Malgrado la sua spettacolarità, il sequestro dei ventuno ostaggi nell'isola di
Jolo (Filippine) da parte del gruppo islamista di Abu Sayyaf, è solo la
conseguenza più vistosa dell'instabilità che colpisce il sud-est asiatico. Una
nuova pirateria è cresciuta in quello spazio indefinito apertosi grazie alla
riduzione (o al ritiro) delle forze marittime delle superpotenze, alle
rivendicazioni indipendentiste, ai conflitti di sovranità, senza dimenticare la
crisi economica. Una forma di criminalità marittima che si rafforza sempre più
grazie alla compiacenza, a volte attiva, di alcune autorità locali.
Il 5 gennaio 2000, la compagnia di trasporti marittimi indonesiana Pelni ha
sospeso il servizio verso il porto di Ternate, capitale della provincia delle
Molucche del nord. Da allora, i passeggeri che vogliono recarsi in quella
regione ad est dell'Indonesia sono costretti ad utilizzare navi militari.
L'interruzione dei collegamenti è stata decisa all'indomani dell'aggressione di
una nave da parte di profughi in fuga dai combattimenti tra musulmani e
cristiani.
Sono stati 285 gli atti di pirateria, criminale o «politica» - due terzi dei
quali nelle acque marittime asiatiche - ufficialmente registrati nel 1999 a
livello mondiale (contro i 192 dell'anno precedente e i 90 del 1994). Le
statistiche impressionanti diffuse dall'Ufficio marittimo internazionale (Imb)
sembrano mostrare solo la punta dell'iceberg.
Nel 1998, per esempio, la marina della Repubblica delle Filippine denunciava
centotrentanove azioni criminali nelle sue acque territoriali, tra pirateria e
dirottamento di navi; mentre l'Imb ne censiva solo sei. Stessa non concordanza
in Giappone dove ben venti navi sono state vittime di abbordaggi, nel 1998,
mentre nel suo rapporto annuale l'Imb ne rilevava solo uno. «Denunciare
un'aggressione alle autorità marittime richiede un lungo iter amministrativo, il
che spiega probabilmente perché molti atti di pirateria - soprattutto se i danni
materiali sono trascurabili - non vengono dichiarati», osserva No Choong,
direttore del pronto intervento regionale del Centro anti-pirateria di Kuala
Lumpur. La Special Ops Maritime Security Agency si spinge ancora più in là:
secondo questa agenzia americana specializzata nell'intelligence marittima, solo
la metà delle aggressioni viene denunciata alle autorità.
Nelle acque di una regione la cui geografia favorisce l'attività dei pirati,
assalire le navi non è un fenomeno recente. L'Indonesia e le Filippine,
rispettivamente con 17.500 e 7.000 isole, sono tra gli arcipelaghi più dotati di
«covi» a partire dai quali i criminali organizzano le loro spedizioni. Negli
anni '80, in queste zone si moltiplicarono gli attacchi contro piccoli battelli
sovraccarichi di boat people indocinesi, in maggioranza vietnamiti. Facili
prede, molte imbarcazioni di profughi furono attaccate da pirati indonesiani,
malesi, filippini o tailandesi. Il fenomeno si è praticamente estinto all'inizio
degli anni '90. Ha ripreso vigore dopo la fine della guerra fredda. La riduzione
o il ritiro delle forze marittime delle superpotenze ha infatti lasciato campo
libero ai criminali del mare, «liberatisi» in particolare della base americana
di Subic Bay (Filippine) e di quella sovietica di Cam Ranh (Vietnam).
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Se un tempo la maggior parte delle aggressioni segnalate riguardava navi da
diporto, pescherecci e zattere di profughi, da oltre dieci anni la preda
preferita dei criminali è la marina mercantile. Gli aggressori puntano
soprattutto alle navi commerciali di grosso tonnellaggio, rinnovando la
tradizione dei famosi pirati giavanesi del primo millennio (dal II al VIII
secolo), che terrorizzavano le coste del regno khmer e spadroneggiavano nel mar
della Cina meridionale.
Nel suo rapporto del 1997, la Worldwide Maritime Piracy sottolinea infatti che
«otto aggressioni su dieci colpiscono petroliere, carghi o porta-containers». Le
perdite annue dirette, in termini di navi e carichi, sono valutate 200 milioni
di euro dall'Ufficio marittimo internazionale. Con 113 casi censiti nel 1999
nelle sue acque territoriali, l'Indonesia detiene il record internazionale di
questa forma di criminalità. Un intenso attivismo che si spiega almeno in parte
con la vicinanza del porto di Singapore, al primo posto nel mondo per
tonnellaggio (nel 1998 vi sono state scaricate 15,1 milioni di tonnellate di
merci) e crocevia del 90% dei trasferimenti regionali di prodotti destinati a
porti secondari del sud-est asiatico. Ma il paese deve il suo primato prima di
tutto allo stretto di Malacca.
