Per le donne è stato sempre difficile conciliare la loro identità di madre con il lavoro. Per questo molte mamme dopo aver avuto un bambino decidono di licenziarsi.
In altri casi il datore di lavoro decide che a parità di bravura è più "conveniente" assumere un uomo piuttosto che una donna; la discriminante è molto spesso legata al timore della maternità, per cui le donne sono considerate meno affidabili degli uomini e la scelta per loro è spesso obbligata: figli o carriera.


Coppie con figli per età della donna e numero di figli (rosa: 1 figlio; giallo:2 figli; verde: 3 o più)

A questo punto, è d'obbligo chiedersi come la donna italiana viva la sua maternità.
Fin dall'antichità la società italiana si è dimostrata come altamente "familistica" e "matriarcale"; l'italiano è dunque storicamente legato al "mammismo", ovvero a una dipendenza privilegiata dalla figura materna, che simboleggia sicurezza e protezione.
Nella cultura tradizionale, infatti, la maternità è intesa come l'affermazione della donna come tale: da quel momento in poi il suo ruolo non è più secondario e, soprattutto, è riconosciuto dall'uomo.

Fino a pochi decenni fa, dunque, nelle zone rurali non si riteneva utile istruire le bambine in quanto l'unico compito  riconosciuto loro era quello di perpetrare il gruppo famigliare.
Se però questo fenomeno in Italia era circoscritto agli strati più bassi della popolazione ed oggi è praticamente scomparso (grazie ad una maggiore vigilanza sull'abbandono della scuola dell'obbligo), in alcune zone del mondo esso è ancora presente come è attestato nel rapporto dell'UNICEF "La condizione dell'infanzia nel mondo 2004".
Secondo il rapporto UNICEF, se non si agirà prontamente per aumentare nell'arco dei prossimi due anni il numero di bambine che hanno accesso alla scuola, gli obiettivi globali per la riduzione della povertà e il miglioramento della condizione umana saranno disattesi. Per altro verso, il rapporto sostiene che abbattere le barriere che impediscono alle bambine l'accesso alla scuola (la lontananza delle scuole dalle abitazioni, la mancanza di acqua potabile e di bagni separati, nonché tutti i contesti in cui vi è un onnipresente pericolo di violenza tanto all'interno quanto nei luoghi circostanti l'edificio scolastico) produrrebbe benefici tanto per le bambine quanto per i bambini e per i loro Paesi.
Inoltre l'organizzazione sottolinea come i tassi di analfabetismo siano ancor oggi notevolmente più elevati tra le donne che non tra gli uomini, e come ogni anno vi siano almeno 9 milioni di bambine in più, rispetto ai maschi, escluse dalla scuola, con conseguenze a lungo termine non solo per le donne e le bambine, ma anche per i loro figli e le loro famiglie.


L'UNICEF: associazione mondiale per la protezione dell'infanzia.

Il rapporto UNICEF fornisce prove evidenti del fatto che assicurare alle bambine un'istruzione di base di qualità significa anche migliorare altri indicatori della qualità della vita. Per esempio, è dimostrato che la maggioranza dei paesi con i più bassi tassi di iscrizione scolastica secondaria delle ragazze sono anche i paesi con i tassi più alti di mortalità infantile.
“Per un bambino la mancanza di istruzione non solo limita le sue potenzialità come individuo, ma riduce drammaticamente le prospettive che, una volta divenuto adulto, i suoi figli siano in grado di sfuggire a una vita di povertà e sofferenze ”, ha sottolineato Carol Bellamy, direttore generale dell'associazione: “ Per tali ragioni l'UNICEF individua nell'istruzione un aspetto chiave per l'intera agenda dello sviluppo, dal momento che l'istruzione previene lo spreco di un enorme potenziale di capacità umane ”.
Esempio dopo esempio, il rapporto UNICEF descrive nel dettaglio come l'abbattimento delle barriere che escludono le bambine dalla scuola renda le scuole stesse più accoglienti. “ Istruire egualmente bambine e bambini, affrontando le esigenze di tutti, non è un investimento facoltativo ”, ha affermato Bellamy: “ Nessuno dei paesi più ricchi della terra si è sviluppato senza un significativo investimento nell'istruzione. Questa è la lezione che dobbiamo tenere a mente se intendiamo seriamente produrre un cambiamento per il nostro mondo. Ciò rappresenta per noi un banco di prova: sia se riusciremo a superarlo sia se falliremo, le conseguenze saranno per noi importanti e di lungo periodo ”.
 
