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COMINCIA L'ESILIO (1931-1936)
Aspettavo con paura che ci accadesse qualcosa di grave. Da quando il treno
si era mosso dalla stazione di Milano la mamma continuava a spingermi nell'angolo dello
scompartimento verso il finestrino dove era appeso il suo soprabito, con il quale cercava
di coprirmi, raccomandandomi di dormire. Ma nei suoi movimenti, nella voce e nello sguardo
avvertivo istintivamente un'ansia repressa che mi teneva più desta che mai. Il soprabito
con il quale la mamma cercava di nascondermi, mi infastidiva, benché in quel gesto
sentissi l'intenzione di proteggermi da una minaccia che incombeva su di noi.
A Domodossola vi fu una lunga fermata durante la quale nello scompartimento entrarono due
uomini in divisa che si rivolsero alla mamma: «Passaporto, prego». Vidi la mamma porgere
un libretto color paglierino con una croce nera sulla copertina. «Adele Schioppa, nata a
Mendrisio, di nazionalità svizzera» lesse l'uomo in divisa guardando attentamente la
mamma, poi diede una rapida occhiata in giro; a me, che seguivo la scena da dietro il
soprabito, fece una carezza e restituito il documento se ne andò seguito dal collega.
Avevo da poco compiuto i sei anni e non capivo bene cosa stesse accadendo. Che stranezza!
Mia madre non si chiamava mica Adele. Quando le vicine la chiamavano dal cancello dicevano
«Mire» trasformando come è nell'uso nel nostro quartiere di Udine, la «a» finale dei
nomi in «e.» Per me era «la mame» e io per lei «Anite».
Il treno si mosse, prima lentamente, poi sempre più veloce, infine imboccò una lunga
galleria nera. Uscendo dalla galleria fui abbagliata dalla luce del giorno; nel cielo
nitido vidi profilarsi altissime montagne. Prima della galleria avevamo lasciato un cielo
grigio e piovoso, di qua tutto era inondato da un sole splendente.
«Il più è fatto - sospirò la mamma. - Domani all'alba saremo a Parigi e riabbracceremo
il babbo».
«Perché il babbo non è tornato a casa nostra?»
«Tu non puoi capire, sei troppo piccola - sospirò la mamma.- A Udine non poteva più
trovare lavoro. Anche a Milano, dopo qualche mese alla Breda, era rimasto senza lavoro.
Così ha dovuto andare in un altro paese, dove gli uomini sono più liberi».
Ero contenta che la mamma si fosse finalmente decisa a parlarmi. Pur non riuscendo ad
afferrare appieno il significato delle sue parole esse mi fecero tornare alla mente gli
spaventi per le frequenti visite notturne dei poliziotti; chiamavano il babbo. Lui si
alzava e imprecando si avviava alla finestra. Ma dal cortile gridavano ancora: gli
comandavano di sporgersi bene all'infuori per il riconoscimento. Dal mio letto, vicino
alla finestra, lo vedevo, di profilo, mentre sporgeva leggermente il suo volto regolare, i
capelli neri che lasciavano scoperta la pallida fronte. Un fascio di luce proveniente dal
basso scrutava bene quel volto (i poliziotti temevano sempre di essere ingannati da mio
padre e che al controllo si presentasse uno dei suoi fratelli). Ricordavo bene come si
agitava la mamma quando al tramonto il babbo non era ancora rientrato. Allora andavamo
tutte e due al cancello ad attenderlo.
«Dove andremo - disse ancora la mamma - vi sono delle persone che penseranno a noi. D'ora
in avanti ci chiameremo Anita e Adele Schioppa, non dimenticarlo».
«Anita e Adele Schioppa» ripetevo sottovoce. E fu la prima di una lunga serie di
stranezze.
Nella banlieu di Parigi
Cominciava ad albeggiare quando il convoglio rallentando entrò sotto la
grande tettoia della Gare de Lyon a Parigi. Non avevo mai visto una ressa tale di
viaggiatori, facchini, valige, carrelli. Ero stordita ed eccitata.
Finalmente nel trambusto riconobbi la voce e il viso del babbo e mi ritrovai fra le sue
braccia. Lasciammo in fretta la stazione e cercammo un taxi che infilò di corsa un
seguito di larghe strade fiancheggiate da alti palazzi. Nonostante fosse autunno inoltrato
Parigi splendeva nella luce di quel fresco mattino. Ma quello che contava per me era il
fatto meraviglioso di trovarmi seduta nel taxi in mezzo alla mamma e al papà.
La vettura si fermò in una tranquilla strada di periferia fiancheggiata da due file di
villette con piccoli giardinetti davanti. Scendemmo al cancello di una di quelle villette.
Il babbo ci fece strada come se fosse a casa sua e ci condusse in una accogliente sala da
pranzo dove era già pronta la cioccolata calda.
Mi ambientai facilmente nella nuova casa, feci amicizia con Wilma, una ragazzetta un po'
più grande di me, figlia di due triestini che abitavano nella stessa villetta, e con suo
fratello. Tutto mi sembrava facile e naturale.
La scuola di Parigi era situata in un grande e moderno edificio. La maestra mi fece
accomodare vicino a un bambino anche lui italiano che avrebbe dovuto fungere da
interprete. Alla prima occasione però risultò chiaro che non ci comprendevamo a causa
della diversa provenienza regionale: io parlavo friulano mentre il mio compagno veniva
dalla Sicilia. Non restava dunque che apprendere al più presto il francese. A metà
dell'anno scolastico ebbi in premio un libro illustrato con le favole di Esopo.
Wilma ed io avevamo preso il gusto, rientrando da scuola, di suonare il campanello al
cancello delle villette della nostra strada. In modo speciale avevamo preso di mira una
signora grassa che si arrabbiava moltissimo per lo scherzo. Un giorno stanca delle nostre
birichinate la signora venne a bussare alla nostra porta. Il babbo le aprì l'uscio e fu
investito da un fiume di male parole, in gran parte incomprensibili. Egli cercò di
calmare la signora mettendo assieme alla meglio qualche parola di scusa in francese. Ma
non servì a nulla, ed essa prima di andarsene minacciò: «Chiamerò la polizia».
Quando il babbo richiuse la porta, compresi subito che era in collera. Tutti noi,
espatriati clandestinamente, vivevamo a Parigi con documenti falsi, fornitici dal partito
comunista italiano. Una visita della polizia, anche per futili motivi, attirando
l'attenzione su di noi, poteva trasformarsi in un dramma.
Era già estate quando il babbo partì di nuovo.
«Stai tranquilla, Mira, tutto andrà bene, come le altre volte - disse alla mamma. -
Naturalmente c'è un rischio. Ma se dovesse capitarmi il peggio, c'è il partito, ci sono
i compagni. Ci penseranno loro a te e alla bambina».
Passavano i giorni, le settimane, i mesi, e del babbo non si sapeva più nulla. La mamma
era sempre più preoccupata. In quelle lunghe giornate di attesa, insolitamente
incominciammo a ricevere visite di compagni e compaesani che conoscevano il papà ed erano
anch'essi emigrati politici. Il più delle volte si finiva col parlare di un grande paese,
dal territorio immenso, che si differenziava da tutti gli altri e che era un po' la patria
di quelli come noi. Sulla parete, in sala da pranzo, era attaccata una carta dell'Europa e
dell'Asia: il Paese del quale parlavano si chiamava URSS o paese dei Soviet e occupava una
grande parte di quella carta. Quando lo chiamavano URSS mi veniva in mente l'orso, ma
quell'altro nome era ancora più strano. Però gli occhi dei nostri ospiti si illuminavano
di speranza quando lo nominavano.
Intanto la mamma aspettava notizie dal babbo con ansia crescente. Finalmente un giorno, da
Udine, i nostri parenti ci scrissero: «Santin si trova a Roma, a Regina Coeli, in attesa
del processo». Dunque i timori e i sospetti che, tornato in Italia per svolgere lavoro
cospirativo, fosse caduto nelle mani della polizia fascista erano purtroppo veri.
«Povero Santin, ora lui sta peggio di noi - diceva la mamma agli amici che ci venivano a
trovare. - Ora non posso tornare in Italia, bisogna che mi aiutate a trovare un lavoro
qui, in Francia».
