Negli anni ‘50 la Birmania, paese composto da più stati, era tra i più ricchi della regione. Alla fine del periodo coloniale la mano d’opera arrivava anche da Tahilandia, India, Cina, Pakistan, Bangladesh. Il regime militare in atto dal 1962 l’ha fatta scivolare tra i paesi meno sviluppati. Scuole ed università sono state chiuse, i servizi sanitari di base proibiti. L’esercito è passato da 175.000 a 400.000 unità. Con le elezioni del 27 maggio 1990 e la vittoria della democrazia, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) aveva ottenuto 392 dei 485 seggi al parlamento. Ma questa vittoria è durata lo spazio di un mattino: oltre 100 dei deputati eletti furono arrestati dall’esercito, 20 morirono in carcere, mentre gli altri sono riusciti a fuggire in esilio.
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Uccisioni extragiudiziali, arresti, reclutamento forzato nell’esercito e lavoro forzato sono la linea di comportamento della giunta militare. A ciò si aggiunge la durissima repressione nei confronti dei gruppi etnici. Prima delle elezioni dell’89 si era riusciti a concordare una sorta di federalismo, che riconosceva la autonomia dei gruppi etnici nei confronti del governo centrale. Questa ipotesi è completamente saltata dopo la repressione delle elezioni. I Kareni e gli altri gruppi etnici, considerati i ribelli, subiscono da anni la deportazione forzata dalla giungla, verso i luoghi più “controllabili”. Poiché la maggioranza dei Kareni sono contadini, i militari bruciano i loro villaggi e distruggono i mezzi di lavoro, costringendo la popolazione a muoversi verso le città; più di 100 mila sono coloro che scappano e si nascondono nella giungla. Per evitare che possano ritornare nei villaggi di provenienza, i militari, dopo aver bruciato le case, minano le strade dei villaggi e i campi di riso. La popolazione è costretta quindi a sopravvivere negli stenti, pur sapendo che chiunque viene trovato nella giungla viene ucciso. L’esercito professionale è il centro del potere. Incontrollato ed è anche il detentore di enormi attività produttive, attraverso le quali ricicla il denaro ricavato dal traffico di droga e di armi. I soldati sono reclutati con quote assegnate alle province e attraverso il reclutamento forzato e improvviso. Chiunque in un qualsiasi giorno può ritrovarsi in un cinema, o in una stazione ferroviaria e può venire catturato da raid dell’esercito e costretto o all’arruolamento o a fare il portatore per conto dell’esercito. Anche le donne possono essere prese e costrette al lavoro forzato per costruire strade, ponti ferrovie o a fare qualsiasi altro lavoro nelle imprese gestite dai militari, ma soprattutto in quelle legate al turismo. Molte sono violentate o costrette a offrirsi ai militari. Migliaia di persone da 19 villaggi sono state costrette a costruire la strada da Mandalay a Lashio. Dal maggio scorso molti villaggi nella zona di Mawleik nella Divisione di Sagaing, sono stati obbligati a fornire lavoro per riparare la superstrada di Thet-Ke_Kyin-Homalin . Dal 1988 il governo si è impegnato a raddoppiare l’area coltivata. Ciò ha comportato la costituzione di “villaggi di lavoro” per aiutare gli imprenditori privati, comp reso investitori stranieri a sviluppare le piantagioni.. Ogni villaggio doveva fornire almeno due persone. Chi non resiste e si ammala è spesso eliminato fisicamente. Esecuzioni estragiudiziali di civili, stupri e omicidi di donne vengono denunciate costantemente. Molte persone continuano a sparire per ore o settimane, alcune non sono mai ritornate. La Federazione dei sindacati birmani (FTUB) è stata proibita ed il sindacato da allora opera in clandestinità o dall’estero. Sin dagli anni sessanta il problema del lavoro forzato in Birmania è oggetto di interesse da parte delle istituzioni internazionali e dei sindacati. Molto è stato fatto ma i tempi e i risultati sono troppo lenti, se si pensa che centinaia di migliaia di persone ogni giorno pagano il prezzo di questa repressione, anche con la vita. Negli ultimi anni l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha attivato due procedure speciali contro il Paese. Una di queste su iniziativa della CISL Internazionale nel 1993 e solo a novembre 2000 si è avuta una forte sanzione contro la Birmania. Nei giorni scorsi la sessione di marzo /aprile della Commissione ONU sui diritti umani ha approvato una risoluzione che conferma le preoccupazioni internazionali sulle persecuzioni degli oppositori politici, inclusa la premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ancora agli arresti domiciliari. La Commissione ha chiesto ancora una volta alla giunta militare di interrompere l’uso delle mine, che causa continuamente vittime e mutilazioni tra la popolazione civile come pure la deportazione forzata delle persone. Dure sono state ancora le critiche per il reiterato utilizzo sistematico del lavoro forzato. Nel 1995 la Cisl Internazionale, in collaborazione con la Confederazione Europea dei Sindacati, chiese ed ottenne che l’Unione Europea sospendesse totalmente i rapporti economici e commerciali con la Birmania a causa del lavoro forzato. La costruzione di strade, autostrade, aeroporti e centrali elettriche è stato senza dubbio il settore più coinvolto nel lavoro forzato. Nel rapporto sindacale si fa spesso riferimento ad un singolo caso, ma molto rappresentativo: il progetto e la costruzione dell’autostrada Ye -Tavoy, famosa con il macabro soprannome di “autostrada della morte”. Le fonti parlano di circa 160.000 persone di etnia Karen e Mon spostate nella regione interessata e di circa 30.000 soldati utilizzati per reprimere eventuali rivolte. Il caso è simbolico perché tra le prove risultano anche i volantini che le autorità facevano distribuire nei villaggi e che sottolineavano chiaramente quale sarebbe stata la sorte di chi si fosse rifiutato di abbandonare famiglia e lavoro e propria casa. Una giornalista della BBC, tra i pochi che riuscirono a constatare di persona le condizioni di lavoro, descrisse la situazione peggiore di quella dei prigionieri di guerra durante l’occupazione giapponese della II guerra mondiale. Ma anche imprese straniere hanno contribuito a alimentare questa disumana forma di lavoro.
