L’eremo di Sant’Alberto di Butrio

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Preside (Prof. D. Guglielmo)

Dirigente Scolastico

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La storia

Sant’Alberto era probabilmente il rampollo della nobile famiglia dei Malaspina. Nel 1030 decide di andare a vivere come eremita in una grotta nei pressi di Butrio, vivendo di stenti come gli anacoreti. Nel 1050 circa viene convocato da papa Alessandro II per discolparsi da accuse di eresia: si dice che durante il banchetto abbia trasformato dell’acqua in vino, e per questo sia stato assolto dall’accusa. Il marchese Malaspina finanzia il Caenobium Sanctae Marie Genitrix et Sancti Alberti, nei presi della grotta. Nel 1073, anno della morte di Alberto, la sua salma viene posta nell’eremo, al quale viene aggiunta una cappella-mausoleo appositamente per contenere i resti del santo.
Nel 1084-1085 Gregorio VII concede sempre più potere ai monaci, che costruiscono il cenobio, rivolto ai pellegrini. Nel Trecento si crea un terzo elemento architettonico dedicato a Sant’Antonio: l’atrio, con una cappella. L’eremo appare quindi costituito da tre elementi strutturati in modo artisticamente incongruo. La torre, che in origine serviva a proteggere l’eremo dalle incursioni dei pirati (frequenti anche nell’entroterra ligure) e dalle insurrezioni popolari, viene tramutata in campanile. Nel 1366 vengono realizzate le prime decorazioni, nella forma di affreschi di stile gotico. Nelle decorazioni del 1384 vengono citati Stefano de Zucotis Barbatonsor, barbiere che finanzia l’affresco sopra la tomba di Sant’Alberto, e il marchese Bertraminus Malaspina, signore del castello di Lagliano (Tortona). Queste decorazioni non riportano il nome di un auctor, ma probabilmente sono state realizzate da un monaco. Al 1453 risale il campanile: la campana più grande è firmata da Taddeo Bussetti, abate dei marchesi di Zucchi, ma non tutte sono originali. Nel 1484 vengono realizzati degli affreschi in stile “rinascimentale”. Negli anni successivi la struttura cade in decadenza, e nel 1489 diviene parrocchia.
Nell’Ottocento la torre viene abbattuta per due terzi, ma in seguito viene riedificata la cella campanaria, dando luogo ad una stortura stilistica. Nel 1870 viene sconsacrata da Napoleone, per la politica laicizzata della rivoluzione francese e parte del materiale di costruzione dell’eremo viene utilizzato per le successive campagne belliche. Nel 1878 viene esplorato il sarcofago di Sant’Alberto, che a contatto con l’aria si disintegra. Nel 1865 Alberto Cavagna di San Giuliani scrive “Sant’Alberto di Butrio”, una fonte in cui sono anche trascritte le epigrafi degli affreschi. Dei documenti di concessione del feudo riportano che Dante e Barbarossa sono passati dall’eremo, e probabilmente l’eremo è anche il sepolcro di Re Edoardo II d’Inghilterra, che vi si rifugiò dopo una congiura di corte, fingendosi morto. La torre appare robusta, con angoli retti. Le pietre sono tagliate in modo più grossolano nella parte inferiore, mentre vanno a regolarizzarsi nella parte superiore. I setti (divisori verticali) e i letti (divisori orizzontali) sono simmetrici, mentre le feritoie sono aperte per esplorare, dare luce alla scala e al ponteggio.