La risposta però era sempre più o meno quella: senza buoni documenti a Parigi non si
poteva trovare lavoro. Qui non saremmo mai state tranquille ed era meglio accettare
l'offerta del Soccorso Rosso e recarci nell'Unione Sovietica. A Mosca, dicevano, saremmo
state al sicuro fino a che non si fosse chiarita la situazione di Santin; e saremmo state
sempre in tempo a tornare; la Russia non era poi così lontana come sembrava.
«Laggiù sarai protetta, la tua bambina riceverà una educazione giusta».
Sentivo il desiderio di andarci al più presto in quel Paese immenso dove avremmo trovato
solo amici e fratelli.
Nel paese dei Soviet
Verso la metà di agosto del 1932 tutto era pronto per la nostra
partenza. Il compagno Fanti (Ilio Barontini), dovendo recarsi a Mosca per una riunione
dell'Internazionale sindacale rossa (Profintern) in rappresentanza del partito comunista
italiano, ci accompagnò. Di quel lungo viaggio ricordo ben poco. Quel Fanti, mi sembrava
occupasse il posto del mio papà, e perciò verso di lui avevo un atteggiamento di
sospetto. Dopo un pernottamento a Berlino, al terzo giorno dalla nostra partenza da Parigi
giungemmo a Mosca.
Alla stazione fummo accolte da un compagno sconosciuto, ma che conosceva il nostro
accompagnatore. Fummo condotte in un piccolo albergo, chiamato «Majak», situato in un
vicolo vicino alla via Miasnizkaia (ora via Kirov).
I primi giorni passarono veloci nel prendere contatto con la città, con il luogo dove
avremmo consumato i pasti, nell'ambientarci e fare conoscenza con gli italiani giunti in
Russia prima di noi. Una sera fummo accompagnate da Fanti e da altri compagni del Soccorso
Rosso che ci avevano in consegna, ad una rappresentazione del Teatro Bolscioi. Quella sera
si dava il balletto Papavero rosso del compositore sovietico P. Glier.
La grandiosità della sala, del palco, le luci, i costumi e la bravura dei danzatori,
fecero su di noi, che non eravamo mai state a teatro, una enorme impressione. Eravamo
felici.
L'incaricato italiano del Soccorso Rosso o come si diceva qui del MOPR (Organizzazione
internazionale di soccorso ai rivoluzionari) ci consegnò dei buoni, valevoli per
consumare i pasti alla mensa della Casa degli Emigranti, situata in via Voronzovo Polie, a
qualche fermata di tram dal nostro albergo.
La Casa degli Emigranti occupava l'edificio che nel passato era stata la sfarzosa
residenza dei duchi Voronzov di Mosca. Negli scantinati dell'edificio funzionava una
grande cucina e una vasta mensa con lunghi tavoli ricoperti di tela cerata e lunghe
panche. All'ora dei pasti gli stranieri residenti a Mosca, che ne avevano diritto,
venivano lì per mangiare. Erano persone sole oppure famiglie intere che non avendo un
alloggio adeguato per prepararsi il cibo, mangiavano alla mensa. Per tre ore regnava una
grande animazione e si potevano sentire tutte le lingue, dal tedesco al cinese.
Dopo aver consegnato il buono, ognuno si avvicinava alla finestrella della cucina e
ritirava il suo piatto colmo di fumante minestra (di solito si trattava di sci, minestra
di cavoli acidi, o di borsh, minestra di barbabietole rosse e carne condita con panna
acida). Dopo la pietanza di solito veniva un bicchiere di frutta cotta o di kissel
(decotto di bacche amare). La prima volta che vidi il pane nero, lo credetti un dolce alla
cioccolata. Adele, una compagna che era con noi, si mise a ridere e mi spiegò che quello
era pane.
«Qui tutti mangiano il pane nero che è sostanzioso e nutriente. Il pane bianco è
considerato un alimento da borghesi».
Dopo aver mangiato ci fermavamo un po' alla Casa degli Emigranti: la mamma parlava con le
compagne mentre io giocavo nel piccolo giardino con i miei coetanei di varia nazionalità.
Qui c'era un'altalena intorno alla quale imparai le prime parole di russo e tra queste una
parolaccia che era sempre sulla bocca di un ragazzo bulgaro più prepotente degli altri.
Girando coi miei nuovi amici per i corridoi del palazzo vedevo le sale e i saloni
trasformati in dormitori per gli emigranti politici di varie nazionalità. A volte nella
stessa stanza erano sistemate tre o quattro famiglie; tuttavia abitare alla Casa degli
Emigranti era considerato un privilegio.
In quel periodo, ovunque andassimo per strada, alle fermate del tram o altrove,
suscitavamo nei moscoviti una certa curiosità. Riconoscevano in noi degli stranieri, ci
circondavano e restavano a guardarci in silenzio, con una curiosità frammista ad
ammirazione e diffidenza.
«Perché ci guardano così?» chiedevo alla mamma.
Non sempre la mamma rispondeva alle mie domande.
Nelle case adiacenti al nostro albergo «Majak» i sotterranei delle vecchie case erano
trasformati in abitazioni. Dal marciapiedi si potevano vedere, attraverso le finestre
aperte sotto il livello della strada, gli interni miserabili. Chiesi alla mamma perché
quella gente vivesse nelle cantine, ma neanche quella volta ebbi risposta.
Il nostro albergo era vicino al centro della città, ma nelle nostre passeggiate non
vedevamo né negozi né vetrine all'infuori delle panetterie. Ci venne spiegato che ogni
organizzazione aveva i negozi o spacci interni per soddisfare i bisogni del personale e
delle loro famiglie. Noi eravamo sotto la tutela del MOPR e per ogni occorrenza avremmo
dovuto rivolgerci alla sezione italiana del Soccorso Rosso. Chi invece disponeva di un
tesserino speciale (come per esempio i tecnici e gli specialisti stranieri che lavoravano
nelle industrie sovietiche, o qualche grosso dirigente comunista dell'emigrazione) poteva
servirsi dal Torgsin, un grande negozio speciale, dove con valuta estera, con preziosi,
oppure con oro, si poteva acquistare anche del caffè vero, delle stoffe e ogni altra
merce di buona qualità.
Per le strade si notava spesso un grande sciamare di ragazzini sporchi e malvestiti, che
si davano da fare in mille modi: chi raccogliendo mozziconi di sigarette, chi chiedendo
l'elemosina, chi rubando o borseggiando. Mi avevano già avvertita di guardarmi bene da
quei ragazzacci, che tutti chiamavano besprisorniki. Ci dissero che erano capaci di tutto.
La mamma di Primo, un mio compagno di giochi, Adele Giovetti, con la quale mia madre
divideva la stanza al «Majak», raccontò una sua esperienza:
«Aspettavo sui Boulevards il tram 'A' per andare alla mensa della Casa degli Emigranti e
alla stessa fermata si era raccolta un po' di gente. Tra gli altri una donna ben vestita
che indossava una pelliccia di agnello. Un ragazzetto le si avvicinò alle spalle e con
gesto fulmineo, servendosi di una lametta, tagliò via tutta la parte posteriore della
pelliccia e scappò via prima che qualcuno facesse in tempo ad afferrarlo. La malcapitata
rimase quasi in mutande e potete immaginarvi le sue urla».
Adele ci avverti' di non immischiarci, se ci fosse capitato di essere testimoni di qualche
furto o borseggio.
«Qui, non intervengono neppure gli uomini e fanno finta di non vedere quello che accade
magari sotto i loro occhi. Tutti hanno paura e non vogliono correre rischi con queste
bande organizzate che hanno occhi dappertutto. La maggior parte dei besprisorniki hanno la
finka, un coltello di tipo finlandese dalla lama tagliente e lunga venti centimetri, che
è il simbolo del vero khuligàn».
Dopo alcune settimane si cominciò a parlare della necessità che anche mia madre andasse
a lavorare. I rappresentanti italiani del Soccorso Rosso suggerirono di mandarla in una
fabbrica di bambole dove lavoravano già altre due o tre compagne italiane. Ma se la mamma
andava in fabbrica, io sarei rimasta bes prisora, cioè senza custodia. Così si decise il
mio invio all'istituto di Vaskino, dove i figli di emigrati politici o di perseguitati
antifascisti, erano ospitati dal MOPR.
