Intervento di Cesare Fertonani

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Preside (Prof. D. Guglielmo)

Dirigente Scolastico

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Giovanni Berchet e il panorama musicale nella prima metà dell’Ottocento

  1. Il panorama della musica in Europa e in Italia nella prima metà dell’Ottocento

La geografia musicale nell’Europa del primo Ottocento registra alcuni significativi mutamenti rispetto al passato recente. Sino a tutto il Settecento, esistevano in Europa tre grandi tradizioni musicali: quella italiana, quella francese e quella tedesca. Ora, nell’Ottocento queste tre grandi tradizioni persistono, ma con alcuni cambiamenti di prospettiva: anche se l’opera italiana continua a essere un prodotto spettacolare di rilievo internazionale (un prodotto d’esportazione si direbbe), l’Italia perde d’importanza nel contesto della geografia musicale europea, in cui assumono un rilievo sempre più profilato le grandi capitali (Parigi, Londra, Vienna, Berlino) o comunque le città sedi di importanti teatri, istituzioni concertistiche, editori (si pensi per esempio a Lipsia, Dresda, Monaco).

Dal punto di vista della storia delle idee e del gusto, dagli anni Venti dell’Ottocento inizia, nei paesi di lingua tedesca e quindi anche in Francia, l’epoca del romanticismo musicale (dunque con lieve sfasamento e ritardo rispetto a quanto era già accaduto nella letteratura e nelle altre arti). A questo giro d’anni risalgono infatti l’opera Der Freischütz [Il franco cacciatore] (Berlino, 1821) di Carl Maria von Weber (1786-1826), che può essere considerata tanto per il soggetto fiabesco quanto per lo stile musicale, la prima opera teatrale del romanticismo tedesco, e le composizioni più mature e significative di Franz Schubert (1797-1828), straordinario autore di Lieder [ASCOLTO SU YOU TUBE E VEDI APPENDICE: guida all’ascolto del Lied Erlkönig su testo di Goethe] e di musica strumentale. Un’altra composizione decisiva per il romanticismo musicale è la Symphonie fantastique (1830) di Hector Berlioz (1803-1869) [ASCOLTO SU YOU TUBE E VEDI APPENDICE: guida all’ascolto della Symphonie fantastique].

Per convenzione storiografica si indica come data simbolica della fine della grande stagione del cosiddetto classicismo la morte di Beethoven (1827), il compositore che, portando lo stile classico già elaborato nella seconda metà del Settecento da Haydn e da Mozart a livelli di tensione senza ritorno aprirà le porte alle istanze estetiche e stilistiche delle generazioni romantiche.

Il romanticismo musicale presuppone un epocale rivolgimento del paradigma estetico della musica, che passa dall’ultima posizione occupata nella gerarchia delle arti ancora per tutto in Settecento a causa del dominio di un pensiero di stampo classicista e razionalista alla posizione di testa, proprio per la sua natura autoreferenziale e aconcettuale, che da grave limite diventa, per effetto di una sorta di rivoluzione copernicana, un pregio. A differenza delle altre arti (poesia, pittura, scultura), la musica non si esprime con i concetti e le immagini ma con astratte forme sonore in movimento e proprio per questo, come sostengono scrittori e letterati quali Wilhelm Heinrich Wackenroder, E.T.A. Hoffmann e Ludwig Tieck, consente di intuire l’assoluto proprio perché non avendo rapporti con la «prosa della vita quotidiana» (Hegel) si muove su un livello più elevato, metafisico.

Lo spirito romantico della musica si coglie anche nel senso del rapporto, non soltanto etimologico ma di sostanziale convergenza, tra «romantico»romantisch») e «romanzesco»romanhaft»), cioè tra cioè tra «romanticismo» e «romanzo» che si legge in Goethe e Friedrich Schlegel (questi in particolare afferma nel Brief über den Roman del 1799 che il romanzo «è un libro romantico», svincolato dalle regole classicistiche e che «dà forma fantastica a un contenuto sentimentale»). Sulla base di un’analogia è possibile allora interpretare come romanzeschi gesti e comportamenti compositivi che, nella musica romantica, infrangono un canone di classicistica e organica bellezza improntato agli ideali di equilibrio e simmetria e che spesso sottolineano l’importanza dell’attimo, del singolo avvenimento sonoro rispetto alla logica discorsiva, tipica dell’elaborazione motivico-tematica dl classicismo, in cui esso appare conseguenza di ciò che lo precede e premessa di ciò che lo segue: per esempio interruzioni, sospensioni, frammentazioni e tensioni irrisolte; repentini cambiamenti di registro e di configurazione della struttura; elementi di perturbazione e di instabilità di vario genere (melodica, armonica, ritmica); impiego umoristico o ironico di stili e tecniche del passato o comunque percepiti come altri rispetto al contesto; conformazione dell’inizio e della fine del pezzo priva di carattere rispettivamente di esordio e di conclusione, così da suggerire un prima e un dopo entro i quali la musica viene a collocarsi.