La chiesa

La chiesa ha una sola navata ed è monoabsidata. È costruita con solidi blocchi di pietra dell’Appennino, con letti di cemento molto spessi: questo tipo di allettamento è tipico di questa zona, molto terrosa e franosa. La struttura è composta da archi a tutto sesto con conci fatti a mattone, ed è disassata.
All’interno c’è un mistico silenzio, anche perché è molto piccola: è un rifugio con pochissimi proseliti. È un edificio romanico nella sua accezione più pura, ed è una cappella utilizzata come chiesa. È quindi un luogo elitario, simbolo di una nobiltà interiore. L’altare è rialzato di un gradino, indicando il rapporto di ascolto della messa. Le spalle degli archi a tutto sesto si combinano con il pilastro di base, dimezzato, denotando un ritorno alla romanità. Le maestranze degli archi sono artigianali del centro Italia. C’è un’unica campata rettangolare molto ampia, e i peducci, i capitelli pensili e le mensole rinforzano la gala delle vele; le vele sono quattro, rotte in due dalla costa, che assicura la massima stabilità. C’è una struttura duplice delle finestre: inizialmente era sola, rettangolare, mentre nel tra il Quattrocento e il Cinquecento ne è stata aperta un’altra, con struttura inclinata (per irrorare di luce).
Le pareti sono composte da pietre non levigate dell’Oltrepò pavese, di taglio incongruente. Sono aspre, lontane dal romanico cittadino, e la forza statica è preferita rispetto all’efficienza visiva ed estetica. È presente un utilizzo sporadico dei mattoni a vista, per tamponare delle falde e sopperire al deperimento dei materiali precedenti. La pavimentazione non è originaria, perché totalmente rifatta a causa dell’infiltrazione dell’umidità: originariamente il pavimento era sterrato.
L’accesso all’abside non necessita di un tiburio, a causa della mancanza del transetto. L’abside presenta una piccola campate rettangolare speculare a quella della navata, mentre l’arco corrispondente è a sesto acuto, gotico, ed è stato rinforzato per un cedimento. L’abside è incassato nel muro, stretto, e ricorda la struttura della monofora, o bocca di forno, asimmetrica: i due montanti e l’arco formano uno strombo enorme.
La chiesa mostra perfettamente il romanico inteso come esaltazione della difformità: l’uomo è difforme per intelletto, ingegno e vicinanza a Dio. Inoltre l’uomo è imperfetto, e quindi anche le sue opere lo devono essere: per questo la struttura e disassata e non simmetrica. Ciò che costruiamo è una mera ombra, simulacro di quello che il tempio è, che siamo noi.

Il mausoleo

Il mausoleo è un ambiente conservativo. Alcuni elementi, quali la finestra e l’apertura, disturbano la vista. Si snoda non rispettando la simmetria, sempre con una navata unica: è una basilichetta sussidiaria. Le campate sono quattro, e abbracciano anche il luogo dell’atrio. La parete è articolata su semipilastri polistili senza capitelli, simbolo di un romanico raffinato. Gli archi sono a tutto sesto di fornice diverso, ad indicare che i pesi verso la vallata sono diversi. Le volte a crociera sono a spigolo perso, dentro il muro; non hanno la costa che le divide, ma spingono le pressioni verso il centro e le disperdono lungo il muro laterale. Il piccolo presbiterio sopraelevato sulla navata era l’iniziale locazione del sepolcro di Sant’Alberto: nel 1127 vi sono state tumulate le ossa. La finestrella è stata rifinita successivamente, ed è a base quadrata. Sulle pareti sinistra e destra del presbiterio sono presenti due affreschi.
L’affresco di sinistra
L’affresco di sinistra rappresenta la Madonna con il Bambino e i Santi. Sulla cornice è riportata, con una scrittura gotica, la data del 23 settembre 1484. L’artista è un monaco di una certa cultura figurativa. Il marchese Bertramino, inginocchiato, in posizione gerarchica, che offre il suo servigio. Sono presenti Santa Lucia, con l’attributo degli occhi, e Sant’Antonio, con il famoso fuoco. Al di sotto c’è lo stemma del marchese Bertramino, della casata dei Malaspina, composto da varie spine e un albero con le radici, il rovo, di due colori: il rosso sopra, e il giallo sotto. È presente anche Sant’Apollonia. I personaggi sono indicati nella cornice, come avveniva in età carolingia.
La Madonna è coronata da una struttura a nimbo, simbolo che ha sopportato la settimana santa. Gesù tiene in mano il mundus, simile a quello su cui è seduto a San Vitale, a Ravenna. Sulla veste di Sant’Antonio è presente una gammadia, la tau τ, simbolo di anacoreta del deserto: ricorda una croce, viene dall’Egitto e quindi dalla Chiesa orientale, ed è anche il simbolo di San Francesco. Sant’Apollonia tiene la tenaglia, perché le sono stati estratti tutti i denti, per farla abiurare. Il velario di perle dietro la madonna è il suo simbolo: la perla indica la regalità. Il bianco indica la purezza e la verginità della Madonna; il rosa indica la sua partecipazione al martirio; il color albicocca è un colore insolito, e potrebbe rappresentare l’infanzia di Gesù; l’oro invece è un colore portatore di luce.
La prospettiva è solo avviata, anche se l’affresco è stato realizzato dopo Piero della Francesca, Brunelleschi e Alberti. C’è un tentativo di legame con Pavia e il mondo emiliano, ma riesce a malapena a sagomare il gradino del trono abbassato e la progressione dei due santi. Il fondale, prezioso, appiattisce.
Sant’Antonio ha come simbolo anche il maiale, emblema dello stare nel deserto, tentato dal demonio. Il maiale è nero appunto perché demoniaco. L’eum porcello veniva invocato contro la pestilenza. L’incisione di Maria non è visibile, mentre il motivo del vestito è floreale.
L’affresco di destra
L’affresco sulla destra riguarda il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, compiuta da Sant’Alberto ad un banchetto. Il Santo regge un bastone pastorale ed ha una lunga veste nera e delle calzature di stoffa o di capra. Sta compiendo la benedizione con due dita alzate (puntale e piviale). Sono presenti dei cardinali e papa Alessandro II. È presente l’idea della corte medievale, con l’acqua che veniva ancora attinta dal pozzo. Ci sono degli elementi di lustro, antinaturalistici, di natura simbolica. L’artista non è lo stesso che ha realizzato l’altro affresco: c’è una mentalità anacronistica, e una pittura provinciale. Sono presenti vari errori anatomici, riguardanti le mani e l’altezza delle figure. Inoltre, il pavimento non è prospettico. Le espressioni dei visi sono ripetitive, segno di una fissità e inespressività di stampo bizantino, oltre che di una mancanza tecnica.