Dopo aver superato un esame psicofisico a Mosca, in un giorno d'autunno inoltrato partii
per Vaskino. Il treno delle linee viciniori mi depositò ad una piccolissima stazione e da
qui proseguimmo con la slitta. Non avevo mai visto tanta neve, tutto intorno, a perdita
d'occhio, era bianco. Mi accomodai sulla slitta e questa si avviò a passo d'uomo. Faceva
freddo. Dalla mia bocca usciva un vapore bianco e anche dalle froge del cavallo.
All'arrivo il cavallo era tutto sudato. Vaskino era un piccolissimo paese, un agglomerato
di isbe costruite con grossi tronchi d'abete, attorno a un'isba più grande che era la
scuola e alla fattoria nel cui centro sorgeva l'edificio in muratura a un piano che era
l'istituto del MOPR. Nei tempi passati questa doveva essere stata la residenza di campagna
di qualche signorotto o grosso commerciante di Mosca. In stile vagamente neoclassico,
l'edificio sorgeva ai margini di un folto bosco di abeti. Quando io vi arrivai, ospitava
una cinquantina di ragazzi dai tre ai quattordici anni, di varie nazionalità, rimasti
senza famiglia in seguito alle vicende della lotta antifascista.
Era la prima volta che restavo sola, e avevo voglia di piangere. Mi trattenni però fino a
sera. Quando fui nel letto sconosciuto mi prese una grande nostalgia, specialmente dei
giorni lontani trascorsi nella casa del nonno Pieri a Udine. Rivedevo il cortile a
settembre, pieno di bei grappoli d'uva, l'orto con il fico, i crisantemi, le galline, i
conigli della nonna, l'officina del nonno dove mi piaceva rovistare. Ripensando
all'officina dai vetri affumicati risentivo l'odore di ferro e di carbone acceso, che
pizzicava le narici. Rivedevo il nonno con gli occhiali sulla fronte, tutto sporco di
carbone, attizzare il fuoco nella fucina e accanto a lui il babbo che afferrava con grosse
pinze il ferro incandescente e lo batteva facendone sprizzare scintille.
Al principio non fu facile adattarmi, sia per l'ambiente del tutto nuovo, che per la
difficoltà della lingua, ma col passare dei giorni subentrò in me una sorta di
rassegnazione.
Il nostro istituto non conservava più alcuna traccia delle antiche comodità; il grande
salone centrale, trasformato in refettorio, era tetro, nella casa mancavano gli impianti
igienici e sanitari e la mattina per lavarci dovevamo fare la fila davanti a dei
rudimentali lavandini privi di acqua corrente.
Il luogo più accogliente di tutto l'istituto era chiamato Krassnij Ugolok (Cantuccio
rosso). Qui sulle pareti erano appesi manifesti propagandistici del Partito bolscevico e
della Unione comunista giovanile (Komsomol) raffiguranti paffuti e sorridenti udarnik in
tuta di lavoro, colcosiani e soldati sovietici in divisa; al posto d'onore era appesa la
bandiera rossa del nostro reparto di pionieri con al centro ricamato il profilo di Lenin.
Sui tavoli erano sempre disposti in bell'ordine riviste, giornali e qualche libro.
Specialmente d'inverno, nelle ore libere, andavamo lì a leggere e chi voleva poteva
giocare a dama, agli scacchi o a domino.
Il personale dell'istituto non era numeroso, due giovani vospitatieli (educatori), un
maestro di ginnastica, chiamato anche massovik (esperto del lavoro di massa) e il
direttore. La giornata si svolgeva per la maggior parte a scuola, tra lezioni, compiti e
giochi collettivi, con i maestri russi del piccolo villaggio. La persona con la quale
avevamo più dimestichezza e intimità era una giovane donna tedesca-sudeta, che si
chiamava Lisa e che faceva la cuoca.
Eravamo particolarmente contenti quando ci capitava il turno di servizio in cucina: Lisa
ci allungava sempre qualche buon boccone, un pezzetto di pane bianco intinto nel burro
fuso, uno zuccherino, e cose simili. La cucina era l'unico posto dove, oltre al calore
vero e proprio della grande stufa, si sentiva anche un certo calore umano. Eppure i nostri
educatori erano corretti, non li vidi mai alzare la mano contro qualcuno di noi e neanche
gridare o innervosirsi.
I bambini russi, in quel tempo, cominciavano ad andare a scuola all'età di otto anni.
Così io rischiai in un primo momento di essere inviata all'asilo, pur avendo già
frequentato la prima elementare, prima a Udine poi a Parigi, durante l'anno precedente. Ma
per fortuna avevo con me i risultati lusinghieri del test psicofisico eseguito a Mosca che
contribuirono alla decisione del tutto eccezionale di farmi frequentare la scuola. Il
maestro mi assegnò il posto sullo stesso banco di Zìpko, un terribile bambino bulgaro
che non stava mai fermo e mi faceva dispetti di ogni sorta. Nell'intervallo tra una
lezione e l'altra uscivamo nel corridoio e i più svelti occupavano il posto vicino a una
grande stufa rivestita di mattoni.
Tra me e le bambine c'era sempre però una sorta di diaframma. Soltanto il giorno che fui
acchiappata e, nonostante le lacrime, rapata a zero, compresi che la mia frangetta era la
causa di quella ostilità. Le altre bambine erano già da tempo senza capelli. Se da un
lato la perdita dei capelli mi umiliò profondamente, dall'altro mi permise di essere
accolta nella cerchia delle mie coetanee. Il mio compagno di banco Zìpko, non potendomi
più tirare i capelli, dovette sfogarsi con calci agli stinchi o macchie d'inchiostro
sulla schiena dello scolaro seduto davanti a noi.
Un giorno mi stupì il fatto che il maestro, interrogandomi, dicesse: «Compagna Anita
Schioppa». Anita era il mio nome, ma quello Schioppa non mi andava giù. Ero certa di
avere avuto a Udine un altro cognome. Doveva esserci sicuramente una ragione per quel
cambiamento, e la mamma forse me lo aveva spiegato, ma non me ne ricordavo più; anzi, non
ricordavo più neppure il mio vero cognome. Questo aggravava naturalmente il mio senso di
smarrimento e di precarietà.
Ricordo la prima visita della mamma, in pieno inverno. Arrivò con una slitta tirata da un
grosso cavallo, la stessa che portava all'istituto le provviste dalla città. Quel
rivederci, dopo tre mesi di separazione, fu un avvenimento inquietante. Io non capivo più
una parola di italiano e d'altra parte la mamma non capiva nulla di quello che io le
balbettavo in russo. Alla fine ci mettemmo tutte e due a piangere. Forse lei mi parlò del
babbo che era stato condannato a cinque anni di confino e l'aveva scampata bella, grazie
all'amnistia del decennale fascista, altrimenti gli sarebbero toccati anni e anni di
carcere. Ma questo lo seppi più tardi. In quel primo incontro non fu possibile, tra i
singhiozzi, che scambiarci qualche monosillabo. Tra l'altro la mamma piangeva nel trovarmi
con la testa rapata. Mi fu dato il permesso di accompagnarla fino alla ferrovia. Erano
appena le quattro del pomeriggio, ma tutto intorno era buio profondo. La slitta scivolava
liscia nel silenzio ovattato dei campi coperti di neve e a tratti costeggiava la nera
foresta di abeti. Nel cielo brillava già qualche stella. Malgrado il freddo rigido noi
eravamo al calduccio, sprofondate nelle pelli di agnello che i carrettieri portano sempre
sulle slitte per ripararsi in caso di bufera. In quel grande silenzio e grazie a quel
piacevole tepore, ci sentimmo di nuovo madre e figlia. Certo la mamma non poteva venirmi a
trovare spesso, dato che lavorava e che il nostro villaggio, così lontano dalla ferrovia,
era scomodo da raggiungere, specialmente d'inverno. Il mio caso d'altronde non era il più
triste. Tra le mie compagne ve n'erano che non avevano mai conosciuto i genitori, altre li
avevano persi in tragiche circostanze. Alle bambine cinesi dai nomi Fi-fi, Li-li, Tuia,
Maia, erano stati assegnati dei cognomi russi. Esse non conoscevano nulla della loro
origine, non sapevano neppure esattamente l'anno di nascita, senza parlare poi del mese,
del giorno, e dei genitori. Anch'io avevo dimenticato il giorno del mio compleanno, ma
potevo sempre chiederlo alla mamma che era a Mosca e che prima o poi avrei rivisto. Anche
Emmy ed Elsy Stenzer, le gemelle tedesche mie coetanee, avevano la mamma a Mosca. Il loro
babbo, invece, deputato comunista del Reichstag, era stato assassinato dai nazisti. Le mie
compagne, qualunque fosse la loro origine, parlavano il russo e anche a scuola
l'insegnamento si svolgeva in lingua russa. Così in breve imparai a parlarlo anch'io,
dimenticando il francese, ultima lingua da me parlata, e il friulano-veneto che avevo
appreso in famiglia. Alla fine dell'anno scolastico fui proclamata udarnik dello studio.
