Quando la
Commissione per la verità e la riconciliazione è
stata
costituita, nessuno di noi aveva veramente capito che cosa
avremmo fatto e quali sarebbero state le conseguenze. C'era
solo una legge del nuovo governo che diceva: questo è
il compito
che vi viene assegnato. Era stimolante, e per i membri della
commissione era anche un privilegio, ma è
anche
qualche cosa che può spaventare. Voi sapete quali erano le
condizioni in Sudafrica fino a poco fa, cioè tutti i
conflitti violenti che avvenivano nel nostro paese: non
erano in molti quelli che avrebbero scommesso sulla
possibilità di una transizione pacifica. Tutti pensavano che
ci sarebbe stato un cambiamento, ma nessuno era in grado di
capire e di prevedere «quale» tipo di cambiamento. Di fronte
a un cambiamento pacifico, si corre sempre il rischio di
dimenticare il passato, mentre un cambiamento violento fa
guardare al passato con il desiderio di punire chi era prima
al potere. Quando il nostro presidente Nelson Mandela uscì
di prigione, il suo primo messaggio al paese fu:
«riconciliazione e unità»; e molti si sorpresero nel vedere
il nostro leader che, dopo tanti anni di prigione, parlava,
senza tracce di amarezza, di riconciliazione. Ma è
proprio a
partire da questo messaggio di comprensione e di
riconciliazione che si è reso necessario riesaminare il
passato. Per superare l'apartheid c'è stato un compromesso?
Credo che, a un certo livello, sia vero. Però il compromesso
non ha riguardato il bisogno di democrazia o il
rifiuto del razzismo, ha riguardato «come» arrivare alla
democrazia e al rifiuto del razzismo. «Ci uccidiamo a
oltranza, per arrivarci, oppure cerchiamo un'altra
soluzione?». Questa è la cosa più difficile da capire per i
razzisti, perché loro pensano che il compromesso sia stato
fatto con il vecchio sistema. Mentre il fatto che si dovesse
creare uno Stato democratico non razzista non è mai stato
oggetto di negoziazione.
Così, molte persone, in
particolare quelle che erano al potere e che avevano tratto
vantaggio dal regime dell'apartheid, hanno pensato che
l'appello alla comprensione e alla riconciliazione di
Mandela fosse un invito a passare un colpo di spugna sul
passato. Dicevano: «Che miracolo incredibile, il perdono e
la comprensione! Allora, perché guardare al passato quando
regnava soltanto conflitto e divisione? Cosi si creerà
soltanto odio, si aumenteranno le divisioni del paese, si
minaccerà la comprensione che si sta creando». Così dicevano
gli ex gruppi dominanti nel nostro paese per motivare il
loro rifiuto radicale a gettare uno sguardo al passato.
Ma c'è stata anche
un'altra reazione ‑ chiamiamola di sinistra ‑ di rabbia nei
confronti di questa grande magnanimità di Mandela. Dicevano
che i neri avevano sofferto per tante generazioni e i
cambiamenti
che si registravano
non erano frutto di un favore che i bianchi facevano al
neri. La comunità internazionale aveva definito l'apartheid
un fenomeno criminale, come il nazismo e il fascismo. Quindi
se l'apartheid era stato un crimine ci doveva essere qualche
criminale che ne era responsabile. Ecco perché dovevamo
creare dei tribunali, dovevamo trovare dei responsabili e
metterli in galera.
Al momento della
transizione si sono manifestate queste due posizioni
estreme, ed entrambe le parti si riferivano a Mandela,
utilizzandolo in maniera opposta. Da una parte si diceva: è
stato troppo generoso e questo gli impedisce di procedere
legalmente con dei tribunali. Dall'altra si diceva: è stato
così generoso, dimentichiamo il passato. La discussione è
stata lunga, accesa, ma da questo dibattito è nata la
Commissione
ed è stato definito
il suo compito: non avremmo dimenticato il passato e nello
stesso tempo non avremmo messo in atto persecuzioni. Ciò che
volevamo costruire era un meccanismo che ci permettesse di
capire ciò che era successo, ma senza innescare azioni di
vendetta.