L’atrio oratorio

L’atrio è un avancorpo per l’accoglienza, la cura e il riposo dei pellegrini, ed è per questo anche un’ospitaleria. Il pilastro centrale, che sorregge tutta la struttura, è polistilo a forma di croce, e risale al ‘300 o ‘400. I bracci maggiori sono sulla fronte, dove è presente la parasta; quelli minori sui lati, dove invece è presente la lesena. L’allacciamento è formato da archi, denotando una parvenza di Rinascimento. Le campate sono quattro, con volte a padiglione e semicupole. Il capitello centrale e quelli laterali hanno una formula romanica: riutilizzano vestigia precedenti, e rappresentano dei leoni che si affrontano.
Le volte hanno tralci corinzi. Il cielo stellato ritorna, ma è bianco. Sopra è presente il sole, segnacolo di San Bernardino da Roma e dei Benedettini; i raggi arrivano in terra o verticali o serpentini. È un’edizione moderna della svastica della gorgone.
La parete Sud
Prima campata
La profilatura è indecisa: il pittore è un artigiano. Rappresenta San Sebastiano trafitto da due arcieri; l’iconografia è tardo-gotica. È presente un’iscrizione, che data l’affresco al 14 agosto 1484, in una scrittura gotica, simbolo di anacronismo. Il giardino potrebbe indicare l’Eden, perduto e mai riacquistato. L’albero rappresenta il lignum vitae su cui Cristo è stato crocifisso. San Sebastiano è un martire di fede. La silhouette è moderna grazie alle braccia. Il Santo è stato colpito da un nodulo di frecce, da tutte le parti e da nessuna parte: il tema è quello gotico dell’insistere su un corpo ferito e piagato. Il sangue raggrumato non è eccessivo, ma è colante (a differenza di altri affreschi analoghi in Piemonte). Gli arcieri hanno l’elsa della spada pronta e la faretra davanti; la freccia è dallo stesso lato della mano, come usavano tirare gli arcieri dell’antica Persia. Lo sfondo è antinaturalistico, da arazzo, con il tema della croce nella losanga. L’oro di grano intenso è l’emblema di un infinito e indefinito, di una ragione neoplatonica riveduta e corretta.
Al di sotto ci sono tre santi. San Pietro, emblema della Chiesa, è un’icona anacronistica. Presenta soluzioni simboliche stravaganti: il libro è tenuto alzato verso il cielo, simbolo di un processo di elevazione celeste; le chiavi non sono decussate, e sono impugnate dalla mano destra; la veste è di un triplice colore, oro, bianco e rosso (simbolo della passione). Sant’Antonio, a cui l’atrio è dedicato, è in veste di frate. Tiene una campanella, che è l’emblema di chi va cercando la carità. È anche un simbolo apotropaico contro la peste. È bianco ed anziano, simbolo del monachesimo orientale. San Francesco d’Assisi ha la croce a tre bracci, emblema del 13° apostolo. L’iconografia è fuorviante: il Santo è emaciato e grottesco, non serafico. Ha gli occhi febbrili, simbolo di cataratta. Porta le stigmate.
Seconda campata
La seconda campata riguarda Santa Caterina D’Alessandria. Le epigrafi che descrivono le scene sono state applicate in grafia gotica, quasi come in un fumetto.
Prima scena
La prima scena riguarda la Santa che disputa sulle Sacre Scritture e si difende dalle accuse del re affiancato dai suoi servitori. Ha uno scopo paideutico e propagandistico, ed è quindi elementare nella simbologia: la Santa ha un abito bianco, sul corpetto verde; il copricapo era tipico dei nobili di Alessandria, e la corona è faraonica (mostrando un interesse per le tombe egizie che si era sviluppato a Firenze, Venezia e Torino). Il dettaglio è moderno, e la corona del re è medievale, da carta da gioco; al centro presenta una pietra preziosa, simbolo della corona di re Artù.
Seconda scena