Via commerciale strategica tra Occidente e Oriente, questo corridoio di 800
chilometri collega l'Oceano Indiano all'Oceano Pacifico attraverso il mare di
Andaman e il mar della Cina meridionale. Percorso ogni giorno da oltre 600 navi
mercantili, separa la penisola malese dall'isola di Sumatra. Lo stretto, la cui
larghezza varia dai 17,5 ai 320 chilometri, è diventato, grazie alla crescita
delle economie asiatiche, il corridoio marittimo più frequentato del mondo,
detronizzando anche la Manica, in Europa. «La presenza di scogli rende già
pericolosa la navigazione, così le navi, obbligate a procedere lentamente,
diventano una preda ideale per i pirati, che utilizzano imbarcazioni piccole, ma
veloci», spiega, a Singapore, un capitano della marina mercantile. Agus
Ridhyanto, direttore generale del Trasporto marittimo indonesiano, ricorda che
«nello stretto, tra il 1984 e il 1999, sono stati registrati non meno di 1.455
atti di pirateria che hanno provocato la morte di 51 marinai». L'instabilità
politica dell'Indonesia rende ancora più insicure queste acque. Partendo da
Sumatra, alcuni gruppi di pirati legati alle triadi di Kowloon (Hong Kong)
catturano navi mercantili e le dirottano verso le zone portuali del sud della
Cina.
Indipendenti, i loro concorrenti hanno le loro basi per lo più ad Aceh: questa
provincia, situata all'estrema punta ovest dell'isola di Sumatra, è teatro di
una violenta ribellione indipendentista condotta contro il potere centrale
indonesiano dal movimento fondamentalista musulmano Aceh Merdeka (Aceh libero).
In un arcipelago dove si moltiplicano le rivendicazioni separatiste, gli uomini
di Aceh Merdeka, considerati tra i destinatari privilegiati del traffico
regionale di armi provenienti dalla Cambogia, fanno regnare, sia in terra che in
mare, un'insicurezza crescente.
Complicità diverse La spirale della criminalità, intrecciata ai disordini
politici che minacciano anche la vicina Malesia ed esasperata dagli effetti
della crisi economica regionale, si allarga ormai a tutta l'Indonesia. In questi
ultimi mesi, atti criminali sempre più numerosi hanno colpito parecchie zone
portuali.
Aumento dei rischi vuol dire aumento dei premi assicurativi e dunque dei costi
di trasporto. Come è avvenuto nel maggio 1998, quando, mentre il paese
naufragava da due mesi in un marasma che sarebbe costato il potere al
generale-presidente Suharto, l'Institute of London Underwriters e la compagnia
londinese di assicurazione Lloyd hanno deciso di inserire l'Indonesia nella
lista dei «paesi a rischio». I premi di assicurazione per le navi che incrociano
nelle acque territoriali indonesiane sono stati aumentati dal 10% al 20%. E
questo ha contributo a far crescere i prezzi di alcuni prodotti di consumo, in
Indonesia come in tutta la regione.
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Secondo la Federation of Asian Shipowners' Associations, nel 1997 le compagnie
marittime asiatiche, che possiedono il 40% della flotta mercantile mondiale,
hanno speso tra 1,6 e 2,3 miliardi di euro in premi assicurativi. La maggior
parte di questi fondi vengono trasferiti in Europa o negli Stati uniti, che
ospitano le sedi dei giganti delle assicurazioni marittime. Secondo una
compagnia interpellata a Singapore, l'esplodere di un conflitto tra i
separatisti dell'Aceh Merdeka e l'esercito indonesiano potrebbe provocare un
aumento dei costi assicurativi del 50% circa.
Se un piccolo cargo catturato non ha alcuna difficoltà a trovare, senza aiuto
esterno, un attracco discreto per far sparire il suo carico, le cose sono molto
più complesse per le navi di grosso tonnellaggio. Lo svuotamento delle cisterne
e lo scarico dei container sono possibili solo utilizzando le infrastrutture
delle grandi aree portuali. Le bustarelle ai funzionari incaricati della
sorveglianza e della gestione dei porti rimangono dunque il sistema più pratico
per i pirati collegati con i gruppi mafiosi insediati nelle Filippine, in
Indonesia, a Hong Kong o nella provincia costiera cinese del Guangdong. La
rivendita delle navi rubate rappresenta, paradossalmente, la fase più facile
dell'operazione. Grazie alle bandiere ombra [3], che consentono di registrare
temporaneamente qualsiasi nave senza troppe domande, i pirati non hanno
difficoltà a trovare un compratore o a riutilizzare sotto un altro nome la nave
caduta nelle loro mani.