In Italia la polemica estetica tra classici e romantici tocca piuttosto marginalmente la musica. Questo anche perché il romanticismo in musica penetra in Italia con lentezza e comunque in modo piuttosto attenuato, senza cioè quei tratti più accentuati e tipici (alienazione dal mondo, ansia di assoluto, estraneità tra artista e pubblico eccetera), che lo contraddistinguono a nord delle Alpi. In Italia il romanticismo musicale assume più che altro i tratti di un gusto, meno ideologizzato rispetto alla Germania e alla Francia, che di fatto non pone in dubbio i fondamenti di una tradizione saldamente incentrata intorno al teatro d’opera e alle sue convenzioni formali e drammaturgiche, certo via via sviluppate e arricchite dal punto di vista tanto strutturale quanto espressivo. Un segno evidente del mutamento di gusto nel teatro d’opera italiano della prima metà dell’Ottocento è l’irreversibile declino dell’opera comica rispetto all’opera seria con epilogo tragico (il «funesto fine», per usare una formula antitetica al «lieto fine»).

Il teatro musicale di Gioachino Rossini (1792-1868), che domina la scene italiane – e poi anche europee – negli anni Dieci e Venti dell’Ottocento, è di impronta neoclassica e sostanzialmente estraneo alla cultura romantica, anche se con la sua ultima opera teatrale, Guillaume Tell (Parigi, 1829), il compositore assimila alcune istanze di tale cultura, come l’ambientazione tra le montagne della Svizzera, la rivendicazione della propria autodeterminazione da parte di un popolo oppresso da dominatori stranieri, l’impiego di materiali musicali che fanno riferimento alla couleur locale. Toccherà piuttosto ai suoi successori, Gaetano Donizetti (1797-1848), Vincenzo Bellini (1801-1835) e poi più tardi Giuseppe Verdi (1813-1901), rideclinare alcune situazioni tipiche dell’opera italiana alla luce di un gusto romantico organizzando grandi forme musicali in cui sono integrati episodi di diversa natura. Si possono citare un paio di esempi celebri in proposito, che mettono in luce questi mutamenti di gusto, collocati giusto alla conclusione dell’opera.

  1. La scena e aria finale di Amina Ah! Non credea mirarti (atto II, n. 12), da La sonnambula (Milano, 1831) di Bellini, opera semiseria e dunque suggellata dal lieto fine: qui la protagonista, che soffre di sonnambulismo, canta il suo amore infelice per Elvino ascoltata da tutti, rivelando così la sua innocenza; quando si risveglierà potrà finalmente riabbracciare l’amato che la credeva infedele. [ASCOLTO SU YOU TUBE]

  2. La scena della pazzia di Lucia Il dolce suono (Parte II, atto II, n. 15 ) da Lucia di Lammermoor (Napoli, 1835) di Donizetti. Qui la protagonista è impazzita: dopo aver ucciso Arturo durante la prima notte di nozze, compare tra gli invitati della festa con un pugnale tra le mani e gli abiti insanguinati. Ella crede di vedere l’amato Edgardo (già morto) e lo invoca, poi crede che l’amato la ripudi e getti a terra l’anello che si erano scambiati. Il fratello di lei, Enrico, vorrebbe ucciderla, ma Lucia non regge al dolore e muore nello sconcerto generale. Da notare che Donizetti aveva concepito, per rendere l’immagine musicale della pazzia della protagonista, una parte concertante per Glassharmonika (poi spesso sostituita da un flauto). [ASCOLTO SU YOU TUBE]

  1. Giovanni Berchet e la musica

A quanto pare il rapporto di Giovanni Berchet con la musica non fu particolarmente intenso, come ci dice lo stesso scrittore nella Lettera sul dramma Demetrio e Polibio cantato nel Teatro Carcano (1813). In questo scritto Berchet prende comunque posizione, dalla parte dei «melodisti» o italianisti (cioè fedeli continuatori della tradizione operistica italiana) contro gli «armonisti» o tedeschizzanti, entrando dunque nel dibattito che riguarda il giovane Gioachino Rossini (Demetrio e Polibio è infatti la prima opera teatrale del compositore pesarese).

Qui di seguito ne riportiamo l’intero testo.

 

 

Giovanni Berchet, Lettera sul dramma Demetrio e Polibio cantato nel Teatro Carcano

Di Milano, il dí 27 luglio 1813.

