di Federico Longobardi
Se vuoi puoi scaricare il romanzo come documento da aprire con Acrobat Reader.
Su quella strada, la sua era
probabilmente l'unica macchina che passava da ore, se non da giorni. I campi
frusciavano al soffio di un tiepido vento primaverile e le stelle diffondevano
solo un'aura, un alone lattiginoso sulla campagna. Gli occhi abbaglianti dei
fari rompevano l'armonia di quel luogo, scrutavano con sguardo indiscreto un
mondo non loro. Se avesse viaggiato con i finestrini aperti, Jacob avrebbe
potuto godere di un intenso profumo di viole, di erba selvatica, di resina,
incomparabile con quell'insopportabile alberello che penzolava dal suo
specchietto retrovisore.
Jacob,
però, non si curava del mondo intorno a lui, di quella florida natura, nascosta
in una affascinante oscurità, che pure sembrava invitarlo a posare il suo
sguardo su di lei, come una donna che, consapevole della propria grazia, mostri
con generosa discrezione le proprie beltà. I suoi pensieri erano altrove,
ancorati a quel mondo da cui era voluto scappare, ma che, in fondo, non
riusciva a rinnegare: più si sforzava di distrarsi, più quella realtà così
invisa gli si appiccicava addosso, come una veste eterea sulla pelle madida di
sudore.
Passò su un ponte, talmente
fragile da oscillare al solo afflato di quella tiepida brezza primaverile; quel
segno gli indicava chiaramente che la meta era vicina. La vide confusamente in
lontananza, come una macchia scura nelle tenebre della sera. Quella cascina non
gli era mai piaciuta, fin da quando i suoi genitori, molti anni prima, avevano deciso
di acquistarla e di farne la meta di interminabili afosissime vacanze estive;
ma, questa volta, era l'unico posto dove poter trascorrere un po' di tempo con
se stesso. La società in cui viveva lo aveva costretto a guardare sempre fuori
da sé, a perdere il contatto con la propria identità, a troncare ogni
comunicazione con la propria interiorità. Quando si avvicinò ancora, fece
capolino nel suo animo confuso il dubbio che quello non fosse il posto giusto
dove rifugiarsi, un nido veramente sicuro: troppi ricordi e il fardello di una
ingombrante memoria avrebbero rischiato di soffocarlo ancor più. Allo stesso
tempo, però, capì che lì nessuno lo avrebbe disturbato con la propria presenza,
richiedendogli attenzione, cure, consigli, pretendendo favori, esigendo prestazioni.
O almeno così gli pareva.
Imboccò
l'angusto vialetto che immetteva nella corte della casa, rallentò e si fermò
vicino ad un basso muretto a secco. Fece un profondo respiro, si stropicciò gli
occhi per abituarsi alla oscurità, ruotò lentamente il collo e cominciò a
guardarsi intorno. Gli era ancora difficile individuare i contorni degli alberi
da frutta, delle chiome del bosco poco lontano, delle montagne sopra
l'orizzonte, ma gli pareva di vedere, o meglio, di sentire qualcosa. Non poteva
dire di aver paura di quel luogo, ormai familiare dopo tanti anni: sapeva
benissimo che non c'erano killer appostati dietro le siepi, orchi nascosti nel
granaio o folletti dispettosi annidati sotto l'erba alta dei campi. E poi, un
docente universitario di filosofia come lui, un profeta della ragione, poteva forse
lasciarsi sopraffare da queste puerili soggezioni?
