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5/10/04
Ratificato dal parlamento cambogiano all’unanimità l’iter legislativo che
consente la nascita di un tribunale ad hoc dell’Onu per giudicare gli anni del
terrore di Pol Pot tra il 1975 e il 1979 che portarono al genocidio di oltre un
milione di cambogiani
Martedì 5 Ottobre 2004
Il parlamento cambogiano ha ratificato all’unanimità l’iter legislativo che consente la nascita di un tribunale ad hoc dell’Onu per giudicare il suo recente passato: gli anni del terrore khmer rosso tra il 1975 e il 1979.
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La storia di
questo tribunale, che avrà sede a Phnom Penh, è lunga e, forse, ancora in
salita. La battaglia per istituirlo è durata sei anni e solo nel marzo scorso,
dopo che più volte tutto rischiava di saltare, il parlamento si era espresso su
una bozza concordata tra Phnom Penh e il Palazzo di Vetro. La maggiore
difficoltà risiedeva nella composizione del tribunale, nel quale l’Onu voleva
sedessero anche magistrati internazionali (e non solo cambogiani) per garantire
obiettività di giudizio. Alla fine l’accordo è stato raggiunto: dei cinque
giudici del collegio giudicante, tre saranno cambogiani e le decisioni verranno
prese a maggioranza.
Ma non è stata questa l’unica difficoltà. Tanto per cominciare il tribunale
parte zoppo perché occorrono 50 milioni di dollari e per ora ce ne sono solo
due, garantiti dall’Australia. Molti paesi in realtà hanno sempre remato contro
e ritardato il processo negoziale forse perché il dibattimento potrebbe portare
alla luce scomode verità: l’appoggio dato dalla Cina, ma anche dai paesi
occidentali, ai khmer rossi, utili di volta in volta per regolare le diatribe
della guerra fredda. Gli uomini di Pol Pot, una volta perso il potere per mano
dei vietnamiti, che occuparono la Cambogia mettendo fine al genocidio, vennero
infatti sostenuti in chiave anti vietnamita ma sopratutto in chiave anti russa,
visto che Mosca era rimasta praticamente l’ultimo sponsor di Hanoi. La vicenda
della resistenza all’invasione vietnamita è una storia dunque piena di cadaveri
nell’armadio. Imbarazzanti per la comunità internazionale così come per gli
stessi cambogiani, a cominciare dal premier Hun Sen che vanta un passato di
guerrigliero khmer rosso, seppur della prima ora. Ma l’imbarazzo c’è per tutti:
la resistenza si organizzò come un fronte unico che comprendeva nazionalisti,
monarchici e khmer rossi, ognuno con i suoi appoggi di armi e quattrini. Ebbe
vita facile proprio perché l’invasione vietnamita era un atto illegale, benché
avesse posto fine alla tragedia. Ma la resistenza finì col rafforzare lo stesso
Pol Pot, divenuto un protagonista politico, oltreche militare, di cui non si
poteva fare a meno, mentre la leadership dei khmer rossi tirava avanti coi
lucrosi traffici che li avevano trasformati, da combattenti puri e duri a
commercianti di legname e pietre preziose: da architetti dell’anno zero in
amministratori del contrabbando con la Thailandia. Godettero infine della miopia
della sinistra occidentale che, poco e male informata, finì col proteggere la
banda di Pol Pot, alla cui ascesa e carisma avevano senz’altro contribuito i
bombardamenti indiscriminati e segreti degli Stati Uniti che avevano trascinato
la Cambogia in guerra. Anche il regime “fantoccio” che con la complicità
americana governava Phnom Penh aveva contribuito a creare un’aura eroica attorno
ai giovani studenti cambogiani che da Parigi organizzarono il movimento khmer
rosso, ne stabilirono il programma politico e le basi ideologiche, mediando dal
maoismo una lettura in chiave locale e contadina del marxismo, applicata al
rigore ultramoralista, trasformatosi in genocidio, del “fratello numero 1”.
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Adesso però Pol Pot, spentosi per morte naturale nel 1998 nella zona di Pailin,
feudo degli khmer rossi e ancor oggi buen retiro dei suoi ex, non sarà tra gli
uomini che compariranno alla sbarra davanti al neonato tribunale ad hoc. E
qualcosa suggerisce che non sarà facile trascinarci nemmeno i suoi compari di
allora, ancora vivi, seppur tutti ottuagenari. I più papabili a pagare qualche
conseguenza (le accuse, genocidio e crimini contro l’umanità) sono Ta Mok, detto
il “macellaio”, e capo dell’esercito khmer (già accusato di genocidio tra un
tribunale ordinario) e Kang Kek Lieu, l’uomo che teneva la chiave della
scuola-prigione di Tuol Sleng dove venivano giustiziati gli oppositori (oggi
museo della memoria) dell’Anka, una sorta di misterioso ente supremo in realtà
emanazione surreale del partito comunista della Kampuchea.
Difficile sarà mettere le mani su Khieu Samphan, che divide il suo tempo tra la
Cambogia e Parigi dove ha pubblicato un libro in cui si difendo sostenendo che
non stava al capo dello stato sapere chi veniva ucciso e come. E uccel di bosco
potrebbero diventare i fratelli numero 2 e 3, Nuon Chea e Ieng Sary, perdonati
da governo e monarchia quando si affrancarono da Pol Pot e lasciarono le foreste
al confine con la Thailandia in cambio dell’impunità. Ora tenteranno di far
valere quel contratto. Alla faccia di oltre un milione di cambogiani morti per
realizzare il delirante uomo nuovo che avevano in testa.