La seconda scena rappresenta il trasporto e la chiusa in carcere della Santa, giudicata empia. La luce del Sole la colpisce perché la verità è dalla sua parte; dei gendarmi fanno da schermo e da scorta, ma non è presente nessuna emotività: nel gotico il dato cognitivo è considerato più importante del dato emotivo. La torre del castello ha la merlatura laterale guelfa, mentre quella centrale è ghibellina; l’armatura è quattrocentesca, tipica dei soldati di ventura, ma anche degli imperiali.
Terza scena
La terza scena rappresenta il supplizio della ruota, ripreso nel ‘500 solo in Lombardia. Il re e i funzionari tentano di distruggere l’incontaminata verginità della Santa, denudata e posta nella ruota dentata. La ruota è spezzata dall’arrivo dell’angelo con la spada: l’angelo giunge dal peduccio, come se imperasse; c’è un’incapacità tecnica nella realizzazione della proporzione delle ali, nell’elementarità della spada e nell’errato senso dell’anatomia femminile. L’autore non è lo stesso che ha affrescato la lunetta.
Quarta scena
La quarta scena rappresenta la decapitazione della Santa. La testa è ai suoi piedi, ma non c’è un’ostentazione del macabro, tipica del Medioevo. Si nota la mancanza del tessuto nervoso e dei muscoli del collo: è rappresentata come un manichino. Traslato il corpo, l’anima viene portata su un lenzuolo bianco (lo stesso in cui erano avvolti i frati nelle riesumazioni) da due angeli, ad indicare la purezza della morte stessa, verso l’alto e verso il cielo, alla corte dei giusti (i sacerdoti e gli uomini di punta della Chiesa).
La parete Ovest
Prima campata
Nella lunetta sono presenti due castelli, divisi dalla bifora: il primo, sulla collina, è probabilmente il castello di Gagliano, della famiglia Malaspina; il secondo, su uno sperone roccioso, potrebbe essere il castello di Pozzol Groppo, della casata Morus. Il castello di sinistra è rappresentato con una veduta a volo d’uccello (come nella colonna traiana): ci si innalza per guardare all’interno delle mura – l’epicentro è araldico. L’affresco non è naturalistico: sullo sfondo il cielo è azzurro (eredità russa), mentre la prospettiva è rovesciata e cade sopra alla collina in primo piano, come se la pianura precipitasse sulla collina.
Nella parte inferiore sono raffigurati vari santi. San Bovo (o Bovio) ha come emblema i buoi. L’iconografia è rarissima: sono rappresentati a coppie scure senza giogo, simbolo di un allevamento. È un santo cavaliere, anacronistico perché la cavalleria era in decadenza (come riportato dall’autore fiammingo Huizinga nel saggio “L’autunno del Medioevo”). Sant’Alberto ha una tiara (copricapo persiano pentagonale, da satrapo) sulla testa. È un funzionario intermedio tra Dio e i presuli. Il pastorale è tutto ricamato, e presenta digressioni orafe. Il piviale è lunghissimo, il libro è inclinato e chiuso da legacci di cuoio con borchie. Lazzaro è una persona disprezzata, povera e mendicante. È piegato, con cani e levrieri che gli leccano le ferite. He un bastone come sostegno, e una tunica corta tipica degli uomini di fatica. Le pustole non sono da decubito ma da appestato. Il cavallo è completo di bardatura da uomini nobili, mentre i levrieri, dediti alla caccia, sono sproporzionati, sebbene le zampe testimonino il fatto che stanno correndo. L’interpretazione è tratta dai bestiari medievali. I tre santi sono collegati: il lavoro eseguito dai monaci è accettato da Sant’Alberto. La campata è chiusa da un semipilastro e da una lesena connessi.
Seconda campata
