TIENANMEN
I DIECI GIORNI CHE NON SCONVOLSERO LA CINA
Studente in rivolta a Piazza Tienanmen il 18 aprile 1989. |
La repressione di piazza Tienanmen poneva fine a quella che è
stata definita la "primavera" di Pechino. Il 18 aprile 1989 un pugno di
studenti, diventati nel corso delle settimane alcune migliaia, avevano occupato
piazza Tienanmen al grido di "Abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva
la Cina". Chiedevano di rimettere in sesto l'economia, che già dall'anno
precedente viaggiava tra i flutti del caos più totale, e di avere più voce nelle
scelte future del paese. Morto Hu Yaobang, l'ex segretario del partito
licenziato per aver appoggiato le rivolte studentesche del 1987, gli studenti
trovarono in Zhao Zyiang un loro paladino. "Gli studenti sono patrioti. Vogliono
solo denunciare i nostri errori" aveva affermato Zhao il 4 maggio. In tutta
risposta il 20 maggio fu introdotta la legge marziale, mentre Zhao veniva
progressivamente estromesso dai vertici del partito. Il 28 maggio gran parte
della protesta studentesca era rientrata, sconfitta per sfinimento dal lungo ma
incruento braccio di ferro con il potere. Di seguito la cronaca di ciò che
successe dopo, a partire dal 1° giugno e fino al 10 dello stesso mese, vista con
gli occhi di quattro grandi quotidiani italiani, Corriere della Sera, Il
Giornale, La Repubblica e l'Unità. Ognuno ha voluto raccontare e spiegare a suo
modo gli avvenimenti sanguinosi a cui il mondo assisteva impotente. Ognuno col
suo punto di vista specifico. Ognuno cercando di spiegare ai lettori il perché
di un tragico massacro che in quel memorabile 1989 segnò la fine di tanti regimi
comunisti, ma non di quello cinese. Da questo punto di vista, le polemiche tra i
partiti italiani e il Pci, nonché quelle tra giornalisti e intellettuali di
diversa estrazione in merito alla morte dell'ideologia comunista hanno trovato
sulla carta stampata la loro arena più infuocata. Anche di ciò abbiamo voluto
rendere conto.
La quiete prima della tempesta (1-3 Giugno 1989) - Nei primissimi giorni di
giugno la quiete sembrava regnare in piazza Tienanmen. E i quotidiani italiani
non mancavano di segnalarlo lasciando le brevi corrispondenze sull'argomento
nelle pagine interne. I titoloni delle prime pagine del 1° giugno 1989 erano
infatti destinati ad altri argomenti: "Ciampi: l'Italia spende troppo" (Corriere
della sera);
"Bush: ora abbattete il muro di Berlino" (Il Giornale), "Preoccupata analisi del
Governatore sulla finanza pubblica: quanto tempo s'è perso" (La Repubblica),
"Economia, anni sprecati. Ciampi sgrida il governo" (L'Unità).
Su questi quattro quotidiani per scovare le notizie cinesi bisogna spostarsi
dalla prima pagina a quelle più interne, e talvolta neanche lì si riesce a
trovare qualcosa. Il Corriere della sera del 1° giugno aggiorna i lettori sulla
situazione evidenziando i primi segnali di rigetto nei confronti dei giovani
occupanti e della loro simbologia politica, prima tra tutti la cosiddetta
"statua della libertà", eretta con materiali di fortuna al centro della piazza.
Scrive infatti il corrispondente Renato Ferraro che ormai il popolo di Pechino
ha smesso di portare cibo e coperte agli studenti accampati, tanto più che si
rincorrono voci di denaro giunto da Hong Kong a sostegno della causa e in parte
misteriosamente sparito, mentre per le strade si sono uditi slogan contro la
borghesia (che per la proprietà transitiva è incarnazione di idee liberali e
filoccidentali). Ma la maggiore provocazione è la statua, scrive Ferraro,
simbolo dell'America, di un paese straniero, che "irrita non solo il governo ma
anche lo spirito nazionalista dei cittadini favorevoli alla democrazia. Questi
ultimi osservano che le bravate degli ultrà possono favorire solo i falchi del
regime e la repressione". Da parte loro i giornali cinesi si dimostrano
oltremodo scandalizzati perché il suo seno prosperoso rischia di turbare i
bambini. Il Giornale aggiunge un ulteriore tassello all'oziosa questione della
statua della libertà. Non si tratta di una imitazione di quella americana,
bensì, spiegano gli studenti, di una rappresentazione allegorica della "dea
della democrazia".
