Ritorna a indiceNASCITA E PSICOLOGIA DEL RAZZISMO

INDICE SEZIONE
LA NASCITA DEL RAZZISMO
RAZZA E CULTURA: Diversità delle culture - L'etnocentrismo - Culture arcaiche e primitive - L'idea di progresso - Culture cumulative - Il posto della civiltà occidentale - La collaborazione fra culture
PSICOLOGIA DEL RAZZISMO: Il pregiudizio - L'uccisione del padre - La personalità autoritaria - Fromm e la fuga dalla libertà
BIBLIOGRAFIA

LA NASCITA DEL RAZZISMO

Il concetto di razza fu applicato per la prima volta alla specie umana da due famosi biologi del '700, Buffon e Linneo, che classificarono gli esseri umani basandosi sul colore della pelle, sulla forma e sulla dimensione di alcune parti del corpo. Si pensò allora che i caratteri fisici influenzassero realmente lo sviluppo degli individui, al punto che vennero intrapresi in seguito studi sulla misura del cranio o sulla forma del volto, elementi che erano ritenuti importanti per lo sviluppo cerebrale. Tali studi, ormai del tutto superati perché senza fondamento scientifico, portarono all'elaborazione di due teorie in quel tempo molto importanti, quella frenologica e quella fisiognomica. Sebbene l'idea di una gerarchia delle razze, al vertice della quale vi era quella ariana, si fosse già diffusa nel '700, le teorie eugenetiche si affermarono in maniera più decisiva nel secolo successivo, favorite e influenzate dal movimento neoclassico che identificava la bellezza nel modello delle belle e bianche statue greche. In questo contesto si arrivò a pensare che la teoria dell'evoluzionismo di Darwin fosse valida anche per le società umane (darwinismo sociale), ovvero che esistessero degli individui più avvantaggiati di altri per quanto riguarda la capacità di adattarsi alla realtà circostante. La teoria darwiniana ebbe così l'effettodi una conferma della reale superiorità di alcuni individui rispetto ad altri. Al fine di legittimare alcune forme di discriminazione politica o sociale, o di schiavizzazione di popolazioni, questa superiorità venne ricercata ovunque: nel livello di sviluppo dei popoli e delle loro lingue messi in relazione alla cultura, alla spiritualità e infine alla razza. Il primo saggio di rilevante importanza sulla superiorità di razza nella specie umana fu pubblicato in Francia nel 1853 da A. De Gobineau che, assistendo al declino della nobiltà di cui egli stesso faceva parte e vedendola destinata ormai a perdere l'antico potere, utilizzò il concetto di razza per dare una spiegazione storica alla decadenza del genere umano.

Nel suo Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane De Gobineau sostiene che la razza bianca, dopo essersi diffusa in tutto il mondo grazie alle sue superiori capacità, si sarebbe unita alle razze inferiori, gialla e nera, per dare vita a individui ibridi "disgustosamente mediocri", contaminandosi fino a perdere completamente la propria purezza.

Chi ebbe un reale intento di istigazione al razzismo fu il britannico H. Chaberlain, che pochi anni dopo pubblicò I fondamenti del secolo diciannovesimo, in cui esaltava la superiorità razziale, civile e politica del popolo tedesco (egli stesso si era fatto naturalizzare tedesco, ed era diventato genero del musicista Wagner), e incitava alla riproduzione mirata e alla parallela eliminazione degli inferiori. Sulle orme di quest'ultimo si mosse A.Rosemberg, che ne Il mito del ventesimo secolo predicava quel razzismo violento che ispirerà le dottrine del partito nazista tedesco.