Gli udarnik erano i lavoratori d'assalto dell'industria e venivano portati d'esempio a
tutti i giovani. Non fu dunque senza orgoglio che appuntai sulla maglietta il distintivo
di udarnik. Ora che le lezioni erano finite, la scuola chiusa e il sole primaverile
diffondeva il suo tepore, passavamo la maggior parte della giornata all'aperto, in gite
per i prati, lungo i ruscelli e ai margini della foresta, curiosando nelle stalle della
fattoria, dove si allevavano galline e conigli, qualche mucca e alcuni maiali. Giocavamo a
mosca cieca, a guardie e ladri, a campana e a saltare con la corda. Durante l'estate si
diffuse la notizia del nostro trasferimento in una grande città, in un palazzo costruito
apposta per noi. Quando giunse l'ordine di partire, non avevamo che da raccogliere le
piccole cose inutili che ognuna di noi custodiva sotto il cuscino. Ci mettemmo i vestiti
della festa, gonna scura e camicetta di cotone bianca, e di buon mattino, incolonnati, ci
avviammo a piedi verso la stazione ferroviaria. Qui, su un binario morto, era ad
attenderci un vagone passeggeri nel quale ci sistemammo. Dopo un giorno e una notte di
viaggio giungemmo a Ivanovo, città tessile a 316 Km a nord-est di Mosca. Alla stazione
ferroviaria di Ivanovo eravamo attesi dagli scolari e dalla banda musicale della città.
Nella radiosa mattina d'estate le bianche camicette ed i fazzoletti rossi dei pionieri
schierati in ordine sul marciapiedi spiccavano allegramente. L'ingresso in stazione del
nostro treno fu accolto dallo sventolio di verdi ramoscelli. Fummo sorpresi ed eccitati da
quella festosa accoglienza. Le note degli inni e delle marce mi diedero un'allegria
insolita. Ci mescolammo ai ragazzi di Ivanovo che ci offrivano i loro ramoscelli verdi e
ci osservavano incuriositi. Oggetto di particolare curiosità furono i ragazzi e le
ragazze cinesi; Nilly, il negretto americano da poco giunto nel nostro collettivo, fu
addirittura portato in trionfo. Percorremmo la città a bordo di grossi camions. Gli
edifici in muratura presto finirono e ai due lati della strada apparvero le solite casette
russe a un piano, costruite con grossi tronchi d'abete e circondate da un basso steccato
che delimitava un orticello. Il nostro istituto sorgeva alla periferia della città a
ridosso di una verde foresta di abeti; dalla quale il posto traeva il nome, Serebrianij
Bor (Foresta d'Argento). Era un edificio moderno in muratura a due piani. Dal suo corpo
centrale, la cui facciata ci stupì per l'effetto delle sue vetrate verticali, partivano
due bracci. Nello spazio antistante l'ingresso principale, al centro di aiuole ben curate,
si trovava una fontana di forma circolare con in mezzo la statua in bronzo di Mercurio.
Sulla facciata principale dell'edificio si poteva leggere nell'angolo a sinistra «Prima
Casa Internazionale d'Infanzia Elena Stassova». Alla cerimonia inaugurale il direttore
dell'istituto ci disse tra l'altro che la compagna Stassova era una vecchia bolscevica
d'origine polacca, allieva di Lenin fin dai primi anni della fondazione del partito
bolscevico, e sua collaboratrice durante la rivoluzione d'Ottobre, alla quale si doveva la
creazione di quel moderno istituto che ci avrebbe d'ora in poi ospitati. Malgrado l'età
avanzata, la Stassova era una dirigente della Internazionale comunista e Presidentessa del
Soccorso Rosso (MOPR), con sezioni in molti paesi. Se i ragazzi, vittime della lotta di
classe e della reazione fascista, avevano ora una casa accogliente e moderna, ci fu detto,
in gran parte era merito del MOPR e della compagna Stassova, ma era anche merito dei
lavoratori sovietici che generosamente avevano sottoscritto per il Soccorso Rosso. Tra le
offerte più generose, vi erano state quelle dei lavoratori tessili di Ivanovo, ed era per
questo che il primo istituto per i figli dei rivoluzionari di tutto il mondo era sorto
nella loro città. Il territorio dell'istituto era recintato e nessun estraneo poteva
entrarvi. Tutto era nuovo e bello, le finestre e le porte verniciate di fresco, con colori
chiari. Nel vestibolo vicino alla statua in gesso bianco di Lenin, raffigurato con la mano
destra alzata, verdeggiavano piante ornamentali; qua e là, nei corridoi c'erano sedie e
qualche divanetto; tutto insomma era molto accogliente per noi che venivamo dal grigio e
disadorno edificio di Vaskino. Pero, essendo in piena estate, passavamo la maggior parte
del nostro tempo all'aperto. Vestite con una maglietta di cotone e un paio di calzoncini,
godevamo di una grande libertà di movimento e avevamo molto spazio per noi. Ben presto
però furono dati un ordine e una disciplina precisi alla nostra giornata. Fino al 1°
settembre quando si sarebbe iniziato l'anno scolastico, il nostro regolamento doveva
uniformarsi a quello in uso nei campi di pionieri sovietici, che a sua volta era ispirato
al modello della vita militare. Fummo divisi a seconda dell'età in tre reparti: quello
dei grandi, comprendente ragazzi e ragazze dai dodici ai quattordici anni, uno intermedio,
dai dieci ai dodici e quello dei piccoli dagli otto ai dieci anni. Rispettando il
principio della «democrazia dal basso», il reparto in assemblea plenaria eleggeva per
alzata di mano il proprio capo-reparto e il suo vice. Questi due eletti, insieme con uno
dei nostri compagni più grandi e più qualificati per l'attività sociale di massa,
formavano lo stato maggiore dell'istruttore anziano. I comandi di reparto obbedivano al
Comandante del campo. Il nostro comandante generale era Kolia, un giovane comunista,
maestro di ginnastica, specializzato come «organizzatore di massa». La nostra vita era
regolata a suon di tromba. Un pioniere suonava la sveglia, l'adunata e il resto. Le note
dei segnali erano sempre più o meno le stesse, ma sapevamo che al primo segnale dovevamo
saltare giù dai letti e prepararci per la ginnastica in cortile, che iniziava
puntualmente al secondo segnale. Kolia era sempre molto scrupoloso e non tralasciava mai
di farci fare una corsa prima e dopo gli esercizi ginnici: diceva che serviva a sciogliere
i muscoli. Al terzo segnale, dopo aver riassettato il letto e fatto le pulizie personali,
eravamo pronti per la cerimonia dell'alzabandiera. Questa cerimonia che si ripeteva tutte
le mattine e che dava l'avvio ufficiale alla giornata, aveva un carattere solenne e anche
Kolia, pur essendo un uomo adulto, vi interveniva con il fazzoletto rosso al collo. Al
segnale di tromba ci schieravamo per quattro dietro al nostro capo-reparto, davanti
all'asta della bandiera. Kolia dava l'«attenti» e a turno i capi-reparto facevano
rapporto, segnalando il numero dei presenti e degli assenti. La bandiera rossa saliva
lentamente sul pennone e noi la salutavamo portando la mano destra tesa all'altezza della
fronte. Era un momento solenne e commovente. Quando la bandiera aveva raggiunto la cima
del pennone, Kolia ordinava il «riposo» e leggeva il programma della giornata, le
disposizioni per i lavori, per le gite, i giochi dei reparti, i nomi dei pionieri
distintisi e di quelli ammoniti ed infine si rompevano le righe per andare alla prima
colazione. Dopo la prima colazione dovevamo sbrigare alcune faccende, come portare la
legna in cucina, pelare le patate, strappare le erbacce nelle aiuole dei fiori o
nell'orto, pulire le stalle, spazzare il cortile, e cose simili. Verso le dieci il reparto
al completo andava a fare una gita o si dedicava ad esercizi di atletica leggera. Al
pomeriggio imparavamo giochi, canzoni, ascoltavamo conferenze e si riuniva il comitato di
redazione del giornale murale del campo. Dopo cena, nelle ultime luci del lungo crepuscolo
nordico, si svolgeva la cerimonia dell'ammaina bandiera e subito dopo veniva suonato il