Per il resto, in data 1° giugno il quotidiano di Montanelli avanza l'ipotesi di
un compromesso ai vertici del partito e dello stato cinesi, "profondamente
divisi sul modo di affrontare la protesta giovanile e sulle risposte da dare
alle richieste di rinnovamento espresse da gran parte della popolazione nella
manifestazioni dei giorni scorsi. […] Il comitato centrale, si dice, si
limiterebbe ad accettare le dimissioni di Zhao e di alcuni suoi stretti
collaboratori, sancendone così la sconfitta politica, ma evitando di creare
ulteriori fratture in un partito nel quale lo stesso Zhao ancora conta molti
appoggi". Per la corrispondente delL'Unità, Lina Tamburrino, alcuni recenti
sviluppi dimostrano come la situazione stia ormai uscendo dalla stagnazione,
pronta a svilupparsi in modo imprevedibile nelle direzioni più diverse. Il
ritorno da Shanghai a Pechino di Wan Li, il presidente dell'assemblea popolare
nazionale, esponente non oltranzista del partito è uno di questi segnali. Al
quale si devono aggiungere un articolo del Quotidiano del Popolo che riporta il
resoconto di un'assemblea popolare nazionale di iscritti in appoggio alle
richieste degli studenti, e l'assenza di alcuni esponenti oltranzisti in una
delle ultime riunioni del Pcc, assenza che potrebbe segnare una loro caduta in
disgrazia. "Qualcosa sta cambiando nel percorso della crisi - conclude la
Tamburrino. Forse siamo a una svolta". Su Repubblica, in quello stesso 1°
giugno, una corrispondenza dell'inviato Marco Panara descrive l'istituzione
all'interno della più grande università di Pechino di un "governo parallelo"
formato da studenti, che si occupa della gestione dell'occupazione e
dell'amministrazione dei fondi giunti a sostegno delle organizzazioni
studentesche.
Sotto il profilo politico occorre segnalare che, rispetto agli altri tre
quotidiani, Repubblica è quello che dà maggior risalto, seppure con formula
dubitativa ("Il potere torna unito intorno a Deng. Più vicino l'intervento dei
soldati?") alla ridda di voci incontrollate su un prossimo intervento militare a
Tienanmen. I difficili tentativi per decrittare lo scontro al vertice del
partito comunista cinese continuano anche sui quotidiani italiani del 2 giugno.
E come nei giorni passati le cronache sono confinate nelle pagine degli esteri
senza alcun richiamo in prima pagina. Del resto l'argomento, che ormai ha
logorato l'attenzione dei lettori, sembra prestarsi più che altro alla
comprensione - o alle congetture - di esperti sinologi. "Cina, faida nella banda
dei vecchi" è titolata la corrispondenza sul Corriere della sera di Renato
Ferraro, che dopo aver dato notizia delle voci relative alla lotta di potere tra
Deng, impegnato a conservare la leadership, e Zhao, Yang Shangkun e Peng Zhen,
sintetizza felicemente l'immagine del Pcc definendolo come "una torre di Babele
al cui vertice un pugno di ottantenni, divisi da invidie e rancori, rifiuta di
intendersi". E mentre Repubblica diserta completamente gli aggiornamenti da
Pechino, Il Giornale e L'Unità incentrano invece l'attenzione sul giro di vite
nei confronti della stampa locale e straniera, cui è stato proibito di dare
qualsiasi copertura giornalistica delle manifestazioni in piazza Tienanmen o
delle operazioni di polizia per far rispettare la legge marziale introdotta
dodici giorni prima. Il bavaglio alla stampa rende quindi sempre più credibili
le voci di un imminente intervento militare contro gli studenti. La temperatura
sale il giorno successivo, 3 giugno, quando si ha notizia di un maldestra
tentativo messo in atta dall'esercito per sgombrare la piazza dagli studenti.