RAZZA E CULTURA

Sulla questione razziale il "peccato originale" dell'antropologia consiste nella confusione che essa ha consentito di compiere tra il concetto puramente biologico di razza e le produzioni sociologiche e psicologiche delle culture umane. Questo, a esempio, fu l'errore di De Gobineau. Quando si parla del contributo originale delle razze umane alla civiltà, non si vuol dire che gli apporti culturali dei vari continenti dipendano dalla razza di coloro che li abitano. Se tale originalità esiste, ed è certo, essa dipende da circostanze geografiche, storiche e sociologiche, non da specifiche e distinte attitudini connesse alla costituzione anatomica o fisiologica della popolazione in questione. Ciò significa che l'umanità non si sviluppa in un regime di uniforme monotonia, bensì attraverso modi molto diversificati di società e civiltà. Tale diversità intellettuale, estetica e sociologica non è unita da nessuna relazione causale a quella che, sul piano biologico, esiste tra alcuni aspetti osservabili nei raggruppamenti umani. Infatti due culture elaborate da uomini appartenenti alla stessa razza possono differire quanto due culture appartenenti a gruppi razzialmente lontani. Per trattare in modo completo il tema in questione bisogna dunque prendere in considerazione anche il problema della diseguaglianza o diversità delle culture umane.

Diversità delle culture:
La diversità delle culture umane è ed è stata certamente maggiore di quanto noi siamo in grado di misurare. Alcune culture sembrano essere diverse, ma siccome emergono da un tronco comune, non si distanziano allo stesso modo di altre che non abbiano avuto rapporti tra loro in nessuna fase del loro sviluppo. Viceversa, società entrate recentemente in strettissimo contatto sembrano offrire l'immagine della stessa civiltà, mentre sono arrivate allo stadio di sviluppo in cui si trovano, per vie diverse. Nelle società umane agiscono simultaneamente forze orientate in direzioni opposte: le une tendenti al mantenimento e all'accentuazione dei particolarismi, le altre agenti nel senso della convergenza e dell'affinità. Sembra quasi che le società umane manifestino un certo grado di diversità, al di là del quale non potrebbero spingersi, ma al di qua del quale non possono rimanere senza pericolo. E' chiaro quindi che il concetto di diversità delle culture non va inteso in maniera statica: vi sono differenze dovute all'isolamento e differenze dovute alla prossimità.

L'etnocentrismo:
La diversità delle culture raramente è apparsa agli uomini per ciò che è, ovvero un fenomeno naturale, risultante dai rapporti diretti o indiretti fra le società. Si è visto, piuttosto, in essa, una sorta di mostruosità o di scandalo. L'atteggiamento più comune consiste nel ripudiare puramente e semplicemente le forme culturali che sono più lontane da quelle con cui ci identifichiamo. Così l'antichità confondeva tutto quello che non faceva parte della cultura greca e latina sotto il nome di "barbaro"; la civiltà occidentale nell'età moderna ha poi utilizzato il termine "selvaggio". In entrambi i casi si rifiuta di ammettere il fatto stesso della diversità culturale. Si preferisce respingere fuori dalla cultura, nella natura, tutto ciò che non si conforma alle norme sotto le quali si vive. L'atteggiamento di pensiero, nel cui nome si respingono i "selvaggi" fuori dall'umanità, è proprio l'atteggiamento più caratteristico che contraddistingue quei selvaggi medesimi. E' noto, infatti, che il concetto di umanità è assai tardivo e che per molti popoli l'umanità cessa alla frontiera della tribù, del gruppo linguistico, persino del villaggio. Dunque, questo punto di vista ingenuo cela tale significativo paradosso: proprio nella misura in cui si pretende di stabilire una discriminazione fra le culture e i costumi, ci si identifica nel modo più completo con ciò che si cerca di negare. Contestando l'umanità dei "selvaggi" non si fa altro che assumere un loro tipico atteggiamento; il barbaro è anzitutto l'uomo che crede nella barbarie. Nel senso opposto, la semplice proclamazione dell'uguaglianza naturale fra tutti gli uomini e della fratellanza che deve unirli senza distinzione di razza o di cultura ha qualcosa di deludente perché trascura una diversità di fatto, che si impone all'osservazione. Questo è il falso evoluzionismo. Si tratta precisamente di un tentativo di sopprimere la diversità delle culture, pur fingendo di riconoscerla in pieno. L'evoluzionismo biologico, ovvero il darwinismo, noto come una vasta ipotesi di lavoro fondata sull'osservazione, in cui la parte lasciata all'interpretazione è minima, è diversissimo dallo pseudoevoluzionismo, sopra accennato. Lo pseudoevoluzionismo, che è poi l'evoluzionismo sociologico, deve ricevere un forte impulso dall'evoluzionismo biologico; ma gli è anteriore nei fatti.