La seconda campata rappresenta San Giorgio e il drago, immagine raffigurata anche da Donatello e da Paolo Uccello. È il santo protettore dell’Inghilterra, ed è anche un santo tipicamente genovese: rappresenta e protegge la navigazione; infatti, è presente nel monumento dei marinai di Lisbona. Sono presenti statue raffiguranti il santo a Berlino e Stoccolma. San Giorgio è un martire ai tempi di Diocleziano, in Cappadocia. È figlio di un proconsole di dinastia romana. Compie un viaggio alla ricerca della verità, e quindi di Dio. È considerato il santo cavaliere di Dio, e immortala la fine delle crociate. La leggenda racconta che a Selim, sulla costa libica, ci fosse un drago dall’alito composto di fuoco e gas sulfurei, che chiedeva come ostaggi inizialmente delle pecore, e in seguito anche degli umani. Quando chiese in ostaggio la principessa, San Giorgio lo trafisse con la lancia e lo incatenò con una catena d’oro, chiedendo in cambio la conversione dell’intera città al Cristianesimo; la testa del drago ha un valore apotropaico. Il drago assume significati contrastanti tra Occidente e Oriente: in Cina, per i taoisti e i confuciani, indica la forza primigenia e di difesa (ai fiumi venivano infatti assegnati nomi di draghi); in Occidente indica il male, frutto del demonio. La principessa, elegantissima, tiene la catena d’oro. Il drago è ferito nell’alito e nella lingua. Gli alberelli indicano l’aperta campagna e il deserto. In fondo alla scena è presente il re che attende la principessa. È una sintesi hic et nunc della colonna traiana.
La parete Nord
Prima campata
La lunetta anticipa il problema (tipico del Nord e di Firenze, e presentato anche da Masaccio) dell’immagine di Dio, affrontato molto spesso nella pittura: nella Bibbia non si trova una descrizione di Dio. Qui è raffigurato con la mano destra alzata, mentre quella sinistra tiene il rotolo del giudizio universale. È anziano, e ha la barba bianca, in una rappresentazione convenzionale. Dietro sono presenti le anime rosse del Limbo, e le trombe dell’Apocalisse. Sono anche presenti due angeli, e la rappresentazione è quella del giudizio universale.
Al di sotto c’è un corteo di santi (Sant’Antonio, San Gerolamo e Santo Stefano) e l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, con un’iscrizione, mentre Cristo non è presente. San Gerolamo ha una berretta cardinalizia rossa e un laccetto alla mandibola. È l’autore della Vulgata, ossia della traduzione della Bibbia in latino. Ha come simbolo il leone, in posizione araldica, rampante e non realistica, e si trova in una grotta, accennata da uno sfondo azzurrino cangiante. Santo Stefano è il martire per eccellenza, e tiene nella mano il libro del Vangelo chiuso; ha la testa bruciata perché è stato arso vivo. L’imperatore Sigismondo di Lussemburgo ha una sfera e la corona. Tiene l’emblema di Costantino, ossia il mondo sormontato da una croce. Sul bordo della sua pelliccia è raffigurato un ermellino, tipico della nobiltà russa. San Giovanni Battista ha delle vesti di pellame, delle calzature di pelle di capretto aperte e la barba incolta.
Seconda campata (portale)
Nella lunetta è presente un tema fondamentale nella cultura veneziana del Quattrocento, trattato anche da Antonello da Messina e Giovanni Bellini: il tema naturalistico di Gesù morto e piagato con le stigmate. È una venerazione dell’estremo sacrificio e delle torture subite fisicamente da Cristo, che è morto e con le braccia intrecciate.
La parete Est
Il tema (spesso affrontato nella storia dell’arte) è quello dell’incoronazione della Madonna. È un affresco molto goticheggiante, in quanto non volumetrico ma sfuggente. Due cherubini porgono alla Madonna la corona di Regina Angelorum e Regina Coeli: è Mater misericordiae.
Al di sotto alberga tutto il popolo cristiano, gli uomini alla sinistra di Maria, le donne alla destra: è il tema della consolatio afflictorum. Cristo alza la mano e benedice il popolo; è vestito di verde, a simboleggiare la speranza della risurrezione. La veste della Madonna è bianca, a simboleggiare la verginità, rossa trapuntata di stelle (a rappresentare la commorienza con Cristo), e oro (perché Cristo e Dio la assumeranno in cielo ad Efeso e a Gerusalemme).
Al di sotto sono presenti delle sante femminili, che sono Santa Agata, Santa Lucia, Sant’Apollonia e forse Santa Caterina.
Matteo Zeccoli Marazzini