Il Corriere della Sera titola a tutta pagina "Dopo venti giorni di attesa il
regime cinese tenta la resa dei conti e la popolazione torna compatta nelle
strade. PECHINO, L'ESERCITO ATTACCA GLI STUDENTI - Ma nella notte un milione di
persone impedisce ai soldati di espugnare la Tienanmen. L'offensiva è scattata
da quattro diversi punti della città con truppe apparentemente disarmate - Un
camion ha investito e ucciso due persone - Barricate di automezzi - La gente
canta l'inno nazionale e lancia slogan di amicizia verso i soldati - Una dura
resistenza".
Nella sua corrispondenza Ferraro osserva come questo intervento militare sia
stato deciso dal governo nel timore che operai e studenti potessero saldarsi in
un fronte unico. Infatti, nei giorni precedenti nella piazza erano state alzate
tende della federazione sindacale dalle quali si erano levati slogan
antigovernativi. Per questo motivo "si ritiene che sia stata la presenza degli
operai a convincere le autorità a lanciare l'attacco notturno". Che peraltro si
è risolto in un nulla di fatto. Sembra infatti che gli studenti, avvisati
preventivamente da soldati simpatizzanti, non si siano lasciati cogliere di
sorpresa. Il Giornale dedica alla notizia ampio spazio sia in prima pagina
("Tentata irruzione nella notte sulla piazza Tienanmen.
GLI STUDENTI FERMANO LE TRUPPE DI DENG - I militari erano disarmati - Ancora
aperti i giochi al vertice del Pc") sia in quelle riservate agli esteri.
Fondo e cronache sono affidate a Beppe Severgnini, appena rientrato in Italia da
Pechino. Il suo resoconto è significativo perché oltre a esalare gli umori
appena abbandonati a Tienanmen, testimonia il rincorrersi - tra i manifestanti
ma anche negli stessi osservatori occidentali - di speranze e aspettative per
una soluzione pacifica che pareva a portata di mano. E che invece si riveleranno
vane alla prova dei fatti. È il caso del fondo intitolato "Tutto è perduto
fuorché l'onore", pubblicato quello stesso 3 giugno, ventiquattr'ore prima del
massacro, quando la protesta era ormai allo stremo delle forze. "Presto o tardi
anche gli ultimi studenti lasceranno piazza Tienanmen, diventata centro del
mondo per un mese, alle cure di spazzini e disinfestatori. Avrebbe potuto andare
meglio, dal loro punto di vista: se i "riformisti" avessero vinto la battaglia
per il potere, la piazza sarebbe stata abbandonata in trionfo. Avrebbe potuto
andare peggio, però: se l'esercito fosse arrivato in armi nei giorni caldi
dell'insurrezione - e tutti eravamo convinti che arrivasse - dal selciato
sarebbero stati portati via non sacchetti di immondizie ma morti a dozzine". La
valutazione complessiva dei risultati dell'occupazione è per Il Giornale in ogni
modo positiva. La volontà di protesta, la manifestazione alla luce del sole di
un profondo disagio sociale, continua Severgnini, sono state le grandi vittorie
degli studenti. "Resta un fatto. Il mondo è convinto che gli studenti abbiano
perduto, e vuole sapere perché. Una risposta potrebbe essere questa: gli
studenti non hanno perduto, per il semplice motivo che non hanno mai combattuto
per vincere [...] Tutto quello che chiedevano era un po' di rispetto da parte di
un partito che, combinando privilegi e cinismo, di rispetto per la gente comune
non è sembrato averne mai molto. [...] Gli studenti, anche se oggi lasciano con
la coda tra le gambe, hanno vinto.
