Dang Khan Thoai è il primo segretario dell'ambasciata vietnamita in Italia. Ad una nostra domanda, in cui gli chiedevamo quali fossero le relazioni in Vietnam tra il governo e le imprese delle multinazionali ci rispondeva: "non esistono multinazionali in Vietnam". Il signor Thoai ha ragione, almeno dal punto di vista formale. Un tempo le multinazionali producevano esse stesse le cose che vendevano. Oggi si limitano a definire i modelli, ad organizzare la pubblicità e a distribuirli. Alla produzione pensano altri. La produzione in appalto è particolarmente gradita alle multinazionali perché le libera da tutti i rischi legati alla produzione e da ogni responsabilità rispetto alle condizioni di lavoro. Consente lo sfruttamento delle condizioni socioeconomiche favorevoli messe a disposizione da alcuni Paesi senza sobbarcarsi i rischi che le condizioni politiche di questi stessi possono rappresentare. Il signor Thoai, rappresentante della Repubblica Socialista del Vietnam, allora nasconde la testa nella sabbia, nega una realtà tragica del suo Paese: le multinazionali (Nike in testa) stanno comprando il suo popolo già strangolato per sottometterlo, sfruttandone la disperazione.
Fino al 1990 i protagonisti della produzione in appalto erano la Corea del Sud,
Taiwan e Hong Kong, ma poi subentrarono altri Paesi come Cina, Indonesia e
Tailandia. La ragione di questa variazione sta nei salari. Nonostante venti anni
di industrializzazione vissuta nella repressione, gli operai sudcoreani sono
riusciti ad organizzarsi e grazie alle loro lotte oggi percepiscono salari assai
più alti. Le conquiste ottenute dai lavoratori della Corea del Sud e di Taiwan
non sono piaciute alle multinazionali che hanno cominciato subito a cercare
altri Paesi in cui trasferire la produzione, ma il problema era che in quelli
individuati non esistevano ditte solide cui appaltare la produzione. La
soluzione del problema è venuta dalle stesse società sudcoreane, di Taiwan e
Hong Kong che già lavorano per le multinazionali: pur di continuare ad avere le
commesse delle multinazionali erano disposte ad aprire nuovi punti produttivi
dove la manodopera costa meno. In questo modo le società di Corea del Sud,
Taiwan e Hong Kong si sono a loro volta trasformate in multinazionali che
investono soprattutto in Paesi come l'Indonesia, la Cina, il Vietnam, la
Thailandia, il Guatemala, El Salvador, dove i salari sono bassi e non sono
garantite le libertà sindacali. La convenienza di questo modello è testimoniata
dall'incidenza del costo del lavoro sul prezzo del prodotto finito: 0,1%
(settore calzaturiero)!
La penetrazione nei paesi dell'area "ASEAN"(1): il caso Vietnam
Incalziamo il signor Thoai con domande sugli investimenti stranieri in Vietnam e
le forme della proprietà straniera. Ci dice che: "la legge vietnamita sugli
investimenti
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ha lo scopo di convogliare capitale straniero nel
mercato vietnamita, è la più vantaggiosa tra tutte le leggi sugli investimenti
stranieri della Regione". Il vantaggio cui si riferisce il signor Thoai non è
per i vietnamiti ma per le imprese straniere.
L'economia vietnamita dal 1980 corre sul doppio binario dell'economia mista
Stato + mercato, e dove lo Stato ha il compito di assicurare al "mercato" tutte
le condizioni di appetibilità degli investimenti. Ci sono quindi imprese
statali, private e joint-ventures tra Stato e investitori stranieri in cui lo
Stato vietnamita mette la terra e il privato il 10% del capitale. I settori
economici prescelti dall'impresa privata sono l'industria e il turismo; il
confronto tra la situazione attuale degli investimenti e i progetti futuri
rileva un sostanziale abbandono delle concentrazioni industriali (Zone) a favore
della diffusione territoriale dell'industria, caratterizzata da minor controllo
statale. Lo Stato d'altro canto ha già decollettivizzato l'agricoltura,
abbandonato il controllo dei prezzi e la moneta (dong) è oggi libera di
svalutarsi ("flottare") ai tassi di mercato.