Tuttavia,
sentiva freddo, si sentiva osservato; voltava la testa da un lato, e subito
sentiva il bisogno di volgerla dall'altro. Nello stesso tempo, voleva capire
ciò che percepiva intorno a lui e preferiva ignorarlo, voleva vedere in faccia
i suoi fantasmi e cancellarli nell'oblio di una falsa indifferenza. Gli vennero
in mente le fantasiose raffigurazioni medioevali dei mostri mitologici, incise
in un volume del XII secolo di cui aveva curato una edizione critica. Si ripeté
che quelli erano i frutti di secoli di oscurantismo, gli strumenti per
mantenere acceso il timore nelle masse, così più facili da tenere a bada come
bestie mansuete. Sapeva bene che erano prodotti di fervide immaginazioni, con
grandi competenze comunicative, ma – fondamentalmente – prodotti di una
acutissima ragione. Incarnavano le paure nascoste degli uomini, ma erano ben
controllate dai dotti chierici. Quello che sentiva doveva essere qualcos'altro,
qualcosa che venisse solo dal suo animo. Non si trattava di un fantasioso collage
di singoli oggetti, di animali realmente esistenti, ma di un prodotto unico ed
esclusivo della sua suggestione. Non erano chiari nemmeno a lui i caratteri di
quel qualcosa. Ma presto si convinse che fosse davvero lì a spiarlo, a
tormentarlo con quel suo invisibile sguardo indagatore.
Jacob decise di
darci un taglio. Quelle erano le follie di uno squilibrato: chissà che cosa si
sarebbe detto di lui in facoltà, se si fosse venuti a sapere come spendeva il
suo tempo libero. È vero, era proprio quello il mondo dal quale voleva
allontanarsi; ma, di contro, abbandonarsi a queste assurde percezioni gli
sembrava un modo sciocco di guadagnare nuovi spazi per sé, per la propria
serenità.
Era confuso, molto confuso. Il
dubbio lo attanagliava, gli impediva di scegliere. E questo gli risultava
insopportabile: era abituato a veder chiaro nelle cose e si ripromise che anche
questa volta sarebbe andato fino in fondo. Ad ogni costo.
Scese
dall'auto, chiuse la portiera, aprì il bagagliaio, ne trasse la sua capiente
valigia trolley. Chiuse la macchina, l'antifurto si attivò
automaticamente. Si disse, sorridendo fra sé, che tale precauzione era del
tutto insensata; tolse le chiavi dalla tasca, premette il pulsante una seconda
volta, e l'allarme si disattivò fra due lampi di luce giallastra. Si avviò
verso l'uscio, tentando di trascinare la valigia lungo il sentiero di ciottoli,
che però, dissestato com'era, continuava a farla ribaltare. Si spazientì un
poco, sollevò sbuffando la valigia e raggiunse con passi rapidi l'ingresso. Si
trattava di una porta a due battenti, in legno di noce, chiusa da una elegante
serratura in ottone; era sormontata da un arco vetrato. Gli venne in mente suo
zio, il vero artefice di quella cascina. Gli tornarono alla memoria le ore
spese a sistemare, rifinire, aggiustare, abbellire ogni dettaglio, sotto la
supervisione attenta di sua madre, sempre più innamorata di quel piccolo nido
che aveva visto crescere fra le sue mani. La porta fu presto aperta, con due
sole mandate. Jacob si aspettava che, dopo tanti anni, i cardini avrebbero
cigolato: forse era la suggestione dei suoi pensieri di poco prima, forse il
prodotto di anni di film gialli di scarsa qualità. In ogni caso, le valve
ruotarono sui cardini nel più profondo silenzio. Egli entrò, accese la luce,
che subito illuminò la vasta sala da pranzo; ogni oggetto richiamava qualcosa
e, nel complesso, l'impressione fu di un ambiente nettamente più arioso, meno
opprimente. Aveva sempre pensato che i luoghi visitati nell'infanzia, se
osservati da adulti, risultassero di necessità sorprendentemente ristretti.
Così non fu.
Gli
pareva strano che il tempo non avesse intaccato quegli ambienti: certo, la
polvere ricopriva i mobili, i vetri delle finestre erano ormai chiazzati
dall'acqua piovana, gli angoli erano diventati le dimore di piccoli ragni,
l'odore dell'aria tradiva decenni di tempo trascorso, ma, nel suo complesso,
tutto era rimasto identico a quando la sua famiglia aveva deciso di andarsene
da quella casa per trascorrere altrove le proprie vacanze. Si toccò il volto e
vi tastò alcune lievi rughe e, passandosi la mano in testa, percepì i primi
segni della calvizie: un sorriso bonario si abbozzò sul suo volto, mentre egli
meditava sul senso del tempo che passa.
