L'altra epidemia
L'influenza aviaria non è cosa nuova. Nel 2004, infatti, si verificò una vera e
propria epidemia, della quale, oggi, sono disponibili i dettagli. La premessa è
che la Thailandia è uno dei maggiori produttori di pollame: circa un miliardo di
capi l'anno, con 400.000 addetti circa, senza contare gli allevamenti domestici
per il consumo diretto. Gli allevamenti sono concentrati nelle regioni centrali
e orientali. Le morti di polli cominciarono alla fine di dicembre 2003 e circa
un mese dopo venne isolato l'ormai famoso virus H5N1, che a sua volta derivava
dal sottotipo che aveva agito nell'anno 2000. Anche i casi di contagio
dall'animale all'uomo cominciarono nello stesso periodo. C'è la quasi certezza,
da parte delle autorità sanitarie thailandesi che il virus sia stato introdotto
nel paese dall'esterno, con le migrazioni di uccelli selvatici dalle pianure
della Cina, in occasione della stagione fredda, ma non è stato possibile
tracciarne il percorso, né trovare con certezza il caso indice, cioè il primo.
L'epidemia si è svolta in due fasi. La prima va da gennaio a maggio 2004, con
focolai in 188 villaggi situati in 42 delle 76 province in cui è suddiviso il
paese. Una distribuzione uniforme, che prova come il virus si fosse diffuso
abbastanza equamente. La seconda va da luglio a dicembre 2004, e furono
identificati focolai in 1243 villaggi, in 51 province, ma con massima
concentrazione in tre regioni.
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Anche se si parla di virus del pollo, non solo di polli si è trattato.
Rappresentarono il 56% dei casi identificati, ma le anatre, che erano anche
portatori silenti, sono state il 27%. Furono coinvolti anche altri volatili, per
esempio le quaglie, e altri animali come gatti, leopardi e tigri degli zoo
furono contagiati e uccisi. Le misure poste in atto per contenere l'epidemia
sono intuibili: intanto venne istituita una rete di sorveglianza, poi si stabilì
di giudicare sospetto qualsiasi caso di allevamento in cui si fosse verificata,
in un giorno, la morte di più del 10% dei capi. Dopodiché si passò anche
all'eliminazione preventiva di tutti i volatili presenti nel raggio di 5 km dai
focolai nei quali era stato accertata la presenza del virus aviario. In totale i
volatili morti o abbattuti furono 62 milioni, con un costo per lo stato, che
rimborsò i contadini, di circa 132,5 milioni di dollari. Si badi però che il
rimborso fu parziale (inizialmente l'85% poi il 75% del valore del capo) e che
comunque questa è solo una parte del danno. Infatti vanno considerate le misure
sanitarie - che hanno un costo, ovviamente -, la perdita di produttività,
l'effetto sul commercio estero. In definitiva il prodotto nazionale lordo calò
dello 0,39%, con un danno stimato attorno ai 660 milioni di dollari.
Perdite umane? Fortunatamente poche: 17 contagiati con 12 decessi. Se si pensa
alla diffusione enorme dell'infezione tra i polli, è evidente che il contagio
nell'uomoè stato rarissimo, se non statisticamente insignificante. Non si
dimentichi, infatti, che 400.000 persone viveva a stretto contatto con gli
animali, per ragioni lavorative.
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La conclusione è che, comunque, l'influenza
aviaria è una calamità se non altro per l'economia. Più triste ancora ammettere
che la massima vulnerabilità, e quindi l'occasione di contagio, si ha dove gli
animali vivono liberi. In particolare si sottolinea il peso che hanno avuto le
anatre tenute in libertà nella trasmissione della malattia. Va da sé, poi, che
non è più concepibile come purtroppo avviene in questa area, coniugare grandi
produzioni e misure igieniche precarie. Infatti, nel corso dell'epidemia, gli
allevamenti soppressi potevano essere riorganizzati soltanto dopo aver atteso un
periodo di decontaminazione e rispettando una serie di standard igienici prima
sconosciuti. Basta tutto questo? Forse no, in una prima fase, visto che focolai
si sono presentati anche dopo la fine del 2004. Però non c'è un'alternativa
praticabile. Non è un caso che ancora oggi in Europa, malgrado i casi accertati,
non vi sia stata diffusione.
Maurizio Imperiali