Non ho fatto risposta prima d’ora alla tua dimanda intorno al merito dell’opera seria Demetrio e Polibio, perché il giudicio mio in fatto di musica, non potendo io derivarlo, come sai, da conoscenza alcuna dell’arte, sarebbe forse parso intempestivo anche a me medesimo, se per indurmi a proferirlo avessi stimato sufficiente il suffragio delle prime sensazioni del cuor mio. E però, non contentandomi io di quello, mi parve di dover aspettare che il voto del cuore, per la ripetizione continuata ed uniforme delle stesse sensazioni, pervenisse ad ottenere anche la fredda approvazione della mente.
Se primo adunque e forse unico istituto della musica gli è quello d’impadronirsi rapidamente dei cuori umani e di dirigerne e travolgerne ad arbitrio assoluto di lei gli affetti; se il terrore, se la pietà, se l’amore, se la téma e la gioia si sollevano a vicenda dentro di me e mi agitano fortemente, appunto quando il maestro intese di volere suscitare in me queste passioni; se manifestissimi segni mi convincono che la medesima commozione che io provo è sempre e con gli stessi mezzi destata né piú né meno viva nell’universalitá degli spettatori, a segno di togliermi affatto ogni dubbio che ella possa prodursi in me solamente, o per ignota e bizzarra disposizione di fibre, per una debolezza non comune di anima, o per certe troppo squisite attitudini a sentire, alle quali m’abbia disposto forse malamente una peculiare educazione; e se infine dal maggiore o minore conseguimento d’affetti è lecito far paragone fra una musica e l’altra, e il misurarne cosí la bontá positiva di ciascheduna non è logica strana; io sprezzerò con ardimento deliberato qualsivoglia anatema dei pedanti dell’arte musica, e quantunque non iniziato ne’ loro misteri, non grave il capo di crome e biscrome, giurerò solennemente a te, e teco, se ti aggrada, anche al pubblico intero, che il signor Rossini quando dettava quest’opera era quasi certamente ispirato da un genio buono.
Modellando il signor Rossini l’arte sua al vero gusto italiano, si sgabellò delle astruse metafisiche di molti degli oltramontani; e lasciando che a loro tenga luogo d’ogni altro senso l’orecchio, vide che in Italia v’erano anche de’ bisogni nel cuore, e questi studiò di appagare; vide che se la sola armonia bastava all’udito, ella non bastava però a conseguire quel fine a cui egli mirava, ed a lei saviamente accoppiò la cantilena; vide che la persuasione è operata dalla continuità del pensiero e, certo egli di possedere profondamente la scienza musica, non si curò di farne uso vano e puerile, ma maneggiandola da padrone allungò i suoi pensieri in modo da schivare le tante e ricercate spezzature, delle quali pare che vadano innamorati i moderni eruditi dell’arte; vide che il suono degli strumenti, quando sia unito al canto, non può ragionevolmente affettare il primato, ma sì bene deve a quello sottostare pazientemente, e non si diede perciò a seppellire la dolcezza delle voci umane nella tempesta dei timpani e nello stridore delle corde e dei chiarini; vide egli insomma tutto quello di cui si erano accorti prima di lui e Pergolesi e Iomelli e Cimarosa e Paesiello e, rispettandone l’ombre senza seguirle servilmente, si aprí una via alla gloria. E se vago, com’egli è, dell’aver semplicità, pur non ebbe il coraggio di inimicarsi del tutto i cacciatori dei ghirigori musicali, bisogna almeno confessare che nel placar di frastagli e ricami quella divinità egli fu scarso assai ne’ suoi sagrifici. Fortunato giovinetto, e fortunati noi pure, se le meritate lodi, delle quali lo onorano i suoi paesani, varranno a mantenerlo ostinato nel suo proposito e ad irritare sempre piú nell’animo di lui quella sete di fama che io vorrei necessariamente insaziabile ed eterna nei grandi ingegni, ma che però con danno universale si spegne talvolta per colpa della facile contentabilità giovanile.