Per quanto concerne il cosiddetto "Primo Mondo" l'emancipazione femminile ha prodotto conseguenze importanti sulla diminuzione del tasso di natalità e sul nuovo assetto delle famiglie: l'affermazione delle donne nel campo del lavoro.
Come abbiamo già detto all'inizio ci sono casi in cui si impone alla dipendente, pena il licenziamento, di non usufruire di delle agevolazioni legate alla maternità e nonostante le aziende si professino a parole a favore delle donne nel loro organico, molte volte, evitano di assumere donne, che andando in maternità arrecano un "danno" economico all'azienda, che è costretta per quel periodo a pagare uno stipendio a "vuoto", quando non deve anche prendere qualcuno che sostituisca la persona in questione.
La maternità, infatti, intesa come il periodo concesso dalle aziende alle future mamme, che si protrae di solito dal settimo mese di gravidanza al terzo mese dopo il parto, è una conquista ottenuta in tempi recenti (legge n° 1204 del 1971), ed è esigibile, solo in condizioni lavorative regolari, infatti, tutto il mondo sotterraneo del lavoro nero, ne è ovviamente escluso.


Simbolo della Costituzione Italiana.


Come dice la costituzione nell'articolo 37 la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore e, inoltre,ribadisce che le condizioni di lavoro devono consentirle di adempire la sua funzione primaria di madre; l'articolo 1 della legge 903 del 9/12/77, in particolare, vieta qualsiasi discriminazione legata al sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro; un datore di lavoro, perciò, non potrà richiedere di assumere un uomo al posto di una donna, o viceversa. In aggiunta (come da articolo 15) è pure vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione della carriera, quindi non devono essere riservati alla lavoratrice piani di carriera e possibilità di avanzamento più limitate rispetto a quelle dei loro colleghi maschi.
Per evitare, dunque, che la funzione materna punisca la donna in quanto lavoratrice, la legge stabilisce che le assenze per la maternità siano considerate come attività lavorative ai fini della carriera. Non dobbiamo dimenticarci che fino a pochi decenni fa le imprese private potevano licenziare la donna che si sposava; tuttavia ancora oggi ciò accade (malgrado sia contrario ai principi delle nostre leggi che considerano la libertà di contrarre matrimonio un diritto inviolabile della persona umana) ma è da considerare come nullo e dunque l'impiegata ha diritto alla retribuzione sino al momento della riassunzione.

Per quanto concerne la tutela della lavoratrice madre sono state approvate le leggi n. 860 del 26 agosto 1950, la legge n. 7 del 9 gennaio 1963, la legge n. 1204 del 30 dicembre 1971, e la legge n. 903 del 9 dicembre 1973. Esse dettano norme a tutela della donna durante la gravidanza (periodo che va dal momento della fecondazione a quello del parto), la puerperia (periodo successivo al parto). Le disposizioni più importanti sono:


Madre in carriera.

Ma non sempre le leggi vengono rispettate. Il Corriere della Sera del 19 Febbraio nella cronaca di Milano titola: "Raddoppiate le donne che si licenziano per i figli. Aumentano anche gli uomini che decidono di stare qualche mese a casa in congedo per i bebè". L'articolo spiega le cause che spingono le donne milanesi ad abbandonare il lavoro per dedicarsi completamente alla famiglia: queste infatti "[...] vogliono tutto: il posto, i soldi, le soddisfazioni professionali, l'autonomia e i figli." È infatti in aumento la maternità: siamo passati dalle 48.263 donne in gravidanza del 2006 alle attuali 56.059 e parimenti sono aumentate anche quelle che si licenziano (1.915 contro le 1.176 di due anni fa). Le motivazioni sono sempre le stesse: il lavoro è strutturato in modo troppo rigido i nonni sono figure di contorno, i padri non aiutano, i servizi non sono all'altezza; infatti, sebbene il numero dei papà che restano in congedo per qualche mese con i figli (seguendo l'esempio dei paesi del Nord Europa) stia leggermente aumentando, gli asili a Milano sono sottodimensionati sia nella qualità che nella quantità, non offrendo pertanto un "sostituto di primo livello" che invece è indispensabile.


Il bonus bebè: un assegno d 1000 € per famiglie a basso reddito.

Nella Finanziaria 2006 sono state introdotte alcune agevolazioni come per esempio il Bonus Bebè ovvero un assegno di 1000 euro devoluto alle famiglie con un reddito inferiore ai 50.000 euro annuali per i figli nati o adottati dal 2005 in poi; secondo l'esperta Elena Rosci esso "[...] non serve. Certo nel grande mare del problema materno può esser un aiuto, ma le mamme hanno bisogno di altro: servizi flessibili, comodi e una città che nel complesso faciliti la vita dei bambini. Milano infatti richiede ritmi di lavoro talmente alti e tempi di spostamento così onerosi che conciliare maternità e carriera diventa davvero complicato.
Tuttavia le donne con un incarico manageriale per il 43,1% dei casi decidono di non avere bambini in quanto avere un figlio non è necessariamente in contrasto con la carriera ma lo diventa quando "l'organizzazione del lavoro non lascia spazio alle modifiche causate dalla presenza di un bimbo nella vita di una donna." Per tanto, più che introdurre nuove leggi bisogna cominciare a far rispettare quelle già vigenti.