Hanno vinto perché sono stati capaci di mostrare al regime che la gente è
scontenta di come vanno le cose, tanto scontenta da dimenticare i grandi meriti
di Deng Xiaoping in questi dieci anni di riforme". Resta la constatazione amara
dell'incapacità del fronte riformista interno al Pc cinese di prendere il
sopravvento sulla vecchia gerontocrazia. E, assieme a questo, un dato di fatto
che periodicamente sembra riproporsi nella storia recente del paese: l'appoggio
di studenti e intellettuali alle riforme ha sempre portato male alla causa del
fronte riformista. Continua infatti Severgnini: [...] l'unica vera sconfitta
degli studenti è stata la solita sconfitta degli studenti e degli intellettuali
cinesi. Scendono in piazza per dar manforte alla corrente riformista nel
partito, e finiscono con l'affondarlo. È accaduto ad intervalli regolari per
tutta la storia della Repubblica Popolare: nella "campagna dei cento fiori" nel
1956-57, quando i liberali vennero incoraggiati ad esprimersi e poi puniti per
averlo fatto; dopo gli incidenti seguiti agli omaggi per il defunto Chu En-lai
nel 1976; prima del licenziamento di Hu Yaobang nel 1987. Oggi, di nuovo, gli
studenti sembrano aver condannato l'unico alleato, il segretario di partito Zhao
Ziyang. Questi [...] potrebbe invece risorgere il giorno in cui
l'ottantaquattrenne Deng partirà per il suo "appuntamento con Marx", oppure, a
sorpresa, tra qualche settimana" Anche Repubblica dedica la prima pagina ai
fatti cinesi ("Le truppe di Deng tentano invano nella notte di espugnare la
piazza della rivolta.
PECHINO FERMA L'ESERCITO - Un muro di folla respinge i soldati dalla Tienanmen.
Marco Panara descrive il fallito tentativo dell'esercito evidenziandone gli
aspetti surreali. L'operazione, volta a far rispettare una legge marziale
"farsesca", in vigore da due settimane ma mai applicata fino in fondo, è
"militarmente ridicola", è "una Caporetto penosa e festosa, senza
caduti, senza, almeno sembra, neanche feriti", conclusasi in un clima festoso,
con la folla che fraternizza con i soldati disarmati tra gli applausi della
gente. Nell'editoriale, Sandro Viola si chiede se non sia "troppo sbrigativo
cavarne la conclusione che in Cina non c'è più un governo, un potere degno di
questo nome? Forse lo è. Forse il regime sta accumulando le giustificazioni
[...] per poter lanciare alla fine un attacco violentissimo contro la folla di
Pechino". Ma il punto, continua, non è più sapere quando le truppe, prima o
dopo, entreranno in piazza, "il punto è un altro. È lo spettacolo delle
divisioni profonde, degli intrighi sempre più oscuri, e della paralisi, che
viene dai palazzi del Potere". Ricca di dettagli è la corrispondenza pubblicata
sulL'Unità, che in prima pagina
titola "Le truppe volevano liberare la piazza ma sono state bloccate dalle
barricate. IN CINA LA FOLLA RESPINGE L'ESERCITO. I GIOVANI NON LASCIANO LA TIAN
AN MEN". Lina Tamburrino fa una cronistoria degli avvenimenti che hanno portato
fino alla situazione attuale, a partire dallo sciopero della fame del 13 maggio.
In sintonia con gli altri osservatori occidentali anche la corrispondente del
quotidiano del partito comunista italiano ritiene che l'escalation del confronto
non si è ancora conclusa. Le immagini del massacro di piazza Tienanmen, che
scatta alle 0,30 locali, le 17 e 30 in Italia, rimbalzano dai teleschermi dei
telegiornali la sera del 3 giugno.
Esce titolando così il Corriere della Sera del giorno successivo: "Il regime
cinese scatena migliaia di soldati contro la gente scesa in piazza per difendere
gli studenti ed esplode il furore del popolo. L'ESERCITO SPARA, NOTTE DI GUERRA
A PECHINO. Morti a decine, barricate e incendi mentre i carri armati raggiungono
la piazza Tienanmen. L'ondata di protesta si è trasformata in un'insurrezione -
Scontri a mani nude con i militari - Alcuni reparti si sono uniti ai
dimostranti, altri hanno aperto il fuoco all'impazzata - Li Peng si è presentato
alla Tv: "Salviamo l'ambiente e la fascia di ozono". Nella cronaca di Renato
Ferraro la fallita spedizione di venerdì viene descritta come un'iniziativa
tragicomica, da repubblica delle banane, che invece di disperdere gli ultimi
ribelli ha fatto scendere tutta la popolazione nelle strade e reso ancor più
alta la contabilità del massacro di sabato. E forse, aggiunge, il maldestro
tentativo di venerdì potrebbe essere interpretato come una provocazione dei
falchi del partito per far convergere più gente in piazza e giustificare così
l'intervento armato. La sconcertante dichiarazione ambientalista rilasciata da
Li Peng in televisione ("Salviamo l'ambiente e la fascia di ozono") viene invece
spiegata dal quotidiano di via Solferino come una metafora della situazione
cinese, dove il pianeta minacciato è la Cina, gli inquinatori sono gli studenti
e i lavoratori che protestano, mentre la fascia d'ozono da salvare sono le
istituzioni e i capi del Pcc. Nel fondo ("Sangue contro la storia") Franco
Venturini scrive che ancora una volta, come a Berlino, Budapest, Praga e Danzica
è la paura del nuovo, abbinata al solito istinto di conservazione del comunismo,
a venire fuori.