silenzio. Eravamo già nelle camerate vicino ai nostri letti quando nel buio morivano le
ultime note della tromba. Una delle manifestazioni più caratteristiche dei campeggi dei
pionieri era quella del kostior (il falò). Dopo le marce o alla fine delle «manovre»,
nelle quali erano impegnati tutti i reparti divisi in rossi e azzurri, mentre ci
riposavamo in mezzo alla foresta o in radure, accendevamo il falò. Ci sedevamo intorno al
fuoco e parlavamo, ascoltavamo i grandi, cuocevamo le patate nella cenere e cantavamo gli
inni dei pionieri e dei giovani comunisti. Nell'imminenza dell'apertura dell'anno
scolastico che puntualmente aveva luogo il 1° settembre di ogni anno, organizzammo
appunto un grande kostior a chiusura del campeggio, nelle vicinanze delle rive del fiume
Talka ai margini di un boschetto di betulle. Quella volta restammo intorno al falò fino a
tardi e nel buio il fuoco crepitava allegro, sprizzando alte scintille. Lo sentivamo come
un amico che ci proteggeva dalI'ostilità della foresta notturna. Neanche in quei momenti
però mancava la lezione politica. In quell'occasione Kolia, il nostro vogiati (capo,
guida), ci parlò a lungo del luogo in cui eravamo riuniti. «Noi oggi possiamo riunirci
qui tranquillamente - ci disse - a parlare delle cose che interessano la gioventù
comunista e la nostra patria, perché nel nostro paese ha trionfato la rivoluzione
proletaria. Essa ha tolto il potere ai capitalisti e all'Okhrana dando libertà e
benessere a tutti i lavoratori. Proprio nel luogo dove ora ci troviamo, il 13 giugno del
1905 la polizia zarista consumò un sanguinoso eccidio di operai tessili di Ivanovo
Vosnessiensk, scesi in sciopero ad oltranza. Riuniti qui in comizio gli operai chiedevano
migliori condizioni di vita e di lavoro. La polizia sparò a tradimento e sul terreno
rimasero 60 morti e centinaia di feriti. Il sangue operaio tinse di rosso il fiume che
scorre qui sotto e da allora lo chiamarono il Talka Rosso». Poi Kolia ci parlò dello
sforzo immane che il popolo russo stava compiendo per l'industrializzazione del paese e
per portare l'agricoltura ad un livello più alto. Data l'ora e il luogo, le sue parole ci
toccavano più del solito ed eccitavano in noi uno sdegno profondo contro i nemici interni
ed esterni della Unione Sovietica. Fu in quell'occasione che sentii parlare per la prima
volta di Pavlik Morosov, di cui il nostro reparto di pionieri portava il nome e che in
tutte le occasioni solenni veniva citato come esempio di abnegazione e di dedizione alla
causa comunista.
La storia di Pavlik
Morosov
Pavlik Morosov era nato a Gherassimovka, un paesino negli Urali del Nord.
Il padre era lo starosta (sindaco) del villaggio e ospitava nella sua isba un giovane
comunista inviato dal partito a curare le consegne dei cereali e ad incitare i contadini a
formare la comunità agricola - il colcos. Pavlik divenne amico e collaboratore del
giovane forestiero che gli parlava dei trattori, «i cavalli d'acciaio», che avrebbero
senza fatica rotto le dure zolle di quella terra aspra. Pur essendo ancora un ragazzetto
di dodici anni Pavlik Morosov conosceva la dura fatica del contadino. Le parole del
forestiero lo facevano sognare ed egli vedeva campi sterminati di frumento ondeggiare al
vento della breve e calda estate. Ma intanto i contadini dovevano consegnare il grano che
avevano messo da parte. A dodici anni Pavlik fu chiamato a testimoniare in un processo
pubblico contro il proprio padre, accusato di avere fornito carte d'identità ad alcuni
figli di kulaki esiliati nella regione, con le quali essi potevano raggiungere le città e
lavorare nelle fabbriche. Pavlik sostenne l'accusa: «Sì, mio padre nottetempo si è
visto con degli estranei». Questo bastò per condannare il padre. Dopo di che fu lui il
capofamiglia che stava dietro l'aratro e bagnava di sudore la terra avara. Intanto egli
continuava a scovare nascondigli dove i contadini più retrivi tenevano celato il
frumento. Per vendetta Pavlik venne ucciso assieme al suo fratellino minore, in un bosco
nelle vicinanze di Gherassimovka. Il valore di Pavlik era stato certamente grande e il
feroce delitto di cui rimase vittima ci indignava. Io però mi chiedevo se avesse agito
bene verso il padre. Quando, più tardi, ebbi occasione di esprimere alla nostra
istitutrice questa mia perplessità, lei mi rispose che proprio in questo consisteva la
grandezza di Morosov: il suo attaccamento alla causa comunista era stato superiore ai
vincoli del sangue. Perciò lo dovevamo onorare.
I nemici del popolo
Alla fine d'agosto del '33 il nuovo istituto era quasi al completo,
ospitando un centinaio di bambine e bambini dagli otto ai quattordici anni, senza contare
una trentina di piccoli che facevano vita a parte nell'ala adibita all'asilo d'infanzia.
Appartenevamo a ventinove nazionalità diverse, anche se la maggior parte eravamo europei:
polacchi, romeni, bulgari, tedeschi, jugoslavi, ungheresi, greci, italiani, spagnoli, una
bambina inglese e una francese; ma non mancavano cinesi, giapponesi, coreani, indiani,
pakistani, palestinesi, americani e un negretto. I più numerosi erano i cinesi, i
tedeschi, i bulgari, i polacchi e anche gli italiani. La lingua comune era il russo e le
nostre amicizie non erano dettate dal criterio delle affinità nazionali, ma nascevano
spontaneamente sulla base di reciproche inclinazioni e simpatie. Il caso di Assia, una
bimba palestinese, rimase come un punto nero del nostro collettivo. Noi sapevamo che la
persecuzione degli ebrei era un crimine abietto, condannato da tutti e degno del regime
zarista, vale a dire di ciò che di più negativo e deteriore si poteva pensare. Ma
personalmente non associavo le due cose: essere palestinese ed ebreo. Per un certo tempo
dormii nella stessa camerata con Assia, la bambina palestinese che era oggetto dello
scherno di noi tutte. Non saprei dire come fosse cominciato quell'atteggiamento e non mi
sentirei di escludere una qualche fuggevole e maliziosa istigazione da parte del personale
dell'istituto; fatto sta che per un certo periodo noi fummo con Assia proprio cattive. Il
suo carattere era schivo e riservato e il suo modo di reagire passivamente alle nostre
provocazioni inaspriva ancora di più quella cattiveria collettiva. Non durò molto, e
almeno per me l'antipatia che allora sentivo per Assia non aveva alcuna cosciente radice
razziale. Soltanto più tardi mi venne l'idea che Assia poteva essere ebrea, quando pensai
che suo fratello si chiamava Abramo e che questo era il nome comunemente attribuito, nelle
barzellette, agli ebrei. Per il 1° settembre le aule dell'istituto erano pronte ad
accoglierci per l'anno scolastico. All'interno dell'istituto funzionavano sette classi,
quattro elementari e tre della media inferiore. Commossi prendemmo posto sui banchi
verniciati di giallo e di nero. Io facevo la seconda elementare con un giovane maestro che
veniva dalla città di Ivanovo. Nel 1933 era ancora in vigore il calendario introdotto
dopo la rivoluzione d'Ottobre, che, abolita la settimana consueta, considerava lavorativi
i primi cinque giorni del mese mentre ogni sesto giorno era festivo. I giorni erano
chiamati primo giorno lavorativo, secondo giorno lavorativo, e così di seguito, mentre
ogni sesto giorno era chiamato giorno libero. A scuola era in vigore l'ora accademica di
45 minuti. Ogni ora accademica era seguita da 10 o 15 minuti di ricreazione, durante i
quali gli scolari erano liberi di restare in classe o di uscire nei corridoi a patto di
essere puntuali al segnale di inizio della lezione successiva. Non ci furono mai imposte
posizioni obbligatorie per tutti come «braccia conserte» ecc., ma l'insegnante in linea
di massima doveva controllare che la posizione degli allievi fosse igienicamente corretta.