Culture arcaiche e primitive:
Ogni società può dividere le culture in tre categorie:

  1. quelle che sono contemporanee, ma fisicamente molto lontane;
  2. quelle che si sono manifestate nello stesso luogo, ma precedenti nel tempo;
  3. quelle che sono esistite sia in un tempo anteriore sia in uno spazio diverso.

Il falso evoluzionismo si è manifestato soprattutto paragonando le società primitive contemporanee a quello del terzo gruppo sopra citato: delle civiltà scomparse noi conosciamo aspetti tanto meno numerosi quanto più è antica la civiltà considerata. Il procedimento consiste quindi nel prendere la parte per il tutto, e nel concludere che quegli aspetti di due civiltà (l'una attuale e l'altra scomparsa), i quali offrano rassomiglianze, garantiscono dell'analogia di tutti gli aspetti. Inoltre, per ciò che riguarda il secondo gruppo sopra citato, la continuità del sito geografico non impedisce che, sullo stesso suolo, si siano succedute popolazioni diverse con credenze, tecniche e stili diversi. I tentativi compiuti per conoscere la ricchezza e l'originalità delle culture umane, e per ridurle a repliche più o meno arretrate della civiltà occidentale, urtano contro un'altra difficoltà, molto più profonda: in generale, tutte le società umane hanno dietro a loro un passato che è approssimativamente dello stesso ordine di grandezza. Per considerare alcune società come "tappe" dello sviluppo di altre, bisognerebbe ammettere che quando per queste ultime succedeva qualcosa, per le prime non succedeva nulla. Il punto è, invece, che la loro storia è e rimarrà sconosciuta, ma non che essa non esiste. In verità non esistono popoli bambini: tutti sono adulti. Sarebbe lecito probabilmente dire che le società umane hanno utilizzato in modo disuguale il tempo passato: le une bruciavano la tappe, le altre indugiavano lungo il cammino. Si potrebbero così distinguere due tipi di storie: una storia progressiva, acquisitiva, che accumula i ritrovati e le invenzioni per costruire grandi civiltà, e un altra storia, forse altrettanto attiva e altrettanto ricca di talenti, ma in cui mancherebbe il dono sintetico che costituisce il privilegio della prima.

L'idea di progresso:
Siamo abituati a considerare il progresso come la concatenazione di forme successive di evoluzione che hanno prodotto forme superiori e altre inferiori. I progressi compiuti dall'umanità sono stati ordinati in successione (dall'archeologia e dalla paleontologia, per esempio, conosciamo, in serie, l'età della pietra tagliata, della pietra levigata, l'età del rame, del bronzo, l'età del ferro) secondo un schema di crescita lineare che ultimamente è stato messo in discussione. Si è infatti iniziato a ritenere che non ci sia stato un progresso a senso unico, disposto in più tappe, ma una realtà a più aspetti, a più facce in cui avvenivano contemporaneamente diverse fasi evolutive. Si tende insomma, a dislocare nello spazio forme di civiltà diverse e parallele che eravamo soliti disporre come successive nel tempo: il progresso diventa quindi un processo non necessario, discontinuo e non consequenziale. Possiamo paragonare l'umanità in progresso a un giocatore la cui fortuna è divisa in parecchi dadi che, lanciati, danno vita a situazioni e somme diverse: solo di tanto in tanto i dadi addizionati formano una combinazione favorevole dando origine a una parte di storia cumulativa. Se quindi prima si pretendeva di definire quali fossero le forme di civiltà più progredite e avanzate, questa pretesa diventa, con questa interpretazione, sicuramente più difficile. Lo stesso vale per le razze, poiché non è escluso, anche scientificamente, che siano coesistiti i tipi più vari di ominidi.

