Ha senso parlare di unione europea, oggi? Esistono forse
dei fattori di coesione, di ordine culturale, sociale o etnico, in grado di giustificare
l'utilizzo del termine unione a definire la multiforme e sfaccettata realtà
europea attuale?
O l'Unione europea, così come si presenta, non è altro che l'ipocrita superfetazione
politica e istituzionale di un accordo meramente economico stipulato tra i governi dei
vari Paesi costituenti la Comunità economica europea?
E quindi: l'Unione europea va forse considerata, in questo senso, un baraccone inutile e
dispendioso, un pachiderma la cui funzione principale consiste nel celare e mettere in
sordina l'effettiva disomogeneità delle nazioni, intendendo il termine in senso sia
politico sia etnico, componenti l'entità geografica denominata Europa?
Dunque l'Unione europea non sarebbe altro che la più recente
espressione, l'ipertrofico epigono, condito in salsa economica (generosamente fornita da
Maastricht), di quel disgustoso internazionalismo pacifista che, depurato dalle
connotazioni ideologiche di matrice comunista, diede origine alla Società delle nazioni
nel 1919 e all'ONU nel 1945, entrambe costruzioni di carta miseramente abortite?
La questione, posta in questi termini, potrebbe risultare provocatoria, e vuole
effettivamente essere tale: la formulazione deriva dal fastidio sempre maggiore suscitato
in me dal continuo acuirsi del baccano retorico e propagandistico dell'informazione
giornalistica e della cultura di sinistra intorno ai temi dell'unificazione europea. In
coincidenza con l'avvento del governo Prodi questo frastuono europeista ha raggiunto
livelli assolutamente intollerabili, che mi hanno stimolato per reazione ad approfondire
il mio interesse, già pregresso, verso il grande problema dell'esistenza di un'identità
culturale comune dell'Europa, che a mio parere è indissolubilmente legato allo studio dei
rapporti tra il mondo europeo e le civiltà straniere.
La mia tesi, maturata attraverso la lettura e la meditazione di alcune
tra le più grandi coscienze della cultura europea, intellettuali come Nietzsche, Valéry,
Chabod, è questa: la coscienza di un'identità culturale in Europa è estremamente labile
e la sistematica violenza che caratterizza i rapporti del mondo europeo con le altre
civiltà deriva dal tentativo dell'Europa di affermare se stessa in contrapposizione e a
spese dell' altro.
Come si vede è questa un'interpretazione radicalmente diversa dall'impostazione oggi
largamente prevalente e dominante, la quale meriterebbe tuttavia di essere presa
attentamente in considerazione per i notevoli elementi di verità in essa contenuti: che
la coscienza europea, per usare un'espressione dell' Hazard, sia debole è un fatto
innegabile. A questo proposito debbo confessare con sommo dispiacere di essere rimasto
solo parzialmente convinto dalla tesi sostenuta dallo Chabod nell'opera Storia
dell'idea di Europa, per altro composta con mirabile chiarezza e rigore intellettuale
ed espositivo: essa ha secondo me il difetto di considerare in maniera esagerata le
posizioni di esponenti della cultura trascurando la mentalità comune contemporanea a
questi pensatori. Conoscere il pensiero di Isocrate sulle caratteristiche dell'uomo
europeo è certamente interessante, ma ad uno studio del genere deve essere congiunta la
considerazione delle opinioni dell' "uomo della strada" contemporaneo sul
medesimo argomento. Di grande acume e onestà mi è invece sembrata l'esortazione a non
prestare a forza a pensatori del passato punti di vista del presente, e quindi ad evitare
di individuare disegni europeistici nelle riflessioni di un Erodoto o di altri;
molto interessante è inoltre l'affermazione, secondo me pienamente accettabile,
dell'essenzialità del "fondamento polemico" nella costruzione di una coscienza
europea.
E' preoccupante questa insopprimibile tendenza al polemo
, al conflitto che contraddistingue senza eccezioni i rapporti del mondo europeo
con le civiltà straniere: dovunque l'europeo arrivi, in Perù come in India, in Canada
come in Sudafrica, devasta le popolazioni locali, le loro espressioni artistiche, il
territorio e l'ambiente.
Ma il fatto più grave è che l'Europa, dopo aver distrutto o quanto meno sopraffatto il
resto del mondo, depredandone le risorse e distruggendo le etnie indigene, è diventata
vecchia, è in decadenza, e sta per essere accerchiata e colonizzata economicamente da
forze più giovani e aggressive, quali Stati Uniti, Giappone e Corea: in questo modo la
terribile domanda di Valéry sul destino della cultura e della civiltà europee,
"l'Europa diventerà forse quello che è in realtà, e cioè un piccolo capo del
continente asiatico?" , questo inquietante interrogativo si sta rivelando sempre più
una tragica ma veritiera profezia. Certo il fenomeno della décadence dell'Europa
dal ruolo di guida e di "cervello del mondo", di faro dell'umanità, per
esprimersi in termini lievemente enfatici, non è improvviso, ma è il frutto di un
processo di disgregazione le cui radici sono situabili ancora nel secolo decimonono:
l'autentico punto di rottura, l'effettivo inizio del declino inesorabile dell'Europa dal
suo ruolo coincide con l'avvento e l'instaurazione della società di massa e con
l'affermazione dell'era tecnologica. "Abbiamo, in modo sconsiderato, reso le forze
proporzionali alle masse!" , denuncia Valéry, abbiamo voluto stoltamente competere
sul piano materiale con Paesi enormemente più dotati di noi sotto questo punto di vista,
abbiamo testardamente abdicato alla nostra funzione di mente per scimmiottare la funzione
dell'arto propulsore, abbiamo sostituito alla qualità la mera quantificazione, risultando
in ciò, ovviamente, nettamente inferiori rispetto a nazioni immensamente più estese,
più popolose, più ricche di materie prime.
Di fronte al processo di decadenza e di disgregazione dell'Europa, notevolmente accelerato dalle due guerre mondiali, tecnocrati illuminati quali Jean Monnet avevano proposto una soluzione ampiamente condivisibile, ossia la coesione delle entità statali esistenti in Europa su questioni di comune interesse, principalmente di ordine economico: essi prendevano atto della situazione di sostanziale disomogeneità politica, sociale e storica che contraddistingue l'Europa, e cercavano di porvi rimedio con provvedimenti improntati ad un sano pragmatismo. Purtroppo però si è venuta affermando un'altra linea, assolutamente deprecabile: un coacervo di sognatori falliti, inebriati dalla vittoria ottenuta sui movimenti nazionalisti, iniziò a predicare in modo sempre più sfacciato una soluzione assolutamente fumosa e vaga, ma di grande presa su molti cervelli della nuova Europa. Riprendendo le elucubrazioni di Mazzini sull'opportunità di una giovine Europa unita e solidale e sviluppando le suggestioni utopiste e umanitarie fino alla melensaggine già riscontrabili in certo pensiero liberale del secolo XIX, questi illusi approdarono alla devastante costruzione degli Stati Uniti d'Europa, concezione che si ostina a non voler prendere atto delle irriducibili differenze che rendono impossibile tale progetto: costoro ignoravano, o più probabilmente fingevano di ignorare, l'incontestabile fatto che, almeno in origine, la popolazione delle tredici colonie americane era sostanzialmente omogenea sia dal punto di vista etnico sia dal punto di vista culturale; in secondo luogo, la confederazione delle colonie rappresentò il naturale esito di un sodalizio cementato durante sette anni abbondanti di lotta contro l'oppressione fiscale della Gran Bretagna, fatto che contribuì non poco alla formazione di una coscienza americana. L'elenco potrebbe continuare ancora a lungo, ma i punti evidenziati mi consentono già da soli di porre una bella domanda a Dahrendorf, l'ultimo rampollo di quella stirpe di idealisti inguaribili che ha infettato l'Europa in questi cinquant'anni: quali analogie riscontra tra la situazione degli USA e la condizione europea?
Mi chiedo se questo folcloristico opinionista sia completamente savio
quando va tuonando che "la peggiore delle prospettive è la cosiddetta Europa delle
regioni": si renda conto del fatto che la configurazione istituzionale da lui
aborrita è anche l'unica possibile, anzi, dirò di più, pensabile.
Io sono fermamente contro la volgarità europeista, poiché scorgo in essa i ributtanti
rigurgiti di quell'arido razionalismo di matrice illuminista, cosmopolita e negatore
dell'individuo e della nazione, che io speravo definitivamente écrasé da Hegel.
Finché non verrà capito che l'Europa è un sistema di Stati nazionali superiorem non
recognoscentes non sarà possibile alcun realistico tentativo di coalizione
sovranazionale.
Voglio concludere esprimendo la speranza che l'Europa sia capace di tramontare per rinascere, in futuro, più giovane e più forte.
Valerio Nanni