Ora immáginati, amico mio, una musica quale noi la invocammo tante volte, allorché uscivamo di teatro inveleniti contro la crescente barbarie dei tempi nostri e stanchi di bestemmiarla. Que’ precetti, che allora venivano dettati da noi, non erano per comune nostra fortuna uditi da altra anima vivente che ne potesse redarguire la troppa presunzione; e come ignote a noi sono le regole dell’arte musica, e cosí rimanevano ignoti agli altri i delíri nostri intorno a lei. Ma io intanto scommetto che il signor Rossini pensò forse piú ordinatamente, ma non diversamente certo di quello che noi facessimo. E però ti so dire che i desidèri nostri sono oggimai per grazia di lui avverati pienamente.
Immáginati, dico, una tale musica, cantata con maestria inestricabile da due care voci femminili le piú simpatiche che tu possa desiderare, da un baritono destro nel mestiere suo quanto basti per poter secondare ottimamente ogni più ardito professore e mantenere armoniosissimo ed esatto qualsivoglia concento a cui egli si frammetta, e da un tenore poi il quale ha tutte in pronto le più recondite dottrine dell’arte e le vie tutte della seduzione e che, ad una rara e somma energia d’animo e ad una robustezza non comune di petto congiungendo un delicatissimo sentimento del bello, sa con fina disinvoltura riparare le onte che gli anni devono per natural legge aver recate alla sua voce. Le quali onte però se non isfuggono, come che lievi, all’udito del conoscitore, non offendono per nulla l’animo di lui. E tanto è il predominio del buon gusto sul brio ineducato de’ soliti cantori nostri, che ogni spettatore d’indole appena appena non triviale non si lascerebbe indurre così di leggieri a rinunziare, per le lusinghe della fresca voce d’un giovinotto, alle diverse lusinghe colle quali quest’uomo ne riduce alla memoria il bel metodo antico dei recitativi, e ne mostra com’egli intenda e senta sempre ciò ch’egli dice, e n’insegna l’utilità del sillabare con esattezza le parole, e ne dispiega una acuta cognizione de’ recessi più riposti del cuore umano e lo zelo costante con cui egli si propose di parlare a lui e d’intenerirlo, anziché farsi a correr dietro alla smania volgare di rendersi ammirato per dovizia di arzigogoli e trilli. Vieni ad udirlo, amico mio, e non appena avrai cominciato a gemere di non averlo potuto ascoltare nella sua gioventù, che già vinto dal piacere presente dimenticherai affatto le ipotesi, ed una forza segreta ti scambierà sul labbro la prima esclamazione: “Quale sará stato egli mai!”, nell’altra più sentita: “Quale egli è mai costui!”
Non contento però il signor Mombelli di allettarne già tanto colle sue belle maniere musicali, volle valersi anche d’un altro mezzo astutissimo onde trarre a sé la nostra riconoscenza, e seppe rifarci perfino del poco decadimento della sua voce. Avvedutosi egli di quanto la natura era stata in ciò liberale colle due sue figliuole, educò con vero amore paterno e con sì appassionato studio le floride voci di quelle gentili giovinette, che lo spirito del padre, versandosi tutto, per così dire, nelle anime novelle delle fanciulle, tornò a giovinezza e si adornò di ben altri vezzi e di ben altre ed infinite soavità. Davvero mi bisognerebbe tutta l’abilità dell’Albano per poter trovar modo onde darti ad intendere di quante ridenti idee m’abbiano inondata la memoria, di che dolcezza m’abbiano inebriato il cuore queste due vergini grazie. Ti ricordi, carissimo amico, quell’ultima lettera ch’io ti scriveva due mesi fa? Quella lettera riboccava di fantasie tutte negre, come l’anima mia era allora, piena zeppa di amarezze e travagliata dalla noia della vita, terribilissima delle umane sciagure. Oh se mi vedessi ora! Se vedessi come m’abbia guarito lo spirito questa magica operetta! Fa’ conto che in vita mia non mi sovviene d’aver mai tanto benedetta l’esistenza come a questi dí. Mi sono riconciliato con me medesimo e cogli uomini; ed ora l’universo mi sorride innanzi seminato tutto di rose. Ed ogni oggetto che mi si affaccia io lo credo partecipe della mia gioia; ed ogni suono mi par l’eco che ripeta colla divina cantilena:

