Se termini come frugalitas e parsimonia primeggiavano nel lessico d’onore dell’antico romano (tant’è che Frugi divenne anche un soprannome) e rappresentavano il fondamento del mos maiorum, significa che per l’originaria civiltà contadina e militare della res publica mangiare costituiva principalmente, se non esclusivamente, una necessità.
E tale restò nei secoli, nonostante l’influsso delle mode d’oltremare, la possibilità d’importare alimenti esotici e raffinati, l’accumulo di ricchezze straordinarie abbiano consentito e progressivamente imposto una vera e propria voga dei banchetti.
Ma questi costituirono pur sempre il vistoso ed estroso privilegio di un’élite ristretta al 5% della popolazione. Il restante 95% si accontentava quotidianamente di un’alimentazione di pura sussistenza a base di cipolle, formaggio, mele, fichi e puls (una sorta di farinata di granaglie e sale).
L’alimentazione per i bambini del popolo non era neppure preventivata. Sopravvivevano quelli svelti a scovare avanzi o rubacchiare. Solo nel II sec. d. C. Traiano introdurrà le institutiones alimentariae, simili agli odierni assegni familiari, di fatto riconoscendo e istituzionalizzando il diritto della prole ad essere alimentata.
Mangiare: un rito
Ancora presente nell’immaginario collettivo è forse la figura evangelica del “ricco Epulone” di contro a quella del “povero Lazzaro”; ebbene, proprio il fatto che inizialmente il termine epulones fosse riservato ai funzionari del collegio sacerdotale preposto alla cura dei pubblici e solenni conviti nelle feste in onore degli dei conferma non solo l’eccezionalità di questi ultimi nella norma dei comuni mortali, ma anche lo stretto legame originario tra banchetto e rito religioso.
E rito, pur nell’accezione laica, il banchetto rimase sempre. Una liturgia minuziosa presiedeva infatti alla sua organizzazione.
Conclusa verso le 15 la giornata lavorativa (giornata che, come in tutte le civiltà contadine, era iniziata all’alba, verso le 4/5), prendevano il via i preparativi. In genere era alle Terme, luogo fisso d’incontro e di socializzazione, che si combinavano gli inviti e si definivano gli ultimi accordi.
Una cena poteva anche iniziare verso le 17 e concludersi dopo 8–10 ore.
Ogni convitato si presentava con il suo schiavo personale e poteva portare con sé una o più umbrae, in genere suoi clienti.
Di rigore era entrare nel triclinio dextero pede.
Rispondeva ovviamente ad un cerimoniale scrupoloso e solenne l’assegnazione dei posti all’interno del triclinium. Dei triclinia, disposti a ferro di cavallo intorno ad una mensa, e capaci ciascuno di tre commensali, che su di essi dovevano prendere posto sdraiati sul fianco sinistro, in diagonale, coi piedi in basso verso destra, quello inferiore (lectus imus) era riservato al padrone di casa e ai suoi amici più stretti. In particolare, il padrone di casa occupava di esso il posto più a sinistra. Il lectus medius era quello di maggior riguardo, con un particolare privilegio per il posto di esso più a destra, coincidente quindi con l’immediata sinistra dell’anfitrione.
Erano invece escluse dai banchetti le matronae che, ancora nel I sec. a.C., potevano parteciparvi, ma raramente, e in piedi e solo per la prima parte, quella che non prevedeva libagioni. A cavallo tra il I sec. a.C. e il I d. C. saranno ammesse ma solo, come d’uso fra il popolo, sedute su uno sgabello.
La ricchezza e l’eleganza delle cene costituivano motivo di distinzione sociale e il prestigio di chi invitava era proporzionale al numero degli ospiti, al loro rango, all’allestimento della coreografia che accompagnava le portate, alla varietà e alla ricercatezza delle stesse.
Le domus signorili prevedevano un triclinio estivo ed uno invernale, a seconda dell’esposizione: erano gli ambienti più sfarzosi, con mosaici sul pavimento e affreschi alle pareti, ampi e luminosi, resi festosi e accoglienti da cornucopie di frutta, ghirlande di fiori, abbondanza di profumi.
Triclinium era detta la sala da pranzo arredata appunto coi triclinia. Ricoperti di drappi e cuscini, essi – come già si è accennato – circondavano da tre lati una mensa, di legno a intarsi di bronzo e argento, su cui venivano poste le vivande (dapes o epulae). Posteriore al I sec. d. C. è l’uso della tovaglia (mantele). Triplicata e addirittura quadruplicata poteva essere la stesura delle mensae.
Catini e patenae (piatti e fondine) di artistica manifattura o di materiale prezioso venivano retti dai commensali con la mano sinistra. La destra serviva invece per portare il cibo alla bocca. Non esistevano infatti le posate; tutt’al più, per gli intingoli, ci si aiutava con gallette dure.
Preziose e cesellate, o addirittura gemmate, erano le coppe (pocula), di varia forma, di vario materiale, di cristallo, d’oro, o di costosissima murra, una pietra speciale, opaca, che esaltava la fragranza del vino.
A cena ci si recava con una veste ad hoc, la vestis cenatoria, che poteva anche essere ripetutamente cambiata nel corso della serata.
Particolarmente sofisticati, nei modi e nei loro abbigliamenti colorati, erano i numerosi schiavi addetti al servizio delle mense, dal nomenclator al magister bibendi, ai pueri a cyatho, agli scissores, ai ministratores.
Letture, recitazioni, musica, canti, danze, buffonerie, giochi acrobatici o d’azzardo riempivano i tempi morti e concorrevano a suggellare il tono del banchetto.