Era
soddisfatto della sua scelta: quel luogo gli parve ora, con ancora maggiore
evidenza, il più indicato per una breve pausa di riflessione. Ma era anche
molto stanco: stanco del viaggio, stanco dei mesi di lavoro ininterrotto,
stanco delle mille pressioni cui era sempre sottoposto. E quei pochi pensieri
confusi balenati poco prima nella sua testa contribuivano ad abbatterlo.
Sbadigliò sonoramente e si affrettò a sistemare ogni cosa prima di andarsi a coricare;
lasciò la valigia sul tavolo da pranzo, la aprì e vi pescò il beauty case
con il necessario per la toilette. Si avviò verso il bagno e subito
percepì un'aria più fresca, quasi profumata; la finestrella era leggermente
socchiusa e un alito di vento si intrufolava in quello spiraglio. Girò il
pomello del lavandino e con un rumore gorgogliante l'acqua cominciò a cadere
sulla ceramica. Aspettò qualche istante, preparò lo spazzolino con il
dentifricio, si stiracchiò un po' con un leggero mugolio e cominciò a lavarsi i
denti, osservandosi nello specchio.
Ecco di nuovo quella sensazione
imbarazzante: nonostante l'unico rumore fosse quello dell'acqua e lo specchio
inquadrasse solo il suo busto, Jacob sentiva di non essere solo. Anche questa
volta non poteva parlare di paura, ma solo di disagio, accompagnato da un lieve
fastidio: più cercava di distogliere la propria mente da quella suggestione,
più il suo animo si interrogava su di essa. Cercava di capirne qualcosa di più:
ma non la poteva scorgere. Non doveva avere, dunque, né forma, né odore, né
colore né qualsivoglia altra qualità; non se la figurava dotata di volontà, di
capacità e, dunque, la percepiva come completamente, indubitabilmente innocua.
Ma non gli piaceva comunque. Finì rapidamente di lavarsi i denti, sciacquò lo
spazzolino, lo depositò sul bordo del lavandino; si asciugò le labbra umide con
il dorso della mano e tornò in soggiorno.
Qui la
percezione misteriosa scomparve e, per quanto egli cercasse di ritornarvi,
stentava a percepirla chiaramente; il massimo che poteva fare era attribuirle
delle qualità, scomporre il ricordo di quella suggestione per cercare di
descriverselo. Ma, e presto se ne accorse, un conto era percepire distintamente
quel qualcosa, un altro era cercarne una spiegazione razionale, forse
impossibile. Si preparò per la notte e si avviò verso la camera da letto:
superata una doppia rampa di scale arrivò al piano superiore e, passato un
grosso arco, entrò nella stanza che era stata dei suoi genitori. Preparò il
letto con alcune lenzuola che si era portato da casa e si coricò. Come sempre,
prima di dormire si dedicò alla lettura: per questa volta, però, nessun saggio,
nessuna rivista specialistica, nessun trattato, ma solo un sano e ponderoso
romanzone americano; sorrideva di questa piccola libertà che si era preso e,
forse, si considerava anche un po' sciocco a sentirsi così soddisfatto per un
gesto così insignificante, che gli portava contenuti così insignificanti. Lesse
alcuni capitoli, rapito da una storia apparentemente normale che però, con
chissà quale espediente, riuscì a catturare la sua attenzione, facendogli
percepire tra le righe che la storia riservava evoluzioni mirabolanti al
lettore che da essa si fosse lasciato guidare. Durante la lettura, ogni tanto
alzava gli occhi dalle pagine, guardava oltre l'arco di accesso alla camera,
nel buio; non sapeva perché lo facesse, ma gli capitò più di una volta.