Questo cor ti giura amore,

mia speranza, mio tesoro.

E come l’anima si commove tutta, io me la sento dalle sedi segrete rispondere:

Questo cor ti giura amore,

mia speranza, mio tesoro.

Mille volte ho desiderata la tua compagnia. Mille volte ho desiderato di dividere con te questo diletto di paradiso. Che importerebbe a noi del sogghigno di quelle mute fisonomie calcolatrici, su cui isbalza mai una scintilla dell’anima?

Invidieremo forse noi a costoro il letargo che gli assidera, noi che più che per la mente viviamo pel cuore? Che se voi, o freddi filosofi, mi togliete queste care illusioni, questa violenza di emozioni, io offro alla vostra scure anche il collo mio, e vi cedo tosto e di buon grado la vita, per la pace del sepolcro: ma s’ella precede la morte, io l’abborro. Ma tu forse sospetterai che a tanto incantesimo contribuisca non poco l’aspetto della bellezza e delle tante attrattive della gioventù. Maligno animo! Io ti confesso candidamente che le due ragazze Mombelli ebbero entrambe propizia assai la venustà, e che la minore di esse, per quanto appare dalle scene, unendo ad un volto animatissimo e ad un par d’occhi leggiadri un sorriso tutto serenità ed una certa ingenua lindura di modi, non riescirebbe vano soggetto di studio a quel pittore che colla contemplazione di vari modelli naturali volesse arricchirsi la mente d’immagini delicate ed arrischiarsi di ridurre a umane forme l’idea astratta dell’amabilità. Tu però, in compenso della sincerità mia, accetta per sacrosanto il giuramento che ti fo d’avere io scrupolosamente poste ad analisi le mie sensazioni, d’averne investigato l’origine, e d’aver trovato che questo piacevole entusiasmo che mi rapisce è generato dalla dolcezza tutta nuova della voce di lei che tiene assai del contralto e che, senza svagarsi, piomba diritto sui cuori altrui e se ne impadronisce; poi dal metodo semplice, ma affettuoso, ma pieno di verità, con cui ella canta. I dotti nell’arte ravvisano forse più vasta conoscenza di musica e più agilità di voce nella maggiore delle fanciulle. E le belle milanesi, che si piegano al parere dei dotti per mantenersi anch’esse riputazione di dottrina e che, placidamente leziose, infastidiscono il cantar piano, a lei dánno la palma. Ma il più degli uomini, che non sono né belli né dotti, ammirano e lodano la signora Ester, e si lasciano vincere dal canto della signora Annetta. Se poi la musica sia fatta per dilettare i dotti soltanto o sí bene tutta l’umana razza, s’ella debba giudicarsi dagli effetti generali o da’ particolari, io non so, né vorrei dirlo ora se lo sapessi. Bensì mi è caro il vedermi confortato nell’opinione mia dall’applauso con cui è festeggiata sempre la signora Annetta dalle persone tutte che, venerando la ragione dell’intelletto, cedono pure alla prepotenza della ragione del cuore.
Non per questo vorrei però io scompagnate mai le due angeliche cantatrici; ché anzi, giovandosi elle a vicenda mirabilmente, l’una all’altra a vicenda porge tratto tratto occasione onde far in più lucida guisa spiccare la propria maestria. Ed unite poi, perfettissimo accordo, ne risulta quella armoniosa voluttà che si spande sugli animi degli uditori, e a poco a poco li induce all’oblio intero delle cure moleste ed al sentimento carissimo della loro origine celeste. Dio vi benedica entrambe, o creature gentili; e mandi sul capo vostro mille felicità, e vi conservi, colla domestica virtù e colla bella onestà dei costumi vostri, il diritto di meritarvele sempre maggiori. Dio vi benedica entrambe; e le sorti sieno feconde di prosperità verso dei parenti vostri, quantunque a loro sia già invidiatissima delizia la compiacenza di avervi allevato tanto bene. E tu, amico mio, sbrigati di far presto quello che devi fare costí; e corri per carità a Milano prima che si chiudano nuovamente le porte del teatro Carcano. Io non ti dico che tu ci avrai di che pascerti gli occhi nello splendore delle decorazioni e nello sfarzo delle vesti; perché la verità è che ve n’ha proprio una penuria men che decente, né tu sei ragazzotto da gongolare di sí fatte baie. Non ti dico che tu ci vedrai la recita di belli versi, sebbene il libretto non debba invero temere di venire al paragone con tanti del moderno teatro nostro. Ma se per lo stile esso tiene dietro rigorosamente ai vestigi di alcuni dolcissimi pseudo Metastasi della Scala, s’è posto però un tantino al disopra delle Signorie Loro, per certa chiarezza e semplicità d’argomento, per certa ragionevolezza di condotta e per l’introduzione non infelice dei così detti “colpi di scena” e delle “situazioni teatrali”. Aggiungasi che chi lo scrisse merita poi facilmente da te, che sei buon femminiero per la vita, un qualche compatimento. Oh guarda il furfantaccio come egli straluna gli occhi per la curiosità di saperne l’autore! Indovinalo tu: e se non te ne basta l’animo, strabilia e trasusa quanto piú vuoi; ma sappi che l’ha composto la signora Vincenza Mombelli, la madre istessa delle due fanciulle. E se i servi cortigiani di Nerone sagramentavano essere nobilissimi i versi di quel tiranno, tu, che ti vanti cortigiano e servo d’un’altra tirannia meno austera, smetti, per Dio, gli occhiali e non mi far tanto lo schizzinoso su questo libretto.
In compenso però di alcune poche mancanze, tu troverai dei piaceri più veri e più durevoli. E proverai siccome ella sia proprio una consolazione il vedere che i concittadini nostri ritengono pur tuttavia una gran dose di buon senso, e che eglino accorrono sempre in folla al teatro Carcano, quasi bramosi di espiare con ciò i lunghi traviamenti, pei quali diedero non ha guari tanta materia di scandalo in altro teatro. E sta’ certo poi che il canto della signora Annetta ti sanerà appieno quella piaguzza da cui devi sentirti lacerare il cuore nel separarti per alcun tempo da codesta tua innamorata. Poveretta! salutala per nome mio, ma non le dire che, se tu vieni a Milano, io tremo davvero per certo presagio a lei poco felice. Sta’ sano intanto ed amami.

Il tuo N. N

 

D’altro canto, appare tutto sommato modesto l’impatto della poesia di Berchet sui compositori italiani. Da una prima ricognizione, condotta sul portale www.sbn.it prendendo in considerazione innanzi tutto le edizioni a stampa, la poesia di Berchet sembra aver interessato soltanto compositori minori. Il testo intonato più volte nel genere della lirica o romanza da camera è senza dubbio Il trovatore («Va per la selva bruna»), mentre una qualche fortuna incontrano anche poesie patriottiche come il Canto di guerra «Su, figli d’Italia! Su, in armi, coraggio!». Da questi elementi potrebbe svilupparsi una più ampia ricerca sulla recezione della poesia di Berchet tra i compositori italiani dell’Ottocento.

Composizioni musicali da camera su testi di Giovanni Berchet

Decio Monti, Il trovatore, romanza per voce e pianoforte, Roma, Società Tiberina, 1843

Ludovico Bertelli, Il trovatore, romanza per voce e pianoforte, Milano, Francesco Lucca [1846]

Ferdinand Sieber, Canto di guerra op. 4, per coro maschile e pianoforte, Milano, Giovanni Ricordi, 1847 [1848]

Ferdinand Schaller, Canto di guerra, per coro maschile e pianoforte, Milano, Giovanni Ricordi, 1848

Luigi Felice Rossi, Matilde ossia Il sogno di una donzella italiana, romanza per soprano e pianoforte, Milano, Francesco Lucca, [1848]

Josè Winter Calveri, Il trovatore, romanza per voce e pianoforte, Milano, Francesco Lucca [1864]

Vincenzo Maria Graziani, Il trovator, romanza per voce e pianoforte, Roma, Società Tiberina, [?]

Giulio Alari [Jules-Eugène-Abraham Alary], Il trovatore, romanza per voce e pianoforte Paris, Maurice Schlesinger, [?]

