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  • Da Berchettiano a sindaco di Milano

Da Berchettiano a sindaco di Milano

  • Categorie Carpe Diem, Interviste
  • Data 13 Aprile 2017
foto di Giuliano Pisapia

Intervista a Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano ed ex Berchettiano

Incontriamo Giuliano Pisapia nel suo ufficio di via Fontana, a due passi dal Palazzo di Giustizia di Milano dove per anni è stato impegnato in processi di interesse internazionale. Ha aperto la porta ai cronisti e li ha invitati con entusiasmo e disponibilità nel suo ufficio, dominato da  scaffali di volumi di Diritto. L’ex sindaco di Milano (2001-2016) ha frequentato il Berchet tra il ’62 e il ’67. In politica ha ricoperto le cariche di deputato dal 1996 al 2006 e di presidente della Commissione Giustizia.

Chi è Giuliano Pisapia nella vita?

Dovreste chiederlo agli altri, non a me... (ride) Sono una  persona che crede nell’impegno sociale che può diventare, in alcuni casi e per un tempo limitato, impegno politico. Non una professione, dunque, ma una parentesi della vita in cui si rinuncia al proprio lavoro, a vedere gli amici e ad avere momenti per se stessi. Finito il Berchet, l’unico rimpianto è stato aver rinunciato a fare il medico, idea coltivata sin da ragazzino.

In che periodo ha frequentato il Berchet, qual era il clima a Milano?

Iniziai il Berchet nel ’62. Ero il più giovane della mia classe, essendo avanti di un anno. Il clima in città era ancora abbastanza sereno: negli anni ’60 l’impegno politico e sociale non era vissuto attivamente.  C’era qualche occupazione al Berchet, ma in genere coinvolgeva un numero limitato di persone. L’autorità era molto riconosciuta, ma ricordo che questa mentalità è cominciata a cambiare  con alcuni professori che, oltre a far lezione, parlavano d’attualità. Allora sono nati i primi movimenti studenteschi, sia cattolici, sia laici, che sono cresciuti dal ’68 in poi.

Cosa le ha lasciato questa esperienza scolastica? Ricorda alcuni amici?

Le amicizie sono spesso nate dopo, in comune avevamo la stessa provenienza “berchettiana”. È stato sicuramente un grande insegnamento confrontarsi durante gli anni del liceo sui temi della vita quotidiana, grazie ad alcuni professori: don Giussani per religione, il professor Scazzoso per greco e latino. Fu una grossa innovazione.

Cosa ha fatto appena diplomato?

Dopo la maturità iniziai a frequentare Medicina. Poi, dicendo una bugia ai miei genitori, nascosi loro di aver dato il mio assenso a entrare nell’esercito. Questa esperienza mi servì perché volevo costruirmi un’autonomia economica, mentre Medicina significava dipendere a lungo da loro. Passato a Giurisprudenza, studiavo la sera e durante il giorno lavoravo. Nonostante mi stessi appassionando sempre di più a temi sociali e alla difesa dei diritti, mi rimaneva poco tempo per frequentare il movimento studentesco. In quegli anni nacque comunque la mia voglia di impegnarmi politicamente.

Pensa che sia molto diffusa l’idea di partecipazione politica intesa come professione?

Una cosa che mi colpisce è che ci siano persone, anche molto competenti, che erano in Parlamento prima che ci fossi io e che sono tuttora lì. Questo non permette ai giovani di crescere. E rischia di togliere alla stessa persona un po’ di libertà, perché non avendo un’alternativa lavorativa alla fine cerca di fare carriera politica.

Nella sua vita cosa ha significato l’esperienza come avvocato in numerosi, diversi e importanti processi come quelli di Carlo Giuliani, il manifestante ucciso durante gli scontri del G8 a Genova nel 2001 e del leader Dc Arnaldo Forlani coinvolto in Tangentopoli? Non c’è una sorta di incongruenza?

Leggendo questi nomi si può pensare a un’anomalia, ma è proprio questo il compito dell’avvocato: garantire a chiunque un giusto processo. Sono sempre stato convinto che il diritto di difesa sia inviolabile e, più passa il tempo, più me ne convinco. È necessario che vengano rispettate le regole e le garanzie processuali di fronte al rischio di un errore giudiziario. È una garanzia per la società che esista la possibilità di arrivare a una sentenza equa e corretta.

Dopo la sua esperienza come sindaco di Milano lei ha parlato spesso dell’eredità che pensa di aver lasciato…  

Sì perché credo sia nata la consapevolezza in molti che il rapporto tra pubblico e privato sia veramente importante per lo sviluppo e per l’internazionalizzazione di una città, anche se deve essere un impegno comune e che non si crei quella situazione che si è spesso verificata in passato per cui il privato predomina. Un’eredità che penso di aver lasciato è quella della mobilità: Milano grazie a car sharing e bike sharing ha fatto un balzo in avanti. Spesso non si comprende che lavoro c’è stato dietro a questi progetti: quando abbiamo iniziato abbiamo trovato moltissime resistenze. Un’altra eredità è stata quella lasciata da Expo. Ne è un esempio il Patto firmato da 130 sindaci di grandi città che si impegnano sui temi della lotta allo spreco alimentare e per una sana alimentazione.

Come immagina la Milano del futuro?

Una città che conserva la sua memoria. È un luogo bellissimo, con posti affascinanti che spesso chi abita e lavora qui non conosce. Da sindaco ho potuto vedere realtà che non conoscevo e, alcune di queste, sono diventate luoghi aggregazione, centri culturali. Inoltre i giovani sono il nostro futuro e a loro, che spesso vanno all’estero, va spiegato che a Milano uno studente straniero su quattro rimane a vivere qui una volta terminati gli studi…

Cosa direbbe ai ragazzi del Berchet anche in relazione a ciò che le ha dato la nostra scuola?

Ai  ragazzi direi di occuparsi dei temi che li riguardano in prima persona altrimenti saranno sempre altri a farlo al posto loro. Ma anche di non abituarsi mai ai soprusi e di denunciarli sempre. Se non si risponde subito, si inizierà ad accettare ingiustizie sempre più grandi. E questo sarebbe un disastro per la democrazia e i diritti.

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