Base
di partenza: i diritti dell’uomo
Nostro compito, trovare le
vittime e farne un lungo elenco
Così abbiamo costituito
la Commissione per la verità e la riconciliazione
articolata
in tre sottocomitati indipendenti ma che collaborano
strettamente e sono uniti dal filo rosso dei diritti
dell'uomo. Il sottocomitato di cui io faccio parte si
occupa delle violazioni dei diritti dell'uomo:
persone che sono state uccise durante conflitti politici,
che sono state sottoposte a torture, i desaparecidos,
persone che sono state sottoposte a gravi maltrattamenti
come il confino in isolamento. Nostro compito è trovare
queste vittime e farne un lungo elenco. Viaggiamo in lungo e
in largo nel paese, in zone rurali e urbane; abbiamo degli
incontri per la sensibilizzazione dell'opinione pubblica;
lavoriamo con le chiese, con i sindacati e con le
organizzazioni politiche, con le Organizzazioni non
governative, e, grazie a questa collaborazione, portiamo le
vittime di violazioni dei diritti dell'uomo a scrivere una
dichiarazione. Fra queste dichiarazioni selezioniamo quelle
più importanti. Poi organizziamo incontri pubblici e le
vittime parlano delle violazioni subite; e questo è un
momento molto importante perché permette alle vittime di
recuperare la propria dignità, perché nel vecchio Sudafrica
non era mai stata offerta loro la possibilità di parlare
pubblicamente delle loro sofferenze. Questo è molto
importante, specialmente, per le famiglie che hanno perso
una persona cara. Parlo dei padri, delle madri, dei
fratelli, delle sorelle, di tutti i cari che vengono e fanno
una celebrazione della vita di questa persona morta
combattendo per i diritti dell'uomo. Sono esperienze
potenti, drammatiche, ma anche molto
difficili perché le
persone narrano storie di vero orrore, di vera sofferenza e
sono persone comuni, spesso analfabeti, non sempre con delle
convinzioni politiche, persone che a volte non hanno capito
quello che faceva il figlio o la figlia. È un'esperienza
drammatica quella di una madre che, dopo venti anni,
ha la prima occasione
di parlare in pubblico di suo figlio che è sparito nel
nulla; oppure raccontare un'irruzione della polizia che ha
cominciato a picchiare tutti violentemente e poi qualcuno è
morto. Questi incontri vengono ripresi dalla televisione e
vengono trasmessi in diretta dalla radio, in tutte le lingue
ufficiali parlate in Sudafrica ‑ ne abbiamo undici ‑ e tutti
i giornali li seguono e ne riferiscono.
Il sottocomitato per
l'amnistia è quello che si occupa dei processi, per far
sì che i colpevoli di certi reati non vadano impuniti.
Questo sottocomitato ha il compito specifico di esaminare le
richieste di amnistia per le gravi violazioni dei diritti
dell'uomo indicati dalla legge costitutiva della
Commissione:
omicidio, tentato
omicidio, tortura, rapimento e maltrattamenti gravi. I
processi nel sottocomitato per l'amnistia, sono quasi
giudiziari. perché coloro che chiedono l’amnistia possono
ottenerla solo se sono assolte tutte condizioni previste
dalla legge. Queste condizioni sono molte, ma qui ricorderò
solo le tre principali.
La prima condizione
riguarda l’arco temporale. L’amnistia può essere richiesta
solo se il reato è stato commesso fra marzo 1960, quando
l'African National Congress iniziò lotta armata, come
risposta alla strage di Soweto, e il 10 maggio 1994,
quando Mandela fu eletto primo presidente di questa nuova
Repubblica.
La seconda condizione è
che il reato ‑ che si tratti di omicidio, di rapimento o di
tortura ‑ deve essere stato commesso con motivazioni
politiche; non è valida la motivazione personale o per
crimini comuni.