Culture cumulative:
Noi riteniamo cumulativa ogni cultura che si sviluppi in senso analogo al nostro. Questo atteggiamento è tipico della psicologia umana: gli anziani considerano in modo negativo l'epoca contemporanea alla loro vecchiaia e in cui non sono più attivamente impegnati; in cui cioè o non accade nulla di significativo per loro o accadono solo avvenimenti per loro disastrosi, contrapponendola alla storia cumulativa di cui erano stati protagonisti da giovani. In modo analogo le culture ci sembrano tanto più attive quanto più si spostano nella stessa direzione della nostra: il nostro giudizio risulta sempre dalla prospettiva etnocentrica nella quale ci poniamo per valutare una cultura diversa. Riteniamo la nostra cultura più evoluta perché consideriamo solo gli argomenti, i campi che interessano noi, o meglio la nostra civiltà. Se dovessimo stabilire il paragone su altri piani, quali ad esempio l'adattamento all'ambiente o l'armonia dei rapporti umani o tra il corpo e la mente, i rapporti ci apparirebbero ribaltati. A seconda della prospettiva scelta si possono stabilire classificazioni differenti e diventa, quindi, chiaro quanto sia difficile e forse impossibile per una cultura giudicare con serietà di analisi una differente.

Il posto della civiltà occidentale:
Non esiste, quindi, teoricamente una cultura totalmente superiore alle altre: ma dobbiamo riconoscere che, in pratica, il mondo si sta occidentalizzando. Il mondo intero sta progressivamente adottando le tecniche, il genere di vita, le distrazioni, gli abiti, il punto di osservazione, il metro di giudizio della civiltà occidentale. Si può riconoscere una adesione unanime per una singola civiltà: ormai popoli considerati sottosviluppati non rimproverano agli altri di averli occidentalizzati, ma di non aver dato loro i mezzi per farlo rapidamente. Attraverso il consenso o la forza la civiltà occidentale è risultata superiore; da dove deriva questa superiorità che, agli atti, tutti possiamo constatare?

La collaborazione fra culture:
Le culture che sono riuscite a realizzare forme di storia più cumulative e che, quindi, sono risultate predominanti, sono quelle che hanno combinato i rispettivi "giochi" e hanno realizzato, con vari mezzi, delle coalizioni. La possibilità che una cultura ha di totalizzare quel complesso insieme di invenzioni che chiamiamo civiltà è funzione del numero e della diversità delle culture con cui essa partecipa all'elaborazione di una comune strategia. Tornando alla nostra questione, possiamo risolverla analizzando l'Europa come civiltà "avanzata" e l'America Meridionale come civiltà più "arretrata", ben sapendo che questi sono giudizi relativi. L'Europa agli inizi del Rinascimento era luogo di incontro e fusione delle influenze più diverse: le tradizioni greca, romana, germanica, anglosassone, le influenze orientali si scontravano e si confrontavano continuamente ed erano esse stesse il prodotto di una differenziazione di decine di secoli. L'America non aveva meno contatti culturali, ma le sue culture hanno avuto meno tempo per divergere, dal momento che il suo popolamento era più recente, offrendo così un quadro più omogeneo, stabile ma meno attivo se consideriamo la diversità come elemento dinamico. La "coalizione" americana per l'evoluzione era stabilita fra civiltà meno differenti fra loro (Maya, Inca, Aztechi) rispetto a quelle europee. L'Europa arricchita, cresciuta ed evoluta dalla sua instabilità interna è riuscita a far crollare con un pugno di conquistatori la realtà americana iniziando così a vestire i panni di civiltà superiore, almeno per quanto riguarda le forze che era in grado di mettere in campo. Non esiste, dunque, nessuna società cumulativa in sé per sé. La storia cumulativa e il progresso non sono prerogativa di alcune razze o culture o della loro natura, ma risultano dai comportamenti, dalla maniera di coalizzarsi, di agire insieme. L'unico impedimento per una società nel realizzare in pieno la propria natura è quello di agire da sola. E' quindi compito molto arduo analizzare il contributo delle razze e delle culture umane alla civiltà. La stessa civiltà mondiale non può essere altro che la coalizione di culture delle quali ognuna preservi la propria originalità.

