8,3,6):
“eloquentiam quae admirationem non habet nullam iudico”
Il vero giudice dell’oratore e del suo valore è infatti il popolo (Brutus, 185), non le sottigliezze accademiche dei critici; e con il giudizio del popolo sono d’accordo i docti homines, le persone intelligenti:
“itaque numquam de bono oratore aut de non bono
doctis hominibus cum populo dissentio fuit”
L’oratore deve tenere la scena come un attore; e non è il testo che fa l’attore, bensì l’attore che fa il testo (Brut. 290):
“Volo hoc oratori contingat, ut, cum auditum sit eum esse dicturum,
locus in subselliis occupetur, compleatur tribunal,
gratiosi scibae sint in dando et cedendo loco,
corona multiplex, iudex erectus;
cum surgat is, qui dicturus sit, significetur a corona silentium,
deinde crebrae adsensiones, multae admirationes;
risus cum velit, cum velit, fletus:
ut, qui haec procul videat, etsiamsi quid agatur nesciat,
at placere tamen et in scaena esse Roscium intellegat”
Per questo, giovane ed esuberante, era rimasto affascinato dal leader della scuola asiana a Roma, Q. Ortensio Ortalo, brillante ed indiscusso signore dei tribunali, alla cui scuola Cicerone si mise e alla cui scuola crebbe, conservandone sempre un’ammirata devozione.
Sostanzialmente asiano di temperamento, Cicerone fu anche asiano per impostazione scolastica ed asiano restò nell’animo sino alla fine. La sua ultima orazione infatti, le Filippiche, quella nel titolo più demostenica, di fatto è stilisticamente asiana, più vicina alle prime orazioni che non a quelle in cui, dopo aver sbollito la sua “iuvenilis licentia” (Brut. 316), docile al magistero di Molone da Rodi, era pervenuto ad uno stile più controllato e limpido (deferverat oratio), sapientemente dosando quella tendenza degli asiani agli σχήματα della retorica gorgiana (antitesi, omoteleuti, chiasmi, paronomasie, ecc.).
Ed è sotto questo punto di vista che va psicologicamente inteso il suo anti-atticismo, come qualcosa di istintivo, di intimamente personale, mentre egli si rifaceva ai medesimi modelli attici che si prefiggevano gli atticisti, primo fra tutti Demostene, ma anche Eschine, Iperide, Lisia. Lo testimoniano anche le sue accurate traduzioni della Sulla corona e della Contro Ctesifonte.
E’ comprensibile, a questo punto, come la teoria oratoria di Cicerone costituisca un tutt’uno con la sua prassi, anzi coerentemente ne discenda. Una prassi che militava con pari dignità e magnanimità nei tribunali, nei comizi, in senato: l’oratoria non è solo questione di forma, come per gli atticisti, ma di sentimento, di cultura, di politica, insomma di una moralità che investe tutti i valori dell’Uomo.
Essa è un magistero di educazione, è l’espressione di una personalità e, come tale, non può essere rinchiusa in leggi, in norme, in precetti, nelle scuole e nelle esercitazioni. Bensì è l’estrinsecazione di un Io-educato, di un’auto-educazione.
Questo è il vero senso dell’esortazione rivolta a Bruto, il desiderio di debellare la sua mania atticista. A Bruto nulla mancava per essere grande oratore, se non quel “quid” per cui la sua personalità potesse erompere piena dalle parole che esprimono il pensiero.
Per questo a Bruto, giovane promettente e dall’animo nobile, Cicerone dedica questo suo studio che, attraverso la storia dell’eloquenza, rievoca le belle figure di una gloriosa romanità, tutta improntata a dignità civica, libertà politica e onestà di coscienza. Figure che, attraverso l’eloquenza pubblica, si erano imposte, avevano guidato, diretto, ammaestrato i loro contemporanei. Sono questi oratori che tanto hanno contribuito alla Repubblica, sono questi oratori che sostanzialmente hanno fatto la storia di Roma libera. Oratori, ma le loro parole si tramutavano in azione presso il popolo (Appio Claudio Cieco, Fabrizio, Catone, Scipione… ultimo, Ortensio Ortalo).
Ecco perché il problema critico, la polemica tra atticisti e asiani, viene quasi sdegnosamente relegato in un canto, perché il problema vero non è “come” parlare, ma è “saper” parlare, cioè trasfondere quel sentimento di vera romanità, come era insito nel cuore degli antichi oratori, e che è soprattutto sentimento politico, cioè sentimento di libertà.
E questo colloquio scritto con Bruto non restò certo lettera morta.
Bruto, critici ormai i tempi, nonostante la sua grande cultura, la sua integrità, le sue magnanime speranze, non troverà quell’affermazione che si meritava, ma sarà lui a compiere l’atto estremo di voler salvare Roma e la Romanità, cioè la Repubblica e la Libertà, cioè la dignità dell’individuo nella dignità dello Stato.
E Cesare oratore che spazio occupa nella disanima Ciceroniana?
Il giudizio su Cesare viene nell’opera pronunciato da Attico, la persona che si professava estranea alla politica e che pertanto poteva esprimere un giudizio che sapesse di imparzialità.
E’ evidente che per Cicerone la valutazione di Cesare oratore comportava la valutazione di Cesare cittadino, allo stesso modo in cui la valutazione di Ortalo assume un significato politico.
Tacere quindi su Cesare significa fare le più ampie riserve e significa soprattutto escludere un raffronto diretto tra Cesare e Ortalo, tra sé e Cesare. Mentre il rappresentare Bruto in ascolto del giudizio che su di lui pronuncia l’accorto Attico, significa rappresentare Bruto nell’atto di “valutare” la personalità di Cesare cittadino e oratore.
A Cicerone Cesare aveva dedicato il suo trattato retorico De Analogia, nel quale figurava una “singularis laus” che ora qui Cicerone riporta attraverso le parole di Attico che richiama su di essa l’attenzione di Bruto (Brut. 253):
ac si ut cogitata praeclare eloqui possent, nonnulli studio et usu elaboraverunt,
cuius te paene principem copiae atque inventorem bene de nomine ac dignitate
populi Romani meritum esse existimare debemus
(e se alcuni con lo studio e l’esercizio hanno cercato di arrivare ad esprimere il loro pensiero in modo elegante,
di questo stile ricco per così dire il modello e l’inventore dobbiamo ritenere te
benemerito del nome e della dignità del popolo romano)
E Bruto commenta immediatamente (255):
Hanc autem …gloriam testimoniumque Caesaris tuae quidem supplicationi non,
sed triumphis multorum antepono.
( E questa gloria e questa testimonianza di Cesare io la considero di più
non solo del pubblico rendimento di grazia decretato in tuo onore, ma dei trionfi di molti)
Bruto riprende l’elogio Cesariano, per mettere sottolineare la grandezza dei meriti politici dell’oratoria di Cicerone. E così le lodi, pur da tutti condivise, che Attico fa di Cesare servono, più che a lodare Cesare, ad insinuare il dubbio che la sua grandezza oratoria non sia di vantaggio alla repubblica. Chiaramente il Cesare oratore risulta superiore al Cesare generale. E, forse, singularis laus di ritorno suona questo implicito monito a Cesare che questa sua grandezza di unicus imperator e di maximus orator tornino ad esclusivo vantaggio della Respublica.