Giuseppe Marcarini, La lega lombarda, canzone per coro maschile e pianoforte, Milano, Francesco Lucca, 1887

Giuseppe Marcarini, I profughi di Parga, canzone per coro maschile e pianoforte, Milano, Francesco Lucca, 1887

Giuseppe Marcarini, L’esule, canzone per coro maschile e pianoforte, Milano, Francesco Lucca, 1887

Ignazio Galli, Il trovatore, romanza a 4 voci, manoscritto (Roma, Biblioteca Accademia Nazionale di Santa Cecilia)

Giuseppe Albanesi, Il trovatore va per la selva bruna, romanza per voce e pianoforte, manoscritto (Milano, Biblioteca del Conservatorio Giuseppe Verdi).

APPENDICE

Franz Schubert, Erlkönig D 328 (1815) – testo di Johann Wolfgang von Goethe

Testo: ballata, scena introduttiva del Singspiel Die Fischerin (1782) (Lieder).

Origine, una ballata danese tradotta da Herder. Goethe introduce il tema del bambino presago e del padre insensibile alla presenza di una forza demoniaca e misteriosa: tragico irretimento dell’uomo da parte di una natura animata ed aggressiva.

Otto strofe. Strofe 1 e 8, narratore; strofe 2-7, dialogo padre-figlio e interventi del Re degli Elfi; la narrazione in terza persona, per così dire epica, incornicia la vicenda drammatica in cui i personaggi parlano in prima persona. Dunque, struttura narrativa e dialogica.

Schubert compone quattro versioni del Lied, che si avvicina alla cantata o alla scena operistica. Alle otto strofe del testo corrispondono otto strofe o parti musicali. Tono del Lied: ribattuto di terzine che percorre, con alcune varianti, l’intera composizione (cfr. Gretchen am Spinnrade). Al centro dell’interpretazione musicale di Schubert si pone il rapporto tra realtà e mondo onirico e sovrannaturale (sol minore, tonalità che spesso in Schubert connota la lotta contro una dimensione sovrannaturale), dimensioni in linea di principio definite da una differente connotazione musicale e stilistica:

  • realtà: incessante terzine ribattute – parti del Narratore e del Padre, arioso o recitativo;

  • visione: varianti delle terzine e alleggerimento dell’incessante pulsazione ritmica – parte del Re degli Elfi, Lied.

La parte del Figlio rappresenta la mediazione tra le due dimensioni, collocandosi tra realtà e visione: arioso.

  1. Narratore: arioso, chiaramente delimitato. Sol minore.

  2. Dialogo Padre-Figlio. Padre: recitativo, registro vocale grave. Figlio: arioso e anticipazione, specie nel profilo ritmico, della successiva frase del Re degli Elfi (strofa 3). Sol minore SI bemolle maggiore.

  3. Re degli Elfi: Lied, melodia cantabile, dalle terzine a un accompagnamento più leggero. Seduzione della morte e richiamo del sovrannaturale, la realtà appare come nascosta dietro a un velo. SI bemolle maggiore.

  4. Dialogo Figlio-Padre. Figlio: dal grido di terrore (dissonanza di seconda minore) al soccombere all’allettamento della morte (graduale indebolimento della dinamica). Padre: recitativo. Do maggiore.

  5. Re degli Elfi: Lied, melodia cantabile e accompagnamento in arpeggi. Do maggiore.

  6. Dialogo Figlio-Padre. Come nella strofa 4. Do maggiore re minore.

  7. Strofa cruciale. Re degli Elfi e ultima invocazione d’aiuto del Figlio. Re degli Elfi: arioso e cambio di registro che proietta l’elemento fantastico sullo sfondo della realtà (pulsazione incessante di terzine). Arioso suadente e insieme minaccioso; il senso di inganno è dato dalla modulazione cromatica, brusca e immediata, da re minore a MI bemolle maggiore. Figlio: ultima invocazione d’aiuto e urlo di terrore. Scompare l’allettamento, la seduzione della morte e resta il puro terrore nel grido disperato del Figlio (sforzati ripetuti per sottolineare la catastrofe). Realtà e sogno si fondono, ciò che sembrava impossibile che accadesse è realmente accaduto. MI bemolle maggiore sol minore.

  8. Ripresa del preludio, le terzine in fortissimo sovrastano la voce del Figlio. Narratore: arioso. Il Narratore è, come l’ascoltatore, uno spettatore che commenta e compiange la tragedia avvenuta; per raccontare l’epilogo gli viene quasi meno la parola (passaggio dall’arioso al recitativo). Le terzine scompaiono: le scena è finita, il narratore si sottrae all’orrore come uno spettatore agghiacciato. Sol maggiore.