Durante gli anni di studio non mi è mai capitato di vedere infliggere a scuola punizioni
corporali o comunque reagire con violenza fisica contro gli scolari. Quando raccontai in
classe che a Parigi ero stata percossa dalla maestra con la bacchetta sulle mani, suscitai
unanime indignazione e scandalo. Il primo giorno di scuola il maestro ci fece fare un
componimento ispirato a un disegno del libro di lettura. Il disegno riproduceva un
pastorello che suonava lo zufolo appoggiato al tronco di un albero. Intorno a lui si
vedeva il gregge e in lontananza un vasto prato. Non sapevo come cominciare e fui molto
contenta quando, dopo un po' di meditazione, mi accorsi che nella mia testa si faceva
largo una frase sentita e risentita: «Sotto la guida... sotto la guida...». Cominciai:
«Sotto la guida del pastore il gregge...». Non so se il maestro si accorse che quella
frase mi era stata suggerita dalla ricorrente fraseologia dei discorsi ufficiali: «Sotto
la guida del partito il popolo...». Ma quell'espediente letterario non fu apprezzato e,
con mia grande delusione, il componimento fu letto come esempio da non seguire. Le materie
di studio cambiavano a seconda della classe: lingua materna (russo), aritmetica, storia e
geografia, per le classi elementari. Poi alle medie, algebra, geometria, trigonometria,
fisica, chimica, nonché storia e geografia. Molta importanza veniva attribuita nel nostro
istituto alle ore dedicate al lavoro manuale, chiamata «l'ora del lavoro pratico». Si
andava in falegnameria o in officina meccanica, e qui i rispettivi maestri ci davano con
la massima naturalezza in mano la pialla, la sega o la lima. Nel complesso le bambine non
erano affatto indietro in questi lavori rispetto ai maschi; le differenze erano solo
individuali. Per le bambine era in più organizzato un circolo di cucito e di ricamo, ma
questa attività allora non faceva parte dei programmi educativi scolastici, ed era solo
facoltativa. In genere si notava una certa tendenza a mascolinizzare le bambine.
L'«emancipazione della donna» e l'uguaglianza tra i sessi erano perseguiti con
l'apprendimento di lavori tradizionalmente maschili. Sentivamo di riflesso che era molto
più onorevole adoperare la pialla e la lima che non ricamare o rammendare. I nostri libri
di testo erano aggiornati secondo le esigenze del Partito bolscevico, e in genere lo
stesso testo, approvato dal Commissariato dell'istruzione pubblica per una determinata
classe, era valido in tutto il territorio dell'Unione Sovietica, da Arcangelo a
Vladivostok, da Mosca al più sperduto villaggio della Siberia. I libri duravano molto e
quelli delle scuole medie inferiori e superiori, di solito ben rilegati, passavano di anno
in anno da uno studente all'altro. Gli studenti a fine anno li rivendevano a prezzi
convenuti agli alunni della classe inferiore facilitando a se stessi l'acquisto dei nuovi.
Non è vero che i libri di scuola fossero distribuiti gratuitamente. Spesso mi capitava di
vedere nelle classi medie scolari che, non avendo avuto la possibilità di procurarseli, o
per la scarsità dei libri, o per effettiva mancanza di mezzi (pur essendo i libri
scolastici relativamente a buon mercato), li chiedevano in prestito ai più fortunati. A
noi dell'istituto i libri venivano distribuiti gratuitamente, poiché eravamo senza
famiglia, ma la nostra amministrazione li doveva acquistare come i privati. I testi erano
rigorosamente ispirati all'ideologia ufficiale del regime. Questa ideologia era molto
semplice e si articolava in alcune massime che avevo ben fisse nella mente e sentivo
continuamente ribadite: 1. alla base del progresso e del movimento storico sta la lotta di
classe; 2. il dominio di una classe sull'altra è determinato dal possesso dei mezzi di
produzione, la proprietà privata è l'origine di tutti i mali e di tutte le discordie; 3.
le condizioni materiali determinano il pensiero, l'arte e i sentimenti, ovvero le
condizioni economiche di una classe determinano la sua ideologia di classe. Dalla rivolta
di Spartaco alla rivoluzione d'Ottobre, tutto era visto quale conseguenza della lotta tra
classi economiche contrapposte. Le manifestazioni di pensiero o le lotte che non avessero
evidenti basi materialistiche erano considerate fittizie. Nei programmi delle scuole medie
si faceva un rapido e superficiale riferimento alla storia del cristianesimo, quasi
nessuno alle altre religioni. Così pure il pensiero filosofico di ogni epoca era molto
sbrigativamente liquidato con apprezzamenti ispirati all'infallibile visione
materialistica della storia. Per i primi due anni scolastici la nostra direzione si
sforzò di assicurarci i normali corsi delle sette classi all'interno dell'istituto; ma,
appena nelle vicinanze fu ultimata una nuova scuola pubblica per i bambini della zona,
anche noi, divisi in gruppi di quattro o cinque per classe, cominciammo a frequentarla
mescolati ai ragazzi sovietici. Il nostro contatto con gli scolari e bimbi russi si
riduceva purtroppo esclusivamente alle ore scolastiche ed erano perciò rapporti molto
limitati. L'accesso di ragazzi russi al nostro istituto normalmente non era consentito.
Soltanto in qualche ricorrenza festiva erano invitati gli alunni più meritevoli a scuola
e più attivi nel lavoro di cellula del Komsomol. La nuova scuola era situata in un grande
edificio di quattro piani. L'intero ciclo di istruzione media vi si svolgeva in due turni.
Al mattino la scuola era affollata di centinaia di scolari delle classi elementari, fino
alla quarta compresa, mentre dalle quattordici in poi era la volta delle classi della
media inferiore (dalla quinta alla settima e dall'ottava alla decima), che concludeva
l'istruzione media superiore. Dopo di che i giovani che ne avevano i requisiti e le
possibilità, potevano accedere, previo concorso, alle facoltà universitarie. Di solito,
la prima selezione avveniva alla fine della settima classe. Praticamente a questo punto le
classi si dimezzavano in quanto una buona parte degli scolari intenzionati a proseguire
gli studi, optava per le scuole tecniche e specializzate o magistrali. All'interno
dell'istituto la nostra vita era regolata come un orologio e si svolgeva uniforme e
serena. Il suono di un campanello elettrico ci dava la sveglia, al mattino; lo stesso
campanello ci chiamava in palestra per la ginnastica e ci segnalava l'ora della prima
colazione, l'inizio della scuola, la seconda colazione, la merenda, i compiti, la cena e
infine l'ora di andare a letto. Il nostro vitto era sano e sufficiente (anche durante i
mesi della guerra di Finlandia, quando nei negozi di Ivanovo non si vendeva che pane nero
e la nostra scuola fu trasformata in ospedale per i soldati feriti, a noi non mancò il
necessario). Dal lato igienico ogni allievo dell'istituto era seguito attentamente dalla
dottoressa Maria Mikhailovna che faceva parte del personale dell'istituto. Essa ci
sottoponeva a visite periodiche e redigeva una cartella clinica per ognuno. Una volta
all'anno ci sottoponeva a una visita generale, compresi i raggi, l'analisi del sangue, e
il resto. I soggetti predisposti alle malattie croniche o alla tbc erano curati e seguiti
in modo particolare. Toccò purtroppo a me il triste onore di inaugurare l'infermeria
interna dell'istituto, nella quale di solito venivano isolati i bambini ammalati, salvo i
casi gravi per i quali la dottoressa disponeva il ricovero nell'ospedale cittadino. Il mio
invece fu un caso benigno e appena accusai il mal di denti, la dottoressa mi diagnosticò
gli orecchioni. L'infermeria consisteva in una grande stanza divisa da vetrate in quattro
vani da un letto ciascuno. Vi potevano accedere soltanto la dottoressa, l'infermiera e
l'inserviente. Durante gli anni della mia permanenza a Ivanovo ci fu un solo caso di morte
tra gli allievi, Jusik, un bimbo polacco, fratello della mia amica Vera Volkova, che morì