Alcuni contadini in una risaia |
L’Unocal, insieme alla TOTAL e la PTT alcuni anni fa hanno sottoscritto un
contratto per la costruzione
del metanodotto di Yadana, che collega i giacimenti nel golfo di Martaban in
Birmania, con
al centrale di Racthaburi in Tailandia. Al progetto ha partecipato anche la
Saipem che ha costruito la
sezione sottomarina del gasdotto.
Circa 200.00 persone sono state costrette a lavorare per la costruzione di una
ferrovia connessa al
gasdotto, gli abitanti di oltre 50° villaggi nei distretti di Ye Byu, Thayet
Chaung e Tavoy sono stati
spostati forzatamente. Secondo l’Osservatorio geopolitico delle droghe di
Parigi, la Myanmar Oil
Enterprise è anche “ il principale canale di riciclaggio dei proventi
dell’eroina prodotta ed esportata
sotto la supervisione dell’esercito birmano” e “utilizza potenti partner
stranieri come scudi per le
operazioni di riciclaggio. E’ a causa del lavoro forzato e della deportazione
forzata di interi villaggi,
grandi masse di popolazione, che non vogliono abbandonare il paese si nascondono
nelle campagne
e nella foresta.
Per questo motivo i capitali entrati nel Paese non hanno avuto alcun effetto
benefico per le condizioni
di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione, affluendo solo nelle
tasche dei militari. La
sospensione degli investimenti e degli aiuti da parte della UE rappresenterebbe
un duro colpo per la
giunta militare ed un forte segnale anche per la comunità internazionale.
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La Birmania finalmente condannata Nel 1996 l’OIL ha lanciato una nuova offensiva contro l’uso del lavoro forzato da parte della giunta militare. Un’iniziativa del genere costituisce di per sé una significativa condanna politica e morale nei confronti di un membro dell’Organizzazione. Dal 1919 sono state costituite solo 16 commissioni. Alla fine di tutto questo enorme lavoro nel giugno 2000 i 174 paesi membri dell’OIL hanno approvato una storica risoluzione che raccomanda i governi, gli imprenditori e i sindacati a rivedere i loro rapporti con al Birmania e a prendere le misure appropriate per assicurare che questa non possa utilizzare tali rapporti per perpetuare o estendere il sistema del lavoro forzato o obbligatorio .La stessa richiesta è rivolta alle organizzazioni internazionali affinché rivedano i loro rapporti sino ad annullarli, dando mandato al Direttore generale dell’OIL di chiedere che l’ONU discuta nella sessione del prossimo luglio della situazione birmana. Tempi lunghi, piccoli passi, grandi sofferenze. La condizione dei rifugiati I rifugiati birmani nella regione sono milioni. Moltissimi costretti a vivere nei campi profughi o clandestinamente tra l’India, il Bangladesh, la Tailandia. Le loro condizioni di vita sono dure come quelle di tutti i rifugiati. Uno spaccato di questa situazione la può dare benissimo Mae Sot, città al confine con la Birmania. Qui il 70% della popolazione è birmana. 30.000 sono i rifugiati ufficiali nel campo rifugiati di Mae la, uno dei sette campi lungo il confine tra Tailandia e Birmania. Circa 100.000 sono gli immigrati illegali, che vivono e lavorano clandestinamente nei cantieri edili, in agricoltura o nelle 72 fabbriche d’abbigliamento, la maggior parte delle quali – anch’esse illegalmente- producono per l’esportazione. Le fabbriche tessili sono decine e decine e occupano circa 5- 0.000 donne, costrette a lavorare per sopravvivere per un minimo di 10/15 ore al giorno, con un salario pari a circa 3.000 lire al giorno. Il campo rifugiati si arrampica lungo le colline coperte da una fitta vegetazione. Case di bambù con tetti di foglie di teck. La vita è molto dura: non c’è corrente elettrica, solo alcuni generatori e molte candele; non c’è acqua corrente perciò tutti, anche i bambini piccoli fanno le loro scorte con bottiglie o taniche. Una lunga fila di gente di ogni età si snoda durante la mattina per prendere l’acqua, cercare verdure nel bosco, tagliare canne di bambù per riparare le case. Grande è il senso di dignità presente in ciascuno. Ma non si legge sul volto di nessuno la rassegnazione. C’è un forte senso di identità e di voglia di prepararsi al futuro. A rientrare per vivere in pace nel proprio villaggio.