Nel breve periodo di un centinaio di anni circa, tra il secolo XVII e gli inizi del XVIII una corrente migratoria tra le più forti che la storia ricordi si diresse dall’Europa verso l’America. Questo movimento, le cui cause erano profonde e diverse, creò dal nulla una nazione e forgiò, per la sua stessa natura, il carattere e il destino di un continente inesplorato.
Gli Stati Uniti rappresentano oggi infatti il prodotto di due forze principali: l’immigrazione di gruppi di popolazioni europee che recavano idee, consuetudini e caratteristiche nazionali già ben definite e l’influsso ambientale di un paese nuovo che modificò col tempo questi aspetti caratteristici della civiltà europea. L’America dell’epoca coloniale rappresentava una proiezione dell’Europa: gruppi di inglesi, francesi, tedeschi, scozzesi, irlandesi, olandesi, svedesi e di altre nazionalità attraversarono successivamente l’Atlantico nel tentativo di trapiantare nel Nuovo mondo i loro costumi e le loro tradizioni: inevitabilmente però la forza stessa di condizioni geografiche particolari, il mescolarsi l’uno con l’altro dei vari gruppi nazionali e la difficoltà insuperabile di conservare in un continente vergine consuetudini del Vecchio Mondo provocarono mutamenti significativi, graduali nelle loro fasi e dapprima appena percepibili: ne risultò, comunque, un nuovo ambiente sociale, che, quantunque ricordasse sotto molti aspetti la vecchia società europea, possedeva un carattere nettamente americano.
Il sud fu la prima zona esplorata dagli europei che vi giunsero sia via mare sia via terra. Tra gli altri, Giovanni da Terrazzano costeggiò il Maine nel 1523-25 e Sir Walter Raleigh stabilì un primo insediamento in Virginia nel 1585-1589. Ulteriori insediamenti si ebbero nel secolo successivo, sulla costa orientale e nell’attuale Canada francese da dove partirono varie spedizioni verso l’interno, cosicché alla fine del XVIII secolo il territorio americano, con l’eccezione delle Montagne Rocciose, era quasi completamente conosciuto nelle sue linee generali; all’inizio del 1800 poi, si giunse anche all’attraversamento delle Montagne Rocciose.
Tra il 1607 e il 1733 nacquero le 13 colonie inglesi caratterizzate da spirito d’iniziativa e di efficienza che derivavano dalla particolare composizione della popolazione dei fondatori, in gran parte artigiani, piccoli proprietari, uomini espulsi dagli stati europei per motivi religiosi o politici. Alcune di queste colonie furono create da compagnie commerciali: la Virginia dalla compagnia di Londra, il Massachusetts dalla compagnia di Plymouth, in seguito allo sbarco dal Mayflower presso Cape Cod. A seguito dello smantellamento, nel 1664, dei possedimenti olandesi, nacquero poi la colonia di New York e quella del New Jersey. Varie altre colonie si formarono negli anni successivi.
L’evoluzione politica fu simile in tutte le colonie. Da un lato, l’autorità reale tentò di affermare il suo dominio mediante la progressiva elaborazione di una dottrina imperialista che fu attuata in varie forme: diretto legame tra colonie e Corona, opposizione del veto reale alle decisioni delle assemblee locali, creazione di una solida rete di agenti finanziari e doganali. Dall’altro lato, una evoluzione centrifuga dotava le colonie di franchigie politiche elaborate spontaneamente, poi confermate da carte reali e concesse dalla Corona. Il governo delle colonie appariva come un compromesso tra due tendenze: da una parte il governatore, sovente appoggiato e addirittura nominato dall’assemblea della colonia, assistito da un consiglio, che rappresentava il re; dall’altra, l’assemblea eletta dai coloni che votava i bilanci e ratificava i progetti del consiglio. A seconda delle colonie l’uno o l’altro di questi poteri aveva il predominio e l’assemblea era in maniera maggiore o minore rappresentativa. In tutti i casi il dualismo dei poteri favorì conflitti.
Le colonie inglesi si trovarono a scontrarsi con le popolazioni indigene e con le colonie canadesi e spagnole. Fino al 1744 un conflitto silenzioso oppose i due campi e fu segnato dal sorgere di forti rivalità nella regione dei grandi laghi dell’Ohio e dalla ricerca dell’appoggio degli indiani al fine di massacri reciproci. La Guerra dei sette anni, conclusasi vittoriosamente per la Gran Bretagna nel 1763 permise alle colonie britanniche dell’America settentrionale di estendersi oltre la linea degli Appalachi fino all’Ohio e al Mississippi. Si intensifica inoltre il conflitto con la madrepatria che voleva affermare più pesantemente il suo potere sulle colonie con imposizione di tasse, appannaggi fissi ai governatori e mantenimento di truppe. I coloni opposero a queste misure l’affermazione dei loro diritti, il boicottaggio dei prodotti britannici e un congresso a New York che indirizzò al re una petizione. Il governo di Londra sembrò assumere posizioni più moderate ma in seguito emanò un atto con cui si attribuiva la completa competenza in materia di legislazione coloniale. Dopo vari disordini si arrivò nel dicembre 1773 al famoso Tea Party, cioè l’affondamento di un carico di tè nel porto di Boston. Londra reagì con leggi repressive che provocarono dure reazioni da parte dei coloni i quali giunsero ad interrompere i rapporti commerciali con la madrepatria. Lo scontro culminò con la Dichiarazione d’indipendenza del 4 Luglio 1776.