di setticemia. Eravamo in pieno inverno e faceva particolarmente freddo. Il giorno che lo
accompagnammo al cimitero il termometro segnava 40° sotto zero. Il cielo era plumbeo, il
nostro respiro formava uno strato di brina sulle ciglia e sul bavero del cappotto; i piedi
e le mani gelavano. Quando arrivammo alla fossa i becchini non avevano ancora finito di
scavare; la terra gelata sembrava granito e resisteva ai colpi di piccone. Ogni pezzo
cadeva e rotolava come pietra. Dopo una lunga attesa finalmente si poté calare la bara e
ricoprirla con quei pezzi di terra gelata che rimbombavano sul coperchio. In generale il
freddo intenso, pur durando quasi sei mesi, non ci spaventava. Nell'istituto portavamo un
semplice vestitino di lanetta e le calze di cotone, niente maglie di lana, ma solo una
canottiera di cotone direttamente sulla pelle. Salvo pochi giorni di freddo eccezionale,
quando il termometro scendeva a 40° sotto zero, uscivamo sempre all'aria aperta per
un'ora o due. Per questo avevamo cappotti pesanti, con l'imbottitura di cotone, berretti
di pelo o di lana che ci coprivano anche le orecchie, e ai piedi i cosiddetti valienki
(stivali di feltro), indispensabili e insostituibili fino ai primi sintomi del disgelo. I
geloni ci erano sconosciuti. Gli slittini, gli sci ed i pattini rappresentavano i nostri
divertimenti invernali. L'istituto ne aveva in dotazione un certo numero e li usavamo in
comune. Il sabato e la domenica avevamo altri divertimenti, come il cinema e, qualche
volta, il teatro o il circo. Ogni domenica pomeriggio, nella nostra sala cinematografica,
veniva proiettato un film, preceduto dal cine-giornale. Di solito erano films sovietici
dell'epoca, spesso di argomento storico. Avemmo la possibilità di vedere quasi tutti i
più grandi successi della cinematografia sovietica, da La corazzata Potiomkin di
Eisenstein al Circo di G. Alexandrov, da Verso la vita di N. Ekk al Suvorov di Pudovkin,
come anche le trilogie sulla vita di Massimo Gorki e la trilogia su Lenin e la rivoluzione
d'Ottobre. Qualche rara volta furono proiettati anche dei films americani: nel 1936 ebbe
grande successo Tempi moderni di Chaplin. Tra i films americani il governo sovietico
acquistò, oltre ai principali di Chaplin, come La febbre dell'oro, Tempi moderni e Luci
della città, anche qualche film musicale. Qualche volta, il sabato sera, i più grandi
venivano accompagnati ad una rappresentazione teatrale. A Ivanovo funzionavano
regolarmente un teatro stabile, un teatro drammatico, un circo stabile e una sala adibita
a spettacoli di varietà e operetta. Autori russi e classici stranieri tenevano il
cartellone per anni: Puskin, Ostrovski, Gorki, Cekhov, Molière, Goldoni. Tra i giovani
era molto popolare la commedia del Goldoni Arlecchino servo di due padroni, che veniva
spesso rappresentata per le scolaresche e le organizzazioni di pionieri. Abitualmente da
Mosca, da Leningrado, da Kiev, giungevano compagnie di spettacoli lirici e venivano
rappresentate opere russe e italiane, come Aida, Rigoletto, La Dama di Picche, Il principe
Igor. Le musiche del Rigoletto così semplici e orecchiabili erano popolarissime e si
sentivano fischiettare per strada. Tra il pubblico di Ivanovo, composto in gran parte da
operai delle industrie tessili, godevano molta popolarità le operette (forse l'unica
forma di spettacolo brillante) come Il Cavallino Bianco, La vedova allegra, La Bajadera,
Kholopka e Zingaro barone. Teatri e cinematografi erano sempre pieni e i biglietti si
dovevano prenotare molti giorni prima dello spettacolo. Lo stesso avveniva per il Circo
stabile, il cui edificio a quell'epoca era il più grande d'Europa, come pure per gli
spettacoli chiamati konzert, ma composti da numeri di vario genere tenuti insieme da un
presentatore-comico. Andare a teatro per noi era sempre un grande avvenimento, soprattutto
quando si usciva di sera. La città, i passanti, il pubblico del teatro, e al ritorno le
strade buie e deserte, ci suggerivano l'immagine di un mondo affascinante. I nostri
contatti con la popolazione della città erano tuttavia fugaci o «ufficiali», come
quando eravamo condotti a visitare la grande fabbrica tessile «Melangevi Kombinat».
Qualche volta il 1° maggio partecipavamo incolonnati dietro gli striscioni rossi
dell'istituto alla sfilata della popolazione per le vie della città. Per l'occasione
indossavamo i vestiti estivi anche se faceva ancora freddo e ai bordi delle vie c'era
ancora ammucchiata la neve. L'opera educativa nei nostri confronti si ispirava ai criteri
dell'epoca staliniana, l'esaltazione del passato rivoluzionario e delle conquiste del
socialismo, la devozione incondizionata al Partito, al Governo e allo Stato sovietico.
Imparando i principi della infallibile legge del materialismo storico e del socialismo
scientifico, dovevamo crescere leali cittadini di una nuova società e la nostra prima
qualità doveva essere la devozione e la fedeltà alla causa del Partito comunista
bolscevico, del governo sovietico e del grande capo Stalin. Quest'azione era molto
facilitata essendo noi, nell'istituto, sottratti a qualsiasi influenza estranea
all'ideologia ufficiale, come avrebbe potuto essere, e come era, per i giovani sovietici,
l'influenza della famiglia, delle tradizioni, delle pratiche religiose e del folklore. Noi
eravamo liberi da queste influenze e perciò più duttili nelle mani di chi voleva
plasmarci come i prodotti puri dell'era di Stalin. Le attrezzature moderne dell'istituto,
il relativo benessere, il clima di simpatia da cui eravamo generalmente circondati erano
l'involucro esterno che facilitava questa educazione. Non mancarono tentativi, per lo più
non completamente riusciti, d'impartirci anche un'istruzione specifica in rapporto alla
nazionalità d'origine. In quest'opera fu favorito il gruppo tedesco che ebbe in maniera
abbastanza continuativa e organica la possibilità di conservare e arricchire la
conoscenza della lingua tedesca e di apprendere nozioni generali sulla Germania. Del
personale didattico dell'istituto faceva parte, fino alla sua misteriosa scomparsa
avvenuta nel '38, la compagna Traumann che conosceva bene il tedesco, come pure il
francese e l'inglese. Oltre a tenere regolarmente un corso di tedesco, la Traumann parlava
regolarmente questa lingua con gli allievi tedeschi. Essa diresse anche un corso di
francese, al quale partecipavano, insieme con l'unica francese dell'istituto, tutti gli
allievi italiani. Per qualche tempo anche il gruppo cinese ebbe un'insegnante della
propria lingua. Era un giovane comunista cinese proveniente da Mosca, ma anche lui
scomparve, come la compagna Traumann, tra la fine del '37 e i primi del '38. Si mormorava
tra noi che fossero dei trozkisti. Nell'autunno del '34 arrivò ad Ivanovo Angelina
Ciufoli, insieme al fratello Ferrero. Mi dissero che era arrivata una nuova bambina
italiana e corsi a cercarla. La trovai per le scale, piangente. Le rivolsi qualche parola
in italiano e la sua espressione si addolcì un po'. Sia lei che il fratello erano
denutriti e malaticci. Seppi che nell'esilio di Marsiglia erano vissuti tra le più grandi
privazioni; in seguito all'arresto, durante una missione in Italia, della loro mamma,
erano rimasti praticamente abbandonati. (La mamma di Angelina, Adele Bei, fu poi
condannata dal Tribunale Speciale a diciotto anni di reclusione). Per vario tempo a
Ivanovo vi furono anche altri italiani, tra i quali Aldo Ercoli (figlio di Togliatti e di
Rita Montagnana, che restò con noi durante la guerra di Spagna), Luigi Gallo (figlio
maggiore di Luigi Longo), Otello (figlio dell'attuale senatore comunista sardo Luigi
Polano), Vinca Berti (suo padre per un certo tempo fu in URSS, mentre la madre, Maria
Baroncini, si trovava al confino in Italia), Olia Bianco (figlia di Vincenzo Bianco, anche
lui inviato in Spagna e di madre russa), Giuliano Peri (Gherardi), Enrico Lanfranconi