La
terza condizione ‑ forse la più importante ‑ è che ci
deve essere una confessione piena e totale. Bisogna
dichiarare tutto quello che si è fatto, assumersi
responsabilità definite e precise. L’amnistia infatti è
molto specifica ed è applicata per ogni atto. Non si può
chiedere amnistia dicendo «ero nella polizia addetto alla
sicurezza, chiedo l'amnistia per avere ammazzato delle
persone oppure per avere torturato». No,
bisogna riferire in
modo specifico di ogni persona uccisa, di ogni persona
torturata e ogni azione viene giudicata in base agli stessi
criteri. La stessa persona può ottenere l’amnistia per
un'azione, ma non per un'altra. Le famiglie delle vittime o
la vittima, se è ancora in vita, hanno il diritto di opporsi
alla concessione dell'amnistia e hanno anche il diritto di
essere rappresentate da un legale. Possono opporsi alla
concessione dell’amnistia dicendo che non è stata detta
tutta la verità oppure che non c'era nessuna motivazione
politica per quel determinato crimine.
C'è un caso che ha
avuto grande risonanza nell’opinione pubblica. È il caso di
Chris Hani, leader del Partito comunista sudafricano,
comandante dell’apparato militare sudafricano e membro
chiave dell'esecutivo dei National Congress. Dopo Mandela
era la figura di maggior spicco nel nostro paese. Nel 1993
fu assassinato, e all'epoca furono catturate due persone: un
immigrato polacco e un ex immigrato di passaporto britannico
che vive in Sudafrica. Queste due persone dichiararono che
questo assassinio era stato voluto dalla destra per impedire
l'avvento del comunismo in Sudafrica. Ma gli avvocati e la
moglie, che è adesso in Parlamento, sostengono che è
impossibile che l'ordine venisse da un qualsiasi partito:
pertanto, o queste persone non hanno detto tutta la verità e
proteggono qualcuno, oppure hanno agito a livello
individuale. Per questi motivi si oppongono alla concessione
dell'amnistia e il processo è ancora in corso. Il nesso fra
i due sottocomitati ‑ quello dell'amnistia e quello della
violazione dei diritti dell'uomo ‑ consiste nel fatto che se
una persona riesce a farsi concedere l'amnistia, le persone
che sono state torturate o uccise automaticamente diventano
delle vittime e a questo punto comincia il lavoro del
terzo sottocomitato, quello addetto alla
riparazione e alla
riabilitazione.
Risarcire e riabilitare
Chi vuole un
medico e chi una strada intitolato al figlio
Il compito specifico di
quest'ultimo sottocomitato è di esaminare ciascuna vittima e
di decidere le misure adeguate di risarcimento e
riabilitazione. A volte sì tratta di cure mediche, perché in
quegli anni la gente aveva paura di andare all'ospedale, e
così ci sono delle persone che hanno proiettili o schegge
nella carne anche a dieci anni di distanza; altre hanno
bisogno dì cure mediche per le conseguenze di torture alle
quali sono state sottoposte e per le quali non sono mai
state curate. Uno dei metodi di tortura preferiti all'epoca
lo stiamo scoprendo adesso, era la mutilazione dei genitali
con pinze o strumenti elettrici: molte persone vengono da
noi dichiarando di essere impotenti a causa della tortura.
Per questo è importante essere esaminati dal medico anche a
tanti anni di distanza. Poi ci sono persone che sono state
costrette a interrompere gli studi e ora vogliono
riprenderli. C'è chi chiede una tomba per i propri cari,
perché le persone venivano sepolte senza lapide; oppure si
chiede una risepoltura perché le persone possono
essere decedute in
Angola, in Mozambico oppure perché la polizia addetta alla
sicurezza aveva seppellito i cadaveri in un posto qualunque.
A volte, in memoria di una persona, si vuole dare il nome a
strade, a scuole ed è compito del governo decidere se dare
seguito a queste richieste.
Naturalmente questo non
è un compito facile perché le risorse sono limitate, c'è
bisogno di denaro per l'edilizia pubblica, per l'acqua e per
tante altre cose. Ecco perché sono fermamente convinto che
uno dei test più importanti per la Commissione per la
verità e la riconciliazione è
vedere il governo dare
una risposta al maggior numero possibile di queste
richieste. Perché se il responsabile di un crimine riesce a
ottenere l'amnistia non vi saranno cause né penali né
civili, quindi le vittime vengono private dei diritto
di appellarsi in questi
processi. Allora è importante sostituire questo diritto con
qualcos'altro, diversamente le vittime avranno tutte le
ragioni di essere amareggiate e di sentirsi tradite.
