Il Brandberg e la “dama Bianca”di Massimo Baistrocchi
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Il Brandberg
prende il suo nome africaans dal suo colore (vuole dire montagna
bruciata), allo stesso modo hanno fatto i nativi Damara chiamandola
Daureb e gli OvaHerero Omukuruwaro. E’ una massa compatta di granito
(quasi circolare di Il massiccio possiede uno dei più famosi dipinti su roccia dell’Africa. La scoperta del dipinto nella gola del Tsisab il 4 gennaio 1917 è dovuta al topografo Reinhardt Maack che ne fece uno schizzo sul suo taccuino con la seguente annotazione “… Io stile egizio-mediterraneo di tutte le figure è sorprendente ”. Nasceva così uno dei grandi equivoci dell’arte rupestre. Per circa trent’anni
le figure rupestri del Brandberg tornarono nell’oblio, fin quando
uno studioso francese, l’etno-antropologo Abate Breuil, si imbatté
nella riproduzione e si convinse, da una breve protuberanza del
seno, che la figura centrale del fregio fosse una vergine d’origine
mediterranea. Tale interpretazione venne confermata da una visita in
loco nel 1947, e nel 1955 l’abate francese confermava, nella sua
opera “ Innanzitutto non si tratta di un personaggio femminile ma di un guerriero, come ha dimostrato nel 1975 la ricerca di Harald Pager che ha eseguito un rilievo completo e meticoloso del fregio. Inoltre, gli scavi e le ricerche in situ hanno confermato che gli autori del fregio sono locali e non vi sono influenze esterne, come è stato ipotizzato da Breuil e, sulla sua scia, da altri studiosi di arte rupestri della prima metà del XX secolo. Questo approccio nasceva da una convinzione radicata che partiva da lontano ed era a fondamento dell’azione civilizzatrice dei bianchi nei confronti dei popoli africani da cui discendeva che questi ultimi, appunto perché “degenerati”, erano incapaci di creare in proprio delle opere che potevano avere una precisa ed originale valenza artistica e culturale. La “dama bianca” è diventata quindi un prodotto della cultura mediterranea - cioè della civiltà dei bianchi - nel Continente Nero. In fondo, questa “scoperta” confermava al colono - in piena era di apartheid - la convinzione di carattere “ideologico” che le popolazioni locali non potevano aver prodotto una loro cultura locale. Lo stesso era accaduto per gli studi e le ricerche condotte fin dall’inizio del secolo a Great Zimbabwe e solo negli anni ‘70 sono definitivamente scomparse, con la fine della decolonizzazione! Le pitture rappresentano donne con ricche decorazioni corporali e gonnellini posteriori, che ancora oggi le donne san utilizzano, mentre gli uomini oltre ad una profusione di bande decorative hanno anche degli astucci penici; tutte le figure usano sandali o altre forme di calzature. Due figure portano grandi maschere animali: con ogni probabilità sono figure simboliche, mitiche o totemiche, ad indicare una cerimonia ricca di allori e personaggi. Non si conosce con esattezza l’età delle pitture dacché non vi è diretto contatto tra le pitture e gli strati di deposito contenenti elementi di datazione come carboni o altri materiali databili. In una stratificazione dell’alto Brandberg è stato reperito un frammento di pittura caduto dalla parete (dove è stato ricollocato) e pertanto è stato possibile datare quel livello di pittura attorno ai 2700 anni fa. Da tenere presente che vi sono diversi livelli di pitture, alcune probabilmente di molto anteriori. Recenti esami cromotomografici su frammenti di pittura hanno tuttavia fornito date più recenti, circa 2000 anni, che è il massima per questo tipo di esame perché l’esame si fonda sulle proteine/albume eventualmente contenute nei colori e dopo quella data le proteine scompaiono. Nel Brandberg sono state individuate un migliaio di stazioni con pitture rupestri contenti circa 45.000 figure, molte delle quali nello stile della “Dama Bianca”, che è uno stile già evoluto. Moltissime delle figurine in colori monocromi, specie in ocra bruna, sarebbero ben più antiche di quelle della processione rinvenuta nel riparo scoperto da Maack. [in: Valentina Cassinelli - Claudio Meirone, Namibia, alla scoperta di una terra senza tempo, Polaris, Firenze 2002] |