(figlio dell'ex senatore comunista di Pavia, Farina), Lissia, di genitori istriani, e
Teresa Mondini, figlia di comunisti imolesi residenti in Francia, che era la più grande
di noi e quella che meglio conservava la conoscenza dell'italiano. Raramente sentimmo
parlare dell'Italia. Il nostro gruppo non aveva una vita autonoma. Solo in occasione di
qualche visita di parenti o di connazionali scambiavamo qualche parola in italiano. Il
permesso di visitarci veniva dato ai nostri parenti dal MOPR e soltanto in occasione delle
grandi festività come il 7 novembre, anniversario della rivoluzione d'Ottobre, il 1°
maggio, festa del lavoro, e Capo d'Anno. Le ricorrenze più importanti erano appunto
queste, poi per importanza veniva la celebrazione dell'anniversario della fondazione
dell'Armata Rossa, il 23 febbraio e, il 18 marzo, l'anniversario della Comune di Parigi,
prototipo della rivoluzione proletaria, dalla quale, ci si diceva, aveva tratto
ispirazione la rivoluzione d'Ottobre. Durante l'estate poi si festeggiava la giornata
degli sportivi e quella dell'aviazione. In occasione delle grandi feste la direzione
liberava qualche stanza nella villetta degli insegnanti e organizzava un refettorio dove i
genitori presenti potevano mangiare con i loro figli, lontani dagli occhi dei meno
fortunati. Quando la mamma ripartiva lasciandomi un pacchetto di biscotti e caramelle,
verso sera, non vista, andavo in camerata prima delle mie compagne. Dividevo i dolci in
parti uguali, quanti erano i letti, compreso il mio, e li nascondevo sotto i cuscini. Poi
arrivavo in camerata assieme alle mie compagne, come se niente fosse. La sorpresa veniva
ben presto scoperta e tutte assieme assaporavamo quella piccola gioia. L'abitudine di
dividere con le compagne di camerata i dolci dei pacchi era nata spontaneamente, ma
divenne una regola alla quale non si doveva derogare, come quella forse ancora più
sentita di non fare la spia. Danira era una ragazza bulgara, dal carattere prepotente e di
grande forza fisica. Ci fu un periodo durante il quale essa esercitava su alcune sue
coetanee un forte ascendente. Con gusto dispotico Danira soggiogava due o tre ragazze
facendosi servire e ubbidire ciecamente. Una volta ricevette un grosso pacco di dolciumi
che tenne nascosto nel comodino senza dare nulla a nessuno. La sera nel buio la sentivamo
rovistare e mangiare. Danira era molto forte e le bambine la temevano, ma una mattina
reagii ad una sua sgarberia e la mandai a gambe all'aria davanti all'intera camerata. Essa
cominciò a urlare, ma era l'ora della ginnastica e la nostra istitutrice intervenne:
«Secondo segnale! Tutte in palestra!» Per un certo periodo ebbi come compagne di
camerata alcune bambine cinesi e precisamente Fi-fi, Maia e Li-li. Si assomigliavano
tutte, con larghe faccie e capelli lisci neri e lucenti. Esse non sapevano assolutamente
nulla della propria origine e perciò non conoscevano neppure esattamente la propria età
e il giorno di nascita. I cinesi che per la maggior parte portavano cognomi russi, non
avevano mai visite o notizie dei genitori. Fu una nostra idea insistere che anche Fi-fi,
Li-li e Maia scegliessero un giorno dell'anno a loro piacimento, per festeggiare insieme
il loro compleanno. Così fecero, scegliendo per lo più il 1° maggio o il 7 novembre.
Tra le mie coetanee v'erano anche numerose tedesche alle quali in genere mi sono sentita
molto legata. Tra queste Margot Schneider, una ragazza allegra e intelligente, dalla forte
personalità, che rimase la mia migliore amica fino a quando, alla fine del 1937, non fu
trasferita in un altro istituto, dopo che i suoi genitori, dirigenti comunisti, furono
arrestati a Mosca. La maggior parte delle ragazze tedesche erano fisicamente ben fatte,
sportive e quasi sempre prime della classe. Tra le allieve più grandi di me, ammiravo,
come tutte d'altronde, la nostra unica compagna giapponese, My Kita, figlia dell'allora
segretario generale del partito comunista nipponico. Aveva tutte le qualità, era seria,
sobria, capace e dotata in ogni campo. Era lei che teneva i rapporti politici in occasione
di celebrazioni e di ricorrenze storiche, come l'anniversario della rivoluzione d'Ottobre
o della Comune. Liolia Kassabova era anch'essa una delle più stimate; di costituzione
forte, aveva grandi occhi neri ed era figlia della nostra istitutrice-guardarobiera
Svoboda, vedova di un dirigente comunista, torturato dall'Okrana bulgara. Anche Liolia si
distingueva nello studio, nel lavoro sociale, cioè nell'attività del Komsomol, anche lei
sapeva parlare e tenere delle commemorazioni. Invece il fratello Blagoi era il nostro
miglior disegnatore e caricaturista e faceva parte della redazione del giornale murale. Il
nostro istituto ha ospitato tra gli altri anche la figlia di Dolores Ibarruri, Amaya; il
figlio di Tito, Zàrko; i figli di Anna Pauker, Tania e Vladimiro; i figli di Carlos
Prestes, segretario del PC del Brasile, Mody, Ferdinanda e il fratello. Rosy Rust era una
graziosa ragazza inglese, figlia unica di William Rust, direttore del «Daily Worker»,
organo del partito comunista britannico. Nella liberale Inghilterra suo padre non correva
rischi e l'unità della sua famiglia non era in pericolo a causa dell'attività politica
dei suoi genitori. Rosy era dunque con noi perché, in procinto di divorziare e di
risposarsi, i suoi genitori, anziché contendersela, decisero di comune accordo di
affidarla alla «Oxford» sovietica. Di tanto in tanto il padre con la nuova moglie o la
madre con il nuovo marito, tutti dirigenti comunisti, capitando a Mosca per qualche
riunione internazionale le facevano visita. Rosy veniva colmata di doni e si vantava di
avere due mamme e due papà. Per noi quello era il colmo della fortuna. Nel nostro mondo
di ragazzi l'eco degli avvenimenti che sconvolgevano alle radici la società sovietica e
il mondo intero arrivavano smussati, ma non ci lasciavano del tutto indifferenti. Erano
l'incendio del Reichstag, l'andata al potere di Hitler in Germania, la guerra di
Abissinia, le difficoltà della industrializzazione e della collettivizzazione sovietica,
le lotte interne nel partito. Molte cose, invece, ci restavano oscure. Tornando da uno
spettacolo del Circo, una domenica, notai sui vetri di molte finestre della città
incollate strisce di carta con su stampata a grandi lettere una parola sola: Cistka. La
parola mi ricordava l'allegra operosità di quella giornata di fine d'anno quando per
disposizioni dall'alto facevamo «pulizia generale» - gheneral'naia cistka. Era un
diversivo portare fuori sulla neve i propri materassi, coperte, cuscini, batterli o farci
le capriole sopra. Non capivo perché gli abitanti di Ivanovo annunciassero in modo
pubblico l'intenzione di fare pulizia e chiesi spiegazioni alla giovane istitutrice Liubov
Petrovna che mi stava accompagnando a casa. «Quelle sono finestre delle sedi del partito,
del Komsomol o degli uffici governativi - mi rispose l'insegnante. - La scritta significa
che si deve fare pulizia, non nei locali, ma nelle file delle nostre organizzazioni di
partito. Il partito deve liberarsi dai carrieristi infiltratisi in esso. Deve liberarsi
dai traditori che cercano di sabotare la produzione, la linea del partito, la politica di
Stalin. In tutte le cellule adesso è in corso la cistka ed ogni iscritto a turno deve
fare davanti alla cellula riunita al completo la propria autocritica: deve dire tutto di
sé, senza nascondere nulla; la sua provenienza sociale, gli errori del passato, le
posizioni sbagliate assunte dai suoi parenti più stretti. Tutto senza nascondere nulla...
Così il nostro partito si purifica e diventa sempre più forte». In quell'occasione
intuii che era molto importante e onorifico essere figli di operai e di contadini poveri,
mentre era pericoloso essere nati in famiglie di altri ceti sociali. Compresi che il
Partito era una cosa molto seria e che con il Partito si doveva essere sinceri fino in
fondo!