Decise
di spegnere. Inizialmente non poteva vedere nulla, ma poi i suoi occhi si
adattarono all'oscurità; dalle finestre filtrava un luce nuova, così diversa da
quella proiettata da quei fastidiosi lampioni che avevano recentemente
installato sotto casa sua. Era una luce meno intensa, più morbida,
nient'affatto fastidiosa: dava un senso di beata pace, di serenità e non sembrava
contrastare con il buio dello spazio in cui si intrufolava. Era la natura che,
nella sua patria, cercava di spingersi in quell'enclave che qualche
uomo, chissà quanti decenni prima, aveva deciso di sottrarle. Era la luce della
luna, delle stelle, degli astri che, così lontani, facevano balenare i propri
pallidi raggi anche su quegli spazi così insignificanti di fronte alla maestosa
vastità del cosmo. Colmo di fascino, Jacob si addormentò.
* * *
La notte
trascorse serena, senza incubi, ma anche senza sogni. L'indomani mattina Jacob
si svegliò stranamente riposato: le sue membra gli parevano più sciolte, i
piccoli dolori di chi, come lui, spende intere giornate seduto erano ormai leniti.
Aveva lasciato a casa il suo orologio, compagno instancabile di stancanti
giornate di lavoro, e non sapeva che ore fossero: la luce era ancora fioca, e
così congetturò che, visto che l’alba doveva essere vicina, potessero essere le
cinque. Poi però sorrise di quella sua incancellabile attenzione al tempo che
passa, al ticchettio regolare che scandiva la sua ordinatissima vita: quel
giorno non aveva impegni, meeting, conferenze e altre simili amenità. Un
officio ben più importante lo aspettava.
Si alzò
con rinnovata vitalità e spalancò la finestra: un’aria più frizzante di quella
serotina lo avvolse, pervasa di piacevole profumo di umidità, tipico delle
giornate più uggiose. Distingueva solo i contorni del paesaggio, ancora immerso
in una semioscurità: passò alcuni secondi a seguire le linee curve dei monti,
osservando le curiose corrispondenze fra di esse e le posizioni delle poche
stelle visibili, in un cielo piuttosto lattiginoso e decisamente avvilente. I
suoi occhi, quindi, si posarono sulla grande macchia scura che doveva
coincidere con la zona del bosco: quante volte era andato a passeggiare con sua
madre in quella selva, quante volte con gli amichetti vi aveva organizzato
giochi, simulazioni di epici scontri con mostri paurosi! Era stato anche lui un
bambino, con le sue ingenuità, le sue fantasticherie puerili e questo gli dava
una confortante conferma della sua normalità. Ma non furono solo i ricordi a
catturare il suo sguardo sulla chiazza nera del bosco: proprio le fitte
tenebre, l’imperscrutabilità, il mistero di quell’ambiente lo toccavano in
profondità, novello Odisseo fra ammalianti Sirene. Con sorprendente risolutezza
si decise: sarebbe andato nel bosco ad attendere l’alba. In fondo, sarebbero
bastati pochi minuti di camminata per arrivarci: se non voleva mancare
l’appuntamento, però, si sarebbe dovuto spicciare.
Si
infilò una comoda tuta da ginnastica, che di solito usava per il jogging domenicale, un paio di scarpe
tanto tecnologiche da assumere parvenze aliene e con il cuore pieno di
entusiasmo uscì da casa. Riandò brevemente con la mente, passando davanti al bagno,
alle strane impressioni della sera precedente: nulla attirò la sua attenzione,
nulla lo turbò. Passò sotto l’arco in vetro, si avviò a passi sicuri lungo il
vialetto della corte e scese in strada.
Il
tragitto verso il bosco costeggiava alcuni campi di erbacce: o meglio, di
quelle che l’uomo ha il brutto vizio di chiamare con tanto disprezzo solo
perché sfuggono alla sua volontà di ispettore, controllore, dominatore della
natura. Jacob non si curava della vegetazione che lo circondava, ma puntava
diritto verso il boschetto, alzando di tanto in tanto lo sguardo al cielo,
intimorito dall’eventualità che l’alba lo sorprendesse. Il confine fra campagna
e bosco non si può dire fosse nettamente marcato: i due ambienti si fondevano,
con mirabile armonia, l’uno nell’altro. Un’atmosfera tutta nuova, però, fece
percepire con distinzione a Jacob che lì poteva fermarsi, e godere dello
spettacolo.