Ascoltare il nemico
Sì, ma anche scoprire i
delitti di noi che abbiamo vinto
Io
sto
partecipando a un incontro dal titolo «Ascoltare il nemico»;
ho riflettuto e, per essere onesto e franco, devo dire che
non sono stati questi i termini in cui noi abbiamo visto la
questione della nostra Commissione. Dato che la Commissione
ha due aspetti, la verità e la riconciliazione, è difficile
pensare in termini di «nemico»: pensiamo più alle vittime e
ai responsabili del conflitto; credo che questo sia qualche
cosa di unico, perché ci sono vittime fra gli ex nemici e ci
sono anche responsabili di crimini tra gli ex appartenenti
ai movimenti di liberazione. Quindi cosa significa adesso
«ascoltare il nemico»?
La Commissione per la verità
e per la riconciliazione ha deciso di concentrare
l'attenzione nel forgiare una nuova cultura, quella dei
diritti dell'uomo. Se si assume un orientamento di questo
genere, non si è più in grado di scegliere tra le violazioni
buone e le violazioni cattive dei diritti dell'uomo, perché
in questo modo si distrugge la base di questa cultura. Non
si può dire: poiché l'Affican National Congress si batteva
per la liberazione, era giustissimo che l'Anc torturasse le
persone in galere putrescenti. No, anche se l'Anc poteva
dire che si trattava di spie dei vecchio ordine, l'Anc aveva
la responsabilità di trattare i prigionieri in maniera
degna. Quando Thabo Mbeki, che sarà il nostro prossimo
presidente, e attualmente è il vicepresidente, ammette che
l'Anc ha torturato, ha ucciso, allora chi devo «ascoltare»?
Forse la situazione è un po' peculiare, unica: un movimento
di liberazione nazionale costretto ad ammettere
responsabilità di questo genere. Quando ci sono degli
adolescenti che vengono alla Commissione e raccontano
che, essendo pienamente convinti che una certa persona era
un nemico, che lavorava per il governo dell'apartheid, hanno
preso un pneumatico e glielo hanno messo sul collo, gli
hanno gettato la benzina addosso e hanno acceso un
fiammifero, chi dobbiamo «ascoltare»? Dobbiamo «ascoltare»
chi ha messo in atto il crimine o la vittima?
Credo che tutto questo
ci abbia dato una nuova percezione della natura del
conflitto. Forse un filo conduttore importante è considerare
il fatto che ci sono vittime e rei da entrambe le parti dei
conflitto. Però il conflitto è stato combattuto da una parte
per i diritti dell'uomo e dall'altra parte per la negazione
dei diritti dell'uomo, quindi è impossibile applicare gli
stessi pesi e le stesse misure a quelli che combattendo per
i diritti dell'uomo hanno violato loro stessi
quei diritti e a quelli
che imponevano con la forza un sistema che era basato sulla
negazione dei diritti dell'uomo. Nel caso dell'apartheid le
gravi violazioni dei diritti dell'uomo erano intrinseche al
sistema, ne erano un elemento costitutivo. Per chi lottava
contro l'apartheid invece i diritti dell'uomo, la
democrazia, erano il fine, ma qualche volta c'era confusione
tra mezzi e fine. Allora, sebbene si debba riconoscere
quanto è avvenuto, non si può dire che è stata la stessa
cosa.
Questa è la grossa
lotta in questo momento in seno alla Commissione,
perché i rappresentanti dell'ex governo l’apartheid vogliono
vederlo solo come un conflitto politico, non come una lotta
intorno al problema cardinale dei diritti dell'uomo. Fino a
quando non riusciranno a percepire questa differenza, non
sarà mai possibile ottenere un’assunzione
di
responsabilità, non ci potrà essere riconciliazione. Io
ritengo dal più profondo del mio cuore che se non c'è
un'accettazione piena e incondizionata del fatto che
l'apartheid era un sistema razzista, senza tentare alcuna
razionalizzazione di ciò che quel sistema comportava, non vi
può essere riconciliazione; quello è il nostro nemico, il
sistema dell'apartheid, e dobbiamo ascoltare e ascoltare di
nuovo per cercare di capire e soltanto in questo modo
procedere verso una nuova storia.