Ora però "Deng non si è mosso soltanto contro il suo popolo. Si è mosso contro
la storia, ha invertito il senso di marcia di un processo democratizzante che
altrove nell'universo comunista si allarga a macchia d'olio […] Come dimenticare
che mentre a Pechino i soldati sparano sulla folla a Varsavia si tengono le
prime elezioni semi-libere del mondo comunista? Come cancellare con il sangue
degli studenti cinesi le tumultuose sedute del parlamento sovietico, o il
riscatto postumo di quel Nagy che nel '56 fece muovere i carri armati di
Krusciov?". Tuttavia, secondo l'autore, rispetto alle convulsioni del restante
universo comunista il sistema cinese dimostra di essere incapace di provvedere a
una sua riforma. E che la scelta inevitabile che ormai si pone ai dirigenti
cinesi può essere solo quella "tra la libertà senza mezze misure e la tirannia
senza falsi pudori". Il Giornale del 4 giugno titola: "A sei settimane
dall'inizio della pacifica rivolta, la primavera cinese ha avuto la sua tragica
svolta. BAGNO DI SANGUE A PECHINO. L'esercito ha assaltato e occupato la
Tienanmen sparando sulla folla. Almeno cinquanta i morti e centinaia i feriti
tra gli studenti e gli operai". Beppe Severgnini scrive nell'editoriale che
questa è una sconfitta per il palazzo. Hanno perso tutti: Deng Xiaoping che
voleva passare alla storia come colui che aveva fatto uscire il paese dal
fanatismo maoista, Li Peng che è in fin di vita e ha ormai i mesi contati, i
"liberali" alla Zhao Ziyang che sono arrivati troppo tardi, e le forze armate
che non sono riuscite a tenersi fuori dallo scontro politico. Solo gli studenti,
continua Severgnini, escono moralmente vincitori da questa repressione che non
era ne prevedibile ne inevitabile. "Le richieste degli studenti erano commoventi
nella loro semplicità [...] e sarebbe bastato soltanto un po' di buon senso e di
abilità per vederli partire cantando dalla piazza".
Decisamente più circostanziato e ai limiti dell'omertà l'atteggiamento
delL'Unità, all'epoca diretta da Massimo D'Alema. Lo sdegno è unanime
("Battaglia a Pechino. Dopo 50 giorni di lotta pacifica degli studenti e del
popolo per la democrazia e la libertà il regime ha deciso l'assalto militare. Si
parla di decine di morti e centinaia di feriti. I CARRI CONTRO IL MAGGIO CINESE.
Bagno di sangue . Dura condanna del Pci"), così pure la solidarietà nei
confronti degli studenti da parte del segretario Occhetto e dei vari quadri del
Partito comunista italiano. Ma i commenti appaiono circostanziati perché puntano
il dito solo contro la dirigenza attuale e non sul sistema che l'ha generata,
omertosi in quanto il regime cinese non viene mai definito con l'aggettivo
comunista. Scrive la Tamburrino nella sua vibrante corrispondenza che "questi
giovani stanno morendo anche per l'enorme arroganza che il potere ha esercitato
nei loro confronti, rifiutandosi di considerarli qualcosa di vitale e di sano
per la Cina. Questi giovani rompevano le millenarie regole della subordinazione,
anche generazionale, e questo non poteva essere accettato. Non c'è stato spazio
per l'immaginazione al potere, per la generosità di questi ragazzi cinesi,
fragili, eppure così forti". Ragazzi che oltretutto, continua la corrispondente,
sono andati incontro alla morte intonando le note dell'Internazionale.