Hector Berlioz, Symphonie fantastique op. 14

Capolavoro della giovinezza e del soggettivismo romantico di Hector Berlioz, la Symphonie fantastique op. 14 è giustamente ritenuta il prototipo della musica a programma dell’Ottocento. Composta nel 1830, la partitura è ispirata da molteplici suggestioni letterarie (Chateaubriand, Hugo, Shakespeare, Goethe, Quincey) e musicali (le sinfonie di Beethoven), ma si fonda su un programma autobiografico, determinato dalla passione al calor bianco dell’autore per l’attrice irlandese Harriet Smithson, che sarebbe diventata sua moglie nel 1833. L’idea di Berlioz consiste nel comporre un «dramma strumentale», intitolato Episode de la vie d’un artiste e il cui contenuto è appunto esposto in un programma dettagliato. Il programma, che esiste in più versioni, costituisce la sceneggiatura della sinfonia e «dev’essere dunque considerato come il testo parlato di un’opera, che serve a introdurre i pezzi di musica dei quali motiva il carattere e l’espressione». La sinfonia è in cinque parti. Un giovane musicista è ossessionato dalla donna amata che assume forma musicale in una melodia ricorrente (idée fixe). Nella prima parte, Rêveries, passions, egli passa dalla malinconica disposizione al sogno, interrotta da accessi di gioia senza motivo, alle diverse e contrastanti manifestazioni dell’amore (passione delirante, angosce, furore, gelosia, tenerezza, consolazione religiosa). Nella seconda parte, Un bal, il giovane ritrova l’immagine della donna amata «nel tumulto di una festa»; nella terza, Scène aux champs, il protagonista sembra trovar pace nella quiete della campagna ma è assalito da foschi presentimenti e dal pensiero di essere tradito. Nella quarta parte, Marche au supplice, il musicista, che per la disperazione ha tentato di uccidersi con l’oppio senza riuscirvi, «sogna di aver assassinato l’amata, di esser condannato a morte, condotto al patibolo e di assistere alla sua stessa esecuzione». Nella quinta parte, Songe d’une nuit du sabbat, egli si vede «al sabba, nel mezzo di una spaventosa schiera di ombre, stregoni e mostri di ogni specie riuniti per le sue esequie» quando ricompare la donna amata che «si mescola all’orgia diabolica».
Presentata con grande successo il 5 dicembre 1830 al Conservatorio di Parigi sotto la direzione di François-Antoine Habeneck, la Symphonie fantastique ebbe un seguito immediato. Nel frattempo Berlioz, che, conseguito il Prix de Rome, si accingeva a partire per l’Italia, aveva momentaneamente raffreddato i suoi ardori per l’inaccessibile Harriet Smithson fidanzandosi con la pianista Camille Moke. Nel 1831, mentre si trova in Italia, Berlioz apprende che la fidanzata lo ha lasciato per sposare il fabbricante di pianoforti Camille Pleyel. Alla notizia il compositore riparte subito per la Francia con progetti omicidi e suicidi, ma a Nizza rinuncia ai suoi rovinosi propositi: nasce allora l’idea del «monodrame lyrique» Le retour à la vie (1831-32), poi intitolato Lélio ou Le retour à la vie op. 14b (1855), che completa l’Episode de la vie d’un artiste: il redivivo protagonista ripercorre la sua storia sino a ritrovare il senso della propria esistenza nella creazione artistica.

In un primo tempo Berlioz pensava che la distribuzione del programma al pubblico prima di ogni esecuzione della sinfonia fosse «indispensabile alla completa comprensione del piano drammatico dell’opera» (edizione 1845). In un secondo momento (1855), quando decise che l’intera vicenda drammatica e non soltanto il suo epilogo fosse un sogno provocato dall’oppio, Berlioz pensò che il programma dovesse necessariamente essere distribuito soltanto nel caso di un’esecuzione della sinfonia «in forma drammatica», come prima parte dell’Episode de la vie d’un artiste completato da Lélio (caso in cui «l’orchestra, invisibile, è disposta sul palco d’un teatro dietro al sipario abbassato»). Se, viceversa, scrive Berlioz «si esegue la sinfonia da sola in concerto […] a rigore si può anche evitare di distribuire il programma, conservando soltanto i titoli dei cinque movimenti; l’autore spera che la sinfonia possa offrire in sé un interesse musicale indipendente da ogni intenzione drammatica» (edizione 1858 circa). Questa correzione di prospettiva è probabilmente dovuta al timore che il programma potesse essere inteso in senso riduttivo (lo stesso Schumann nel suo saggio del 1835 ne aveva d’altronde criticato la natura minuziosamente dettagliata).

Nonostante il programma, la Symphonie fantastique resta ben al di qua del nuovo genere che Liszt definirà a partire dalla metà del secolo, ovvero il poema sinfonico in un solo tempo, delineandosi come una sinfonia in cinque movimenti (Introduzione e Allegro, Valzer, Adagio, Marcia, Finale), il cui modello formale si può cogliere nella Sinfonia pastorale di Beethoven e che è tuttavia unificata dal ritorno ciclico di un tema ricorrente. Del resto Berlioz era interessato a mantenere un’articolazione per così dire teatrale (i movimenti, chiamati «parti», valgono come atti o quadri), fondata sulla logica romantica del contrasto e del montaggio di materiali eterogenei.

Nella struttura complessiva la sinfonia, che riutilizza temi musicali della precedente produzione di Berlioz, si fonda sul principio della trasformazione tematica dell’idée fixe, la cui funzione è desunta dai temi operistici di reminiscenza. Nel corso del primo movimento (LargoAllegro agitato e appassionato assai), riconducibile a una forma di sonata in cui il secondo tema è derivato direttamente dal primo, l’idée fixe, già adombrata nel corso dell’introduzione, è oggetto di un’ampia quanto sottile elaborazione sinfonica. Nei movimenti successivi la melodia che incarna l’amata è impiegata come citazione, sottoposta alle trasformazioni del contesto drammatico. Si riaffaccia dunque nella parte centrale e poco prima della coda dell’elegante valzer in forma ternaria (Valse. Allegro non troppo), contribuisce all’elaborazione del movimento lento (Adagio) in forma lirica, riappare «come un ultimo pensiero d’amore prima del colpo fatale» nella marcia tripartita (Allegretto non troppo). Da ultimo l’idée fixe, «perduto il suo carattere di nobiltà e timidezza» e divenuta «un’aria di danza ignobile, triviale e grottesca», è combinata con il tema del sabba e la melodia gregoriana del Dies irae nella ridda parossistica del finale (LarghettoAllegro).