La forza per raccontare
Piangere può essere un
punto di forza
Solo da poco abbiamo
cominciato a prendere coscienza dell'impatto traumatico che
il conflitto ha avuto sulle persone. Al tempo della lotta,
tutti pensavamo che dovevamo essere forti: nessuno ha mai
pensato che fosse necessario parlare di quello che era
successo loro. Poco fa, per la prima volta, uno dei membri
del nostro gabinetto, Mac Marage, ha parlato pubblicamente
delle torture alle quali venne sottoposto. E’ successo che
un generale, oramai in pensione, a domanda aveva risposto di
non essere mai stato coinvolto direttamente o indirettamente
nelle torture. Mac Marage era presente, si è alzato, gli ha
chiesto di ricordare il tempo in cui era un luogotenente:
«Fosti tu a torturarmi, mi facesti questo e
quest'altro, quindi
adesso non osare negarlo».
Agli esordi di questa
Commissione
non erano
gli attivisti che venivano alla
Commissione,
erano le famiglie,
le madri, le mogli. Questi familiari venivano alla
Commissione
e scoppiavano a
piangere; davanti ai nostri occhi si dispiegava la tragedia
dell'uomo e questo, un po' per volta, ha eroso la necessità
di essere forti che spingeva i militanti a pensare che
«loro» non potevano andare davanti alla
Commissione.
Esisteva un
conflitto interiore, ma piangere, a volte, può essere un
punto di forza e credo che stiamo cominciando a capirlo. Le
conseguenze di tutto ciò forse in futuro potranno essere
studiate in modo più approfondito, ma non era qualcosa che
potevamo prevedere quando abbiamo creato la
Commissione.
Le diversità delle
memorie
I torturatori ricordano
il bene, i torturati ricordano tutto
Adesso voglio
raccontarvi una storia che mi ha toccato personalmente.
Nella parte occidentale di Città del Capo c'era un gruppo di
giovani attivisti, un'ala clandestina del movimento militare
dell'African National Congress. Li conoscevo perché avevo
appena finito l'università e avevo cominciato a insegnare. A
causa della loro attività due sono stati uccisi, pensiamo
giustiziati. La polizia ha sostenuto che si trattava di
autodifesa; ma altri quattro sono stati sottoposti a gravi
torture. Alcuni mesi fa il torturatore, uno che si chiama
Benzin, ha chiesto l'amnistia. Ogni attivista all'epoca
sapeva che la persona da evitare era proprio questo
Benzin. Era noto per Il suo metodo di tortura infame:
prendeva un sacco nero di tela, lo bagnava, vi faceva
sdraiare supini, legava le mani, legava le gambe, saliva
sulla schiena, metteva il sacco di tela nera sulla testa e
lo chiudeva con una corda; era così esperto che sapeva con
esattezza il momento in cui la persona cominciava a perdere
i sensi, stava per morire. Allora levava il cappuccio; poi
continuava il trattamento fino a quando la persona
rispondeva alle domande. Diceva che non gli servivano più di
trenta minuti per ottenere le risposte che voleva. Ora
davanti al pubblico stava Benzin e di fronte c'erano quelli
che aveva torturato; e lui chiedeva l'amnistia. Il fatto
strano è che le quattro persone che stavano di fronte a lui
non si opponevano alla richiesta, ma dicevano: «Non dici
tutta la verità». Benzin, stranamente, non era in grado di
ricordare tutto quello che aveva fatto; ha dovuto fare una
dimostrazione pubblica del suo metodo di tortura: ma la cosa
che lui ricordava erano solo i gesti di umanità nel
confronti delle sue vittime. «Ma non ti ricordi che ti ho
tirato fuori dì prigione e ti ho comperato il pollo? E tu
mi hai detto: quanto mi è piaciuto il pollo!». «Sì», diceva
l'altro, «me lo ricordo, ma è stato dopo che mi hai quasi
ammazzato». La cosa più importante per Benzin era
riconquistare una fetta della sua umanità, ricordando
soltanto i momenti umani del suo comportamento; le barbarie,
quelle non se le ricordava o diceva che non era in grado di
ricordarle. Ma i torturati ricordavano tutto, fino
all'ultimo dettaglio.