Nel fondo, titolato "Dalla parte di quei ragazzi", Ottavio Cecchi corre con la
mente "al passato, alle tante, troppe volte che un regime debole e corrotto ha
risposto col fuoco alle giuste richieste di democrazia e libertà". Tuttavia,
conclude, "nessuno può assumere in questo momento la parte di profeta. Ma un
potere che ricorre alle armi dopo le esperienze di questo secolo e mentre in
tutto il mondo si aprono speranze di nuove intese e di più solida pace, non può
durare". In un angolo di pagina 3 il segretario della Fgci Gianni Cuperlo
esprime la solidarietà agli studenti e afferma che "è chiaro come la
responsabilità di ciò che sta accadendo ricada interamente sulle forze
conservatrici e retrive della burocrazia cinese". Lunedì 5 giugno le prime
pagine dei quotidiani sono ancora tutte per la Cina. Il Corriere della sera
titola: "Il mondo assiste sgomento all'ultima feroce repressione di un regime
comunista contro il popolo che chiede democrazia. UCCISI A MIGLIAIA, MUORE IL
SOGNO CINESE. Ma commando di studenti continuano a combattere i carri armati
nelle strade di Pechino. C'è chi parla di 3000 vittime, ma per i dimostranti
sarebbero addirittura 10000 - Manifestazioni in tutto il paese - Voci di
sciopero generale - Dissotterrati i fucili della rivoluzione culturale -
Università assediate - Il potere denuncia un complotto antipartito - La gente
grida ai soldati: che la sorte vi renda sterili". Il Giornale: "L'intervento
dell'esercito contro i dimostranti ha provocato una tragedia di dimensioni
apocalittiche. MIGLIAIA I MORTI A PECHINO. Fuoco a volontà dai carri armati:
cadaveri a mucchi sulla Tienanmen. Gli studenti, per sottrarsi alla carneficina,
si sono rifugiati nelle università". La Repubblica del 4/5 giugno apre così la
prima pagina: "I carri armati di Deng contro la folla inerme, una notte di
sangue. MASSACRO A PECHINO. L'esercito spara, cade Tienanmen". L'Unità:
"Spaventoso bilancio dell'assalto alla Tian An Men: forse settemila uccisi.
L'esercito prepara l'attacco alle università, disperata resistenza popolare.
A PECHINO UN GENOCIDIO. Il Pci scende in piazza, sit-in all'ambasciata". Il
Corriere della sera, per voce di Arrigo Levi, dopo avere ricordato i meriti di
Deng nell'opera di svecchiamento del regime, sottolinea quali possono essere i
due componenti, uno di lungo periodo e l'altro contingente, che hanno dato luogo
alla miscela esplosiva di questi giorni. "Bisogna tenere conto di una
particolare situazione che ha fatto da detonatore della crisi: sulle tensioni
"strutturali" si è sicuramente innestata, con effetti perversi, una dura,
spietata lotta di successione al vertice del potere". Nicola Matteucci, sul
Giornale, mette invece in evidenza "Il volto disumano" del comunismo e accende
le polveri delle polemiche contro i comunisti italiani. "I massacri di Pechino
non sono un accidente della storia, ma una conseguenza diretta del
marxismo-leninismo, che solo con la violenza riesce ad incarnarsi nella realtà:
è solo un'utopia sanguinaria. Per cui è insieme ridicolo e patetico l'on.
Achille Occhetto, che va a protestare di fronte all'ambasciata cinese: il suo
partito, che viene da lontano, porta nelle sue stesse origini questo male
assoluto".
Nelle pagine interne, un commento di Massimo Caprara denuncia invece il
fallimento sia del comunismo cinese sia dei correttivi capitalistici introdotti
negli ultimi tempi. Il socialismo [cinese, n.d.r.] non solo è stato intaccato,
ma è uscito sconfitto dalla prova di resistenza e durata che era stato chiamato
a dare. Il capitalismo si è dimostrato incapace di fruttificare come un
antiparassitario capace di ridare foglie e frutti ad un albero minato da cattive
culture e pessimi floricoltori politici". Repubblica riferisce invece delle