La stessa legislazione nonché la Costituzione dello Stato sono soggette a
continui riaggiustamenti, per adeguarsi alle necessità concrete delle imprese
private. In particolare la legge sugli investimenti stranieri del 1996 (vedi
riquadro) dà priorità agli investimenti per l'export. Produrre in funzione
dell'export significa ignorare i bisogni del Paese in funzione dei bisogni dei
committenti, costruire un'economia che risponde ai bisogni del mercato esterno e
quindi oltretutto dipendente dalle sue fluttuazioni. Sudcoreani e indonesiani
hanno pagato cara, con enormi disparità sociali, l'applicazione di questo
modello nei loro Paesi, modello che in una prima fase aveva migliorato le loro
condizioni (alti salari e sviluppo reale) allo scopo di allontanare la
possibilità che questi Paesi cadessero nell'orbita socialista.
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Il doppio binario in economia si riflette sulla legislazione sul lavoro:
differenti minimi salariali tra impresa privata e statale, inesistenza del
sindacato nel privato, abolizione di fatto del diritto di sciopero. Il salario
minimo nel settore pubblico è di 120.000 dong al mese (12 US$), mentre nel
settore privato è fissato a 350.000 dong (35 US$), ma si stima che nel 20% dei
casi le joint-ventures paghino meno del minimo, istituendo unilateralmente
periodi di prova lunghissimi, aumentando arbitrariamente l'orario di lavoro o
trattenendo parte del salario per le assenze giustificate. Nonostante ciò vi è
stata un'emorragia consistente di lavoratori qualificati dal settore pubblico a
quello privato. Nella stragrande maggioranza dei casi (70%) non c'è un contratto
di lavoro (che comporterebbe oneri inaccettabili anche dal lavoratore) cosicché
non vi è copertura assicurativa e il ricatto occupazionale da parte delle
aziende sui lavoratori si traduce spesso in forme di umiliazione e di tortura
psicofisica. Per arginare le reazioni dei lavoratori, che dal 1992 diedero vita
a numerosi scioperi e boicottaggi soprattutto nelle joint-ventures coreane, il
governo emanò nel 1996 la nuova Legge sul Lavoro; vi si sancisce che lo sciopero
"deve essere l'ultima soluzione" dopo che tutti gli sforzi di riconciliazione
con l'azienda sono stati fatti e se "le rivendicazioni sono legittime". A far da
garante dell'applicazione della legge sul lavoro è il sindacato unico GCL,
emanazione del partito comunista burocratizzato e degenerato al potere, oppure i
sindacati gialli aziendali istituiti dalle imprese straniere.
La CIA nel suo Fact Book 1997 parla del Vietnam come uno Stato "che ha fatto
significativi progressi negli anni recenti, staccandosi da un modello ad
economia pianificata per un sistema economico effettivamente basato sul
mercato". Il Presidente Clinton omaggia il neo ambasciatore del Vietnam Le Van
Bang dicendo che "oggi Usa e Vietnam condividono una vasta gamma di interessi e
stanno cercando nuovi modi per lavorare assieme come partner paritari alla
ricerca delle nostre mete comuni" e "il Vietnam ha dimostrato di essere una
grande promessa per la pianificazione di un importante ruolo nella sicurezza
della regione e nelle istanze economiche". Se si considera la politica degli USA
verso la Cina, il Vietnam, Cuba o la Corea del Nord non si possono non notare
profonde differenze nonostante questi Paesi vengano tutti comunemente aggregati
nell'area ex-socialista: le lobbies investono in quei Paesi in cui lo Stato è
disposto a rinunciare ad ogni controllo
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sulla produzione e sulle condizioni di
lavoro, in cui cioè una classe burocratica al potere è più disponibile (2) a
divenire compradora. I Paesi recalcitranti vengono invece sanzionati e costretti
passo-passo all'economia di mercato. Il ricatto dell'investimento prima e della
concessione di crediti poi, dà l'avvio ad una spirale che porta di fatto i
governi ad essere subordinati alle strategie delle multinazionali. Dice sempre
il signor Dang Khan Thoai: "Da quando i rapporti si sono normalizzati si è
aperto un grande spazio per la cooperazione economica con gli USA. Molte società
americane hanno guadagnato spazio sul mercato perché hanno investito molto
denaro nell'economia vietnamita. Oggi sono al terzo posto dei grossi
investitori.".