A. Programma (edizione a stampa: 1845)

Avvertenza

Il compositore ha avuto come fine quello di sviluppare differenti situazioni della vita di un artista per le possibilità musicali che esse offrono. Il piano del dramma strumentale, privo dell’ausilio della parola, ha necessità di essere esposto in anticipo. Il programma° seguente dev’essere dunque considerato come il testo parlato di un’opera, che serve a introdurre i pezzi di musica dei quali motiva il carattere e l’espressione.

° La distribuzione di questo programma al pubblico, nei concerti in cui compare questa sinfonia, è indispensabile alla compiuta comprensione del piano drammatico del lavoro.

[Segue il Programma, nella sostanza simile a quello della successiva versione se non per il fatto che nella prima versione soltanto la quarta e la quinta parte sono raccontate come sogno]

B. Programma (ultima versione: 1855 ca.; edizione a stampa della sinfonia, 1858 ca.)

Episodio della vita d’un artista

Sinfonia fantastica e monodramma lirico [Lélio ou le retour à la vie]

Avvertenza

Il seguente programma deve essere distribuito al pubblico tutte le volte che la sinfonia fantastica si esegue in forma drammatica ed è pertanto seguita dal monodramma di Lélio, che termina e completa l’episodio della vita d’un artista. In questo caso l’orchestra, invisibile, è disposta sul palco d’un teatro dietro al sipario abbassato.*

Se si esegue la sinfonia da sola in concerto questa disposizione non è più necessaria; a rigore si può anche evitare di distribuire il programma, conservando soltanto i titoli dei cinque movimenti; l’autore spera che la sinfonia possa offrire in sé un interesse musicale indipendente da ogni intenzione drammatica.

Programma della sinfonia

Un giovane musicista dalla sensibilità morbosa e dall’immaginazione ardente s’avvelena con l’oppio durante un accesso di disperazione amorosa. La dose di narcotico, troppo debole per dargli la morte, lo sprofonda in un sonno pesante accompagnato dalle più strane visioni, durante le quali le sue sensazioni, i suoi sentimenti, i suoi ricordi si traducono nel suo cervello malato in pensieri e in immagini musicali. La stessa donna amata è diventata per lui una melodia, come un’idea fissa [idée fixe] che egli ritrova e ode dappertutto.

Prima parte.

Sogni, passioni.

Egli si ricorda dapprincipio quel malessere dell’anima, quell’indeterminatezza delle passioni [vague des passions], quelle melanconie, quelle gioie senza motivo che egli provava prima d’aver veduto colei che ama; poi l’amore vulcanico che ella subito gl’ispirò, le sue angosce deliranti, i suoi furori di gelosia, i suoi ritorni di tenerezza, le sue consolazioni religiose.

Seconda parte.

Un ballo.

Egli ritrova l’amata in un ballo nel mezzo del tumulto di una festa brillante.

Terza parte.

Scena nei campi.

Una sera d’estate in campagna, egli ode due pastori che dialogano con una melodia pastorale [ranz des vaches]; questo duo pastorale, il luogo della scena, il leggero stormire degli alberi dolcemente agitati dal vento, qualche motivo di speranza che ha da poco concepito, tutto contribuisce a restituire al suo cuore una calma inconsueta, a dare alle sue idee un colore più ridente; ma ella appare di nuovo, il suo cuore si stringe, dolorosi presentimenti lo agitano, se ella la tradisse… Uno dei pastori riprende la sua ingenua melodia, l’altro non gli risponde più. Il sole tramonta… rumore lontano di tuono… solitudine… silenzio…

Quarta parte.

Marcia al supplizio.

Sogna di aver ucciso colei che amava, di essere condannato a morte, condotto al supplizio. Il corteo s’avanza al suono di una marcia ora cupa e selvaggia ora brillante e solenne, in cui un sordo rumore di passi gravi succede bruscamente agli scoppi più rumorosi. Alla fine l’idea fissa riappare per un istante come un ultimo pensiero d’amore interrotto dal colpo fatale.

Quinta parte.

Sogno di una notte del sabba.

Si vede nel sabba, nel mezzo di una spaventosa schiera di ombre, stregoni e mostri di ogni specie riuniti per il suo funerale. Strani rumori, gemiti, scoppi di risa, grida lontane cui sembrano rispondere altre grida. La melodia-amata riappare ancora: ma ha perduto il suo carattere di nobiltà e timidezza; non è più che un’aria di danza ignobile, triviale e grottesca; è lei che viene al sabba… Ruggiti di gioia al suo arrivo… Ella si mescola all’orgia diabolica… Rintocco funebre, parodia burlesca del Dies irae. Ridda del sabba. La ridda del sabba e il Dies irae insieme.

* Per i dettagli di questa messa in scena si veda la prefazione della grande partitura di Lélio.