Secondo due diverse linee interpretative, individuate da Quintiliano (Institutio Oratoria, X, 93-95) e poi attestate in Diomede, grammatico del IV secolo d.C. (Grammatica Latina, I, 485 Keil), il termine satura è stato correlato con l’aggettivo saturus e ricondotto a un gruppo di referenti caratterizzati tutti dalla molteplicità dei loro elementi costitutivi (satura lanx, un vassoio di primizie offerte agli dei; lex satura, una proposta di legge comprendente numerosi provvedimenti non collegati tra loro), oppure ai satyri, esseri mitici connotati da atteggiamenti ed espressività burlesca e scurrile.

Attraverso l’indagine etimologica ci è possibile evidenziare i due tratti caratteristici che saranno, ora il primo, ora il secondo, resi propri dai diversi autori di questo genere: la varietà dell’argomento e talvolta della forma metrica o prosastica, coltivato da Pacuvio ed Ennio (Carmen quod ex variis poematibus constabat, Diom., loc. cit.) e la spiritosa mordacità del tono, nonché l’intento moraleggiante, coltivato da Lucilio, Orazio, Persio (Carmen... ad carpenda hominum vitia, ibidem).

Satura tota nostra est: Quintiliano, in Institutio Oratoria, X, I-93, rivendica il genere satirico come creazione esclusivamente romana. In effetti lo sviluppo della satira come genere letterario autonomo fu una realizzazione romana, sebbene si siano riscontrati elementi satirici nella letteratura greca, dal giambo di Archiloco e Ipponatte alla commedia antica, con gli attacchi di Aristofane a personaggi contemporanei, e nelle diatribe cinico-stoiche di Bione di Boristene e Menippo di Gadara, la cui produzione era caratterizzata sul piano formale dall’alternanza di prosa e versi, sul piano contenutistico dalla commistione di serio e di faceto (σπουδογέλοιον).

Secondo le fonti romane, Ennio (239-169 a.C.) è il primo a comporre satire in versi, prive di invettive o riferimenti precisi (l’ὀνομαστὶ κομωδεῖν che potevamo invece ritrovare in Aristofane, ad esempio contro Cleone) a personaggi contemporanei. Lucilio (ca. 180-102 a.C.), in continuità con la varietas già adottata da Ennio e probabilmente da Pacuvio, accosta a un vasto spettro di argomenti una molteplicità di atteggiamenti che oscillano fra un impegnato moralismo e un più bonario e leggero gusto per l’intrattenimento; abbandona progressivamente la polimetria a favore dell’esametro, metro definitivamente assunto da tutti i successivi autori di satire, che guarderanno a Lucilio come al padre fondatore di questo genere, come colui che ad esso ha conferito forma e carattere (Hor., Saturae I, 4,1).

Alla tendenza all’attacco personale, che Lucilio accompagna con un diffuso impiego della mordacità, senza risparmiarsi di comparire in prima persona in alcuni componimenti, il successivo continuatore del genere, Marco Terenzio Varrone (Reatino), sostituisce un nuovo tipo di satira, composta di versi e prosa, che, nelle sue Satire Menippee, prende a modello le satire di Menippo di Gadara, ove prosa e poesia erano mescolate piuttosto bizzarramente, ma il tono si presentava meno amaro, moderatamente didattico.

Nel decennio 39-30 a.C., Orazio scrive i sermones, componimenti satirici pervasi di una sorridente riflessione morale, che non trascende mai in invettive, peraltro rischiose, contro personaggi potenti o gravi vizi, ma si presenta in una prospettiva personale ironica e autobiografica, ed è espressa attraverso uno stile medio fine e urbano, che sottende il labor limae dell’autore.

Anche Persio (34-62 d.C.), come Orazio, subisce l’influenza di Lucilio, anzi dichiara addirittura di essersi posto "nel solco di Lucilio e di Orazio", ma la sua cifra stilistica risulta aspra e originale: in particolare, egli attinge i contenuti dai dettami filosofici dello stoicismo più rigoroso, nonché dal patrimonio di temi e luoghi comuni diatribici, battute aggressive e taglienti che rimandano ai discorsi di propaganda violentemente anticonformisti e provocatori che i filosofi cinici tenevano sulle pubbliche piazze.

Nelle Saturae di Giovenale (pubblicate nei primi decenni del II secolo d.C.) l’amara denuncia del vizio e della follia del tempo comprende la maggior parte degli uomini e tutte le donne: l’indignazione diventa il motivo propulsore dell’opera, e accosta così l’autore a quel combattivo e violento moralismo che abbiamo rilevato in Lucilio, mentre lo allontana dalla μεσότης oraziana, come anche il presentare un innalzamento del tono e dello stile, che si distacca dal livello "medio".

Il genere prende una direzione diversa in due testi di età neroniana: la Apocolocyntosis divi Claudii di Seneca, ove la commistione di prosa e versi non muove, come in Varrone, all’approfondimento di tematiche filosofiche e morali, bensì allo sfogo, in un caustico pamphlet, dell’odio che l’autore nutre per il defunto imperatore Claudio e il Satyricon di Petronio, che, tuttavia, pur muovendo dalla mescolanza di prosa e versi, risulta comunque più vicino al romanzo che alla satira.

Se Giovenale è l’ultimo grande poeta satirico, il genere non cessò tuttavia con lui di essere amato e coltivato: nel IV secolo d.C. l’imperatore Giuliano scrisse (in greco, ma nella tradizione romana) i Cesari; ascendenze alla satira Menippea si possono rintracciare nella Philologia di Marziano Capella (che lo scrittore latino di Cartagine compose probabilmente tra il 410 e il 439 d.C.) e nel De Consolatione Philosophiae di Boezio (ca. 476-524 d.C.).

L’interesse per questo tipo di poesia supera del resto i limiti del tardo antico per continuare ininterrotto nel Medioevo e nell’età moderna. Basti ricordare le satire dell'Ariosto, di Salvator Rosa, di Nicolas Boileau, dell'Alfieri: opere che attestano il persistere vivace, attraverso i secoli, di una tradizione poetica direttamente collegata ai classici latini.

Torna all'inizio