I
tronchi degli alberi si affollavano intorno a lui e un fitto sottobosco mandava
un dolce effluvio di fresco. Le chiome, pur floride, non coprivano
completamente la vista del cielo, che invece traspariva fra foglie quasi
trasparenti nella loro leggerezza. L’aria era palpabile, fitta di una sottile
nebbia, che cangiava di consistenza con il costante variare della luce: è mirabile
la delicatezza con cui la luce, all’alba, cambia – istante dopo istante. Ancor
più mirabile era il suo effetto sotto quella coltre di vegetazione.
Le
foglie assumevano nuovo spessore sotto la luce, che ne delineava i contorni; ma
diventavano altresì più eteree, leggiadre, trafitte com’erano dalla medesima
luce, che ne faceva trasparire le strutture interne, più intime. I confini
labili e sfumati dei tronchi assumevano via via maggiore nitidezza, gettavano
le prime ombre a terra, guadagnavano profondità. Il terreno, da quell’oceano
tenebroso che era, mostrava lentamente le sue asperità, le piccole foglie di
una vegetazione in crescita, finanche i suoi pullulanti abitanti. Vi era un che
di magico, di misterioso, che un leggero alito di vento rendeva talvolta
inquietante: la nebbia, che, attraversata dai deboli raggi del sole, andava
gradualmente disperdendosi, si spostava lentamente, in ampi e placidi movimenti
ondulatori. A Jacob dava l’idea che essa si avvicinasse a lui, cercasse di
sfiorarlo con le sue dita delicate, ma poi si ritraesse, come intimorita di
urtare la sua sensibilità. Inoltre, la brezza frusciava fra le foglie dei fusti
frondosi, fonte fatata di fiabeschi fremiti; era un canto ripetitivo, e proprio
per questo estremamente ammaliante. Era la voce della natura, il sussurro del
suo artefice.
Jacob
non poté rimanere indifferente di fronte a questo spettacolo. Si sentì
fisicamente pieno, sazio, come pervaso da un afflato divino; percepì
distintamente la perfezione del microcosmo in cui era immerso, si sentì in
sintonia con esso, ingranaggio di una macchina miracolosa. Sentì, sentì una
forza nuova dentro di lui, una consapevolezza profonda, più profonda di quelle
conquistate in anni di ricerca e speculazione filosofica. C’era un non so che
di numinoso in quel bosco, quella mattina; e l’animo sensibile di Jacob non
poté fare a meno di recepirlo. Una lacrima rigò il suo viso, testimonianza
infallibile di una nuova pienezza spirituale.
Jacob
decise di non riflettere, anche perché la condizione in cui si trovava gli
impediva di fare alcunché con chiaro discernimento: decise di accettare una
manifestazione tanto chiara di quel divino che sembra attraversare tutta quanta
la natura. Sentì che è questa forza a conferire al mondo tutta la sua armonia,
a rendere tanto delicati i suoi paesaggi, tanto commoventi i moti delle stelle,
tanto sorprendente la sua varietà. Questo gli parve più che sufficiente.
In un
momento di lucidità, si stupì della stoltezza di tanti che, nella storia,
vollero attribuire a questa misteriosa forza, sinolo di ragione e sentimento,
un nome, fattezze precise, volontà, passioni e si prodigarono, e tuttora si
prodigano, a pregare, ad invocare, ad idolatrare. Non capì questa insania, questa deleteria esigenza,
quest’atto di superbia di un uomo che crede di poter avere un rapporto
privilegiato con quello che invece è il motore di tutto quanto il mondo. Si
ricordò di aver già lungamente elucubrato su questo, ma senza costrutto: si era
ancorato ad un indifferente agnosticismo, quando sarebbe bastato così poco per
capire…
Jacob
raccolse il proprio viso fra le mani, inspirò profondamente e, pervaso di nuove
consapevolezze, si allontanò dal bosco numinoso. Poco sopra l’orizzonte un sole
mandava la sua delicata luce rosata attraverso la nebbia sempre più rada: una
nuova luce poteva ormai splendere anche nel cuore e nella vita di Jacob. E,
come nella sua, anche in quella di tutti i suoi simili, in ogni tempo e per
sempre.
FINE