PSICOLOGIA DEL RAZZISMO

Premettiamo che per uno studio del fenomeno razzistico (ovvero, che produce l'atteggiamento razzista) dal punto di vista psicologico occorre studiare la psicologia dell'individuo o del gruppo razzizzante. Cioè, basandoci sull'affermazione di Sartre secondo la quale "è l'antisemita a creare l'ebreo", cerchiamo le cause del problema non in una situazione storico­economico­sociale ma nel soggetto del razzismo. Presentiamo varie teorie a riguardo, concentrando l'attenzione sul pregiudizio, passaggio primario e necessario (ma non sufficiente) nello sviluppo del razzismo.

Il pregiudizio:
Secondo Dollard, questo nasce nella psiche dell'individuo in conseguenza di privazioni vissute durante l'infanzia e di problemi della vita adulta; privazioni che creano frustrazioni e quindi aggressività e ostilità. Queste non possono essere manifestate all'interno del proprio gruppo, e di conseguenza si riversano su un oggetto particolarmente determinato ed isolato all'interno della società, e che sia facilmente individuabile. Questa teorizzazione si accosta dunque all'idea di capro espiatorio, secondo la quale, a un livello più ampliato di quello del singolo, la società che ha subito uno sconvolgimento deve trovare qualcuno su cui scaricare le tensioni accumulate e, nello stesso tempo, qualcuno a cui imputarle. Infatti anche in questo il capro espiatorio svolge la sua funzione "purificatrice", come secondo la tradizione religiosa: il sacrificio del capro libera il gruppo del male che vi è entrato e che ne ha spinto i membri a compiere un'azione turpe. Una parte della teoria di Dollard, però, suscita alcune critiche: come si spiega il fatto che l'odio verso l'Altro, in particolari situazioni, sia maggiore quando più difficilmente questo si può individuare, soprattutto se anche la caratterizzazione fisica è una costruzione totalmente immaginaria? In ogni caso, ciò che è importante è che Dollard abbia individuato nel pregiudizio un atteggiamento difensivo mirante a preservare lo status sociale dell'individuo razzista e del gruppo a cui appartiene. In questo discorso si inserisce la tesi di Dumont che vede, alla base del pregiudizio, il passaggio dall'olismo all'individualismo. Infatti è quando la struttura gerarchica della società viene sostituita da una fondata sulla parità di diritti per tutti, che il razzismo è reso possibile, dato che di fatto si preoccupa di ristabilire una distanza verticale tra i gruppi. Dunque, come osserva Morin, questo bisogno di ricreare una distanza e una superiorità nei confronti di un gruppo da cui non si è più completamente separati in termini sociali, per poter mantenere il proprio status, denota un'effettiva paura del cambiamento e della modernità. E per questo motivo non a caso il pregiudizio si è fissato particolarmente sugli ebrei, che rappresentano la figura classica di contrapposizione tra tradizione e modernità. Secondo alcuni psicanalisti il razzismo rappresenta l'incapacità di gestire la differenza ma anche la somiglianza con l'altro, nel quale si proietta il conflitto tra Vecchio, ancora persistente, e Nuovo, presente ma ancora non del tutto completamente affermato. E in questo rispecchiarsi, come nota Kristeva, l'Altro è il nostro stesso inconscio, il ritorno di ciò che è stato rimosso. E poiché ha l'Altro in sé, colui che fugge da lui o lo combatte, fugge da se stesso e lotta con il proprio inconscio. Non a caso quindi, secondo Jacquard, la prima reazione nei confronti dell'Altro è di terrore: terrore che è una fascinazione, un'attrattiva, in quanto lo "straniero" è anche un simile. Il razzismo non sarebbe dunque un rifiuto radicale dell'Altro, bensì una conseguenza dello sconvolgente incontro con un simile, con il proprio doppio.