Il caso più plateale di complicità tra autorità e «criminali dei mari» è quello
della Cina popolare. La questione dell'MV Tenyu, cargo della compagnia
giapponese Tonan Shipping battente bandiera panamense, ha fatto luce sulla
«gestione» della pirateria da parte delle autorità cinesi. Nella notte del 27
settembre 1998, dopo aver lasciato l'isola di Sumatra in direzione della Corea
del Sud, l'MV Tenyu con il suo carico di beni e persone scompare nello stretto
di Malacca; nelle sue stive porta migliaia di lingotti di alluminio per un
valore di quasi due milioni di euro. Dopo tre mesi di ricerche, il battello
fantasma viene localizzato nel porto cinese di Zhang Jiagang: ridipinto da poppa
a prua, ora si chiama Sanei 1, un nome fittizio preso in prestito da un'altra
nave giapponese. Alla fine del 1998, mentre trasporta 3.000 tonnellate di olio
di palma, la nave usurpatrice, dotata di documenti legali rilasciati in
Honduras, viene catturata dalla polizia portuale di Canton. A bordo, sedici
marinai indonesiani sostituiscono i quindici membri dell'equipaggio originario
dell'MV Tenyu, ormai dati per morti. Contravvenendo alla Convenzione di Roma del
1988 di cui è firmataria, la Cina, nel luglio 1999, decide di rimandare i
marinai indonesiani nel loro paese di origine in quanto non avrebbero commesso
alcuna infrazione sul territorio cinese.
Altri fatti hanno messo in evidenza la responsabilità di unità appartenenti alle
forze navali cinesi. Uno degli esempi più citato dai media è stato, nel 1994,
quello della Alicia Star. La nave, battente bandiera panamense, fu intercettata,
con il suo carico di sigarette, da una corvetta militare nello stretto di Luzon,
lungo la rotta Singapore-Corea del Sud.
Gli osservatori concordano nel ritenere
che la corvetta militare appartenesse all'esercito cinese. Alcuni militari
sfuggiti al controllo di Pechino, con la benedizione delle autorità portuali e
doganali si sarebbero impadroniti dell'Alicia Star per smerciare di contrabbando
le sigarette sul territorio cinese. Secondo un responsabile dell'Istituto malese
degli affari marittimi, questo episodio è «il sintomo che in Cina esiste un
problema più ampio: la perdita di autorità del centro sulla periferia ». Un
fenomeno che si ritrova - in modo più o meno evidente - in Indonesia, Vietnam,
Filippine e Thailandia.
Le difficoltà economiche di questi ultimi trenta mesi hanno inoltre obbligato i
governi asiatici a ridurre drasticamente i mezzi messi a disposizione delle
unità guardiacostiere e della marina. In Thailandia, per esempio, il budget
annuo della Marina reale, aumentato progressivamente fino al 1997, è crollato
dopo la svalutazione delle monete asiatiche. Da 18,76 miliardi di baht (circa
750 milioni di euro) nel 1995, è passato a 21,34 miliardi nel 1997, per poi
crollare a 15,34 miliardi nel 1999. Per Richard Lim, viceammiraglio della Marina
della Repubblica di Singapore, «il solo mezzo per combattere efficacemente
questo tipo di criminalità sarebbe bloccare i pirati nei loro rifugi, il che
presupporrebbe tuttavia un serio coordinamento tra polizia e servizi segreti dei
paesi membri dell'Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico [Asean]». Ma,
malgrado alcune piccole forme di coordinamento attuate in questi ultimi due
anni, il principio di non ingerenza negli affari interni dei singoli paesi resta
il fondamento politico dell'Asean, fin dalla sua creazione nel 1967. A parte
alcuni casi di cooperazione in materia di sicurezza marittima (Indonesia-Singapore,
Malesia-Singapore, Thailandia-Vietnam), questo principio impedisce qualsiasi
iniziativa di rilievo.
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Fino ad oggi, solo Jakarta e Singapore hanno firmato un accordo bilaterale che permette alle forze marittime dei due paesi di inseguire i pirati anche nelle acque territoriali dell'altro. Per il resto, le intercettazioni oltre i limiti territoriali (19 chilometri) non sono legali in un continente fortemente segnato da conflitti di sovranità. Gli arcipelaghi Spratley e Paracel, per esempio, sono rivendicati, in parte o in toto, da sette paesi (Brunei, Cina popolare, Indonesia, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam) . Ne consegue l'impossibilità di trovare un'intesa sul seguente problema: chi è giuridicamente autorizzato a svolgere il ruolo di «polizia» in queste zone, tra l'altro ricche di giacimenti d'idrocarburi off-shore ? Nel Sud-est asiatico, imprenditori marittimi e giuristi chiedono ai governi dell'Asean di aderire alla Convenzione di Roma. In Giappone, le associazione di armatori propongono la creazione di un corpo di caschi blu del mare sotto l'egida delle Nazioni unite. Il progetto, vera e propria chimera della lotta anti-pirateria, si è finora arenato su due punti cruciali: peso finanziario di questa unità permanente e sovranità degli stati della regione.