Dopo la sessione ho
parlato con alcuni di questi attivisti che adesso fanno
politica e mi hanno detto che anche per loro era la prima
volta che ne parlavano. Non l'avevano fatto mai né con la
moglie, né con la fidanzata, né con l'amico più intimo. Uno
di questi, Gary Cooder, che adesso ‑ ironia della
sorte - è a capo del
servizio segreto militare, quando si è trovato a confronto
di Benzin ed è stato interrogato, è crollato e ha cominciato
a piangere davanti al pubblico.
La
suprema ingenuità
Libertà in cambio di
verità
Quando abbiamo
cominciato a prendere in considerazione i primi reati di
violazione dei diritti dell'uomo, una delle richieste che
veniva continuamente presentata dalle vittime era sapere
cosa era successo all'amato, chi l'aveva perpetrato e
perché. Si dichiaravano pronti a perdonare, ma dovevano
sapere cos'era successo, perché perdonare e chi perdonare.
Adesso, man mano che emergono sempre più nomi e più fatti,
le vittime cominciano a sapere chi, cosa e perché. E non
sono più sicure di voler perdonare. Questo è umano, perché a
volte le azioni sono state così barbariche, così violente.
Persone che sono state ridotte in cenere, avvelenate,
persone gettate in fosse comuni. La polizia di sicurezza,
per combattere la cosiddetta guerra di guerriglia,
intercettava le persone che dalla campagna andavano in
città: o le convincevano a lavorare per loro, a diventare
«ascari», oppure le eliminavano. In entrambi i casi non si
sapeva cosa fosse successo a queste persone. Per anni e anni
c'è stato un velo di mistero. A volte i familiari accusavano
l'Anc, perché dicevano: «Mio figlio è venuto a fare parte
delle tue file, tu devi sapere dove è andato finire». Quindi
immaginate il loro shock quando scoprivano che i loro figli,
partiti da casa per combattere per l'Anc, erano diventati
«ascari», ammazzavano, quelli dell'Anc, o venivano uccisi
dall'Anc in quanto «ascari».
Senza che noi lo
avessimo preventivato o programmato, le vittime si vedono
assegnare un ruolo preminente nella Commissione. Ecco
che cosa è così forte, potente, nella Commissione a
tutti i suoi livelli, sia che si tratti del sottocomitato
sui diritti dell'uomo dove si parla con la propria voce,
oppure dei sottocomitato per l'amnistia in cui i rei sì
devono confrontare con le vittime. Ed è così diverso da un
processo in tribunale. Perché in un processo comune, in
tribunale, l'accusato ha sempre la tendenza a proteggersi, a
dire bugie, a negare. Ma nel processo per l'amnistia, è
proprio dire la verità che evita la condanna, perché se non
si dice la verità, se non si dice tutto, non c'è amnistia.
E’ un fenomeno molto interessante perché le vittime e le
famiglie delle vittime a volte si vedono assegnare un
posto più importante di quello dell'avvocato nello stabilire
la verità, soprattutto se si tratta di sopravvissuti. Ecco
perché viene sempre sottolineata l'importanza della presenza
delle vittime: questo è un diritto fondamentale perché la
riconciliazione non è solamente un processo storico ma è
anche il modo in cui la
società tratta le vittime dei diritti umani. E abbiamo
notato che anche se i familiari della vittima si oppongono
alla concessione dell'amnistia non rinunciano mai a essere
presenti; anche se sanno che l'amnistia potrà essere
concessa anche contro il loro parere ritengono che, sia
importante presentare il loro punto di vista,
La riconciliazione non
è un processo facile. Perché è un processo
che non si propone solo di sapere chi è la vittima e chi è
il carnefice; il nostro compito è cercare di capire in tutte
le sue sfaccettature e in tutta la sua complessità quello
che è successo. Credo che questo sia un problema che non
riguarda solo l'oggi, ma il futuro. E’ una cosa che abbiamo
ribadito più volte nell'ambito della Commissione: che
esiste non solo per indagare il passato, ma per ricostruire
il futuro.
[Russell Ally,
Signor nemico crudele: lei è stato perdonato, in:
Diario della settimana, anno III, n.10, 11/17 marzo 1998]
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