L'uccisione del padre:
Freud si chiese come fosse mai stata possibile la conservazione di una specificità etnica e religiosa propria degli ebrei così marcata, nonostante un millenario processo li avesse dispersi per tutta la terra, chiamandoli spesso a convivere con maggioranze oppressive e violente. Pervenne alla conclusione che tutto ciò fosse spiegabile risalendo alle fonti del monoteismo ebraico e al suo particolare fondamento psicologico e propose, nella sua analisi, di intrecciare psicanalisi e religione, cercando di scoprire la verità simbolica di quest'ultima. Freud ricorre ad una spiegazione tipicamente psicanalitica: come nella vita degli individui certi fatti apparentemente incomprensibili possono essere spiegati con avvenimenti che riguardano i primi anni dell'esistenza, così nella preistoria dell'umanità potrebbero essersi prodotti avvenimenti dimenticati per millenni ed ora riemersi. Altro elemento della riflessione di Freud è la funzione del Capo, cioè Mosè, che in seguito avrà grande importanza nella sua analisi psicanalitica. Ma procediamo con ordine: le nevrosi sono ricondotte in gran parte ai traumi, soprattutto di natura sessuale, subiti nella fanciullezza. Gli effetti di questi traumi operano nel nostro livello inconscio e condizionano i nostri comportamenti arrivando in certi casi a produrre veri e propri cambiamenti della personalità. Freud cerca di applicare lo stesso modello alla storia dell'umanità interpreta in essa i fenomeni religiosi con gli stessi criteri con cui, nella vita dei singoli, interpreta le nevrosi. La vita dell'uomo primitivo si svolgeva nel clan, dominato dal maschio più forte, che non esitava ad allontanare e a uccidere chiunque, anche fra i propri figli, lo minacciasse o gli insidiasse il possesso delle femmine del gruppo. Talvolta i figli riuscivano a ribellarsi, uccidendo e divorando il padre; si manifestava così un rapporto di paura e odio verso il padre, il quale, però resta anche un esempio da imitare (e il pasto antropofagico ha appunto lo scopo di far acquisire ai figli la forza del padre). Questo rito venne poi sostituito dal pasto totemico, nel quale l'oggetto dell'uccisione è un animale sacro. E si arriva così al simbolismo cristiano dell'ultima cena e della eucarestia. Dunque il peccato originale, ovvero l'uccisione del padre, può essere espiato solo con la morte del figlio. Tale è anche l'accusa storicamente mossa agli ebrei: di aver ucciso il loro padre­Dio. Inoltre la gelosia degli altri nacque con l'affermazione che gli ebrei "erano i figli primogeniti e favoriti del Dio­padre". Qui si inserisce, secondo Freud, il significato della figura di Mosè, il quale non fece altro che esaltare alcune qualità della sua gente, finendo per essere percepito nel ruolo di padre. La massa degli uomini sente un gran bisogno di autorità a cui sottomettersi. Questo bisogno si manifesta con il desiderio di ritrovare il padre, il grand'uomo che svolge nella psicologia collettiva il ruolo che nella vita del singolo è svolto dal "Super­io" (cioè la nostra coscienza che ci rende piacevoli e gratificanti le rinunce imposte dalle regole sociali). Quando in un uomo si produce un'istanza di natura erotica o aggressiva, l'Io cerca immediatamente di soddisfarla, tramite un'azione che produce piacere (mentre il suo contrario, l'insoddisfazione, produce dolore). Ma quando ciò non è realizzabile, ecco, si ricerca l'autorità del Super­io o, appunto, del grand'uomo. Il Super­io, dunque, che si contrappone all'Io istintivo, altro non è che "il successore ed il rappresentante dei genitori".

La personalità autoritaria:
Pur ammettendo che i pregiudizi possano essere incoraggiati da lontanissime paure dei nostri progenitori, stratificatesi nel subcosciente, la scienza moderna è arrivata a concludere che i bambini non nascono già con questo fardello, e che lo acquisiscono per l'azione combinata di una molteplicità di fattori. L'analisi si arricchisce anche con le cosiddette "disposizioni d'animo" e la differenza fra il proprio gruppo (in­group) e quello estraneo (out­group). Un bambino può acquistare il pregiudizio mediante l'identificazione con genitori intolleranti, severi, rigidi, autoritari e opprimenti. Quindi, i bambini che hanno pregiudizi hanno anche una personalità più rigida, tendono a pensare in modo categorico in termini di "buono" e "cattivo" e non tollerano ambiguità o anticonformismi, acquisendo insicurezza e ossequio alla forza, fino a darsi una propria struttura interiore che corrisponde alla personalità autoritaria, studiata da Freud, da Fromm e da Adorno. Infatti Adorno riteneva che le persone dall'Io più debole fossero quelle più soggette al pregiudizio, quelle incapaci di dominare la propria aggressività che, anzi, tramite i pregiudizi, si scaricano sugli altri facendoli così diventare responsabili della nostra ansia e insicurezza. Dunque, questi individui sono facile preda della sindrome antidemocratica che si manifesta nei seguenti comportamenti:

  1. un'adesione superficiale e rigida ai valori convenzionali (convenzionalismo);
  2. un profondo desiderio emotivo di sottomettersi ad un capo forte, poiché l'individuo non è riuscito a stabilire in se stesso una fonte di autorità e indipendenza, di aggressività e ostilità verso gruppi estranei (aggressione autoritaria);
  3. una svalutazione delle qualità umane e una sopravvalutazione delle qualità fisiche;
  4. la tendenza a rifugiarsi nella superstizione o nell'attribuzione delle responsabilità a cause esterne;
  5. la tendenza al cinismo.

Questo è ciò che crea la personalità autoritaria, che si manifesta a diversi livelli e della quale tutti abbiamo alcune componenti. Lo stato ansioso, di perenne incertezza e di paura ha due principali conseguenze:

  1. il pregiudizio, come meccanismo di difesa;
  2. il conformismo, come ricerca di un giudizio autorevole che si presenta nella forma di regole già socialmente consolidate.

La riflessione di Adorno viene criticata da Asch, con l'obiezione che non devono essere trascurate le pressioni esercitate sull'individuo nella scuola, negli uffici, in fabbrica, nel quartiere, e dalle preoccupazioni economiche. Da questo punto di vista si potrebbe allora affermare che certe "predisposizioni" psicologiche non sono tanto essenziali alla creazione di determinati rapporti sociali, quanto alla loro conservazione.
Il pregidizio "funzionale": Allport spiega che la nostra vita è condizionata in ogni istante dai pregiudizi, che costituiscono lo schema di riferimento dei nostri cambiamenti. Questi schemi ci consentono di conformarci al gruppo di appartenenza: ecco perché si può parlare di pregiudizio funzionale.

Fromm e la fuga dalla libertà:
Secondo la teoria di Fromm l'uomo è perennemente costretto entro due tendenze contrastanti: quella a uscir fuori dal grembo materno, passando a un'esistenza più umana (dalla schiavitù alla libertà) e quella a ritornare alla madre, alla natura, alla sicurezza. Si tratta di una continua lotta fra istinto vitale e istinto mortale, intorno a cui gravita il problema esistenziale. Se la risposta che si dà alla domanda esistenziale è adeguata, recidendo quindi i legami primari che ci tranquillizzano, si può scegliere tra due vie nel proiettarci all'esterno: con la prima si giunge alla libertà positiva, che consente di unirsi spontaneamente al mondo senza rinunciare all'autonomia e all'integrità della propria personalità; con la seconda si rinuncia alla propria libertà, cercando di superare il vuoto tra sé e il resto. Il primo meccanismo di fuga dalla libertà è la tendenza a cercare nuovi legami secondari in luogo di quelli primari, rinunciando all'indipendenza del proprio essere e cercando all'esterno la forza che ci manca. Ne nasce un desiderio di sottomissione, di dominio, di potere proporzionato alla debolezza o forza del soggetto cui ci si contrappone. Il secondo meccanismo di fuga è la distruttività che consente di sfuggire alla propria impotenza verso il mondo esterno, distruggendolo. Il terzo meccanismo di fuga comporta che l'individuo cessi di essere se stesso, adottando completamente la personalità che gli viene offerta da modelli culturali esterni e cancellando il divario tra sé e il mondo. La personalità diventa quella di un automa, che ha rinunciato al proprio io, e cerca di confondersi in mezzo a milioni di altri automi, traendone sicurezza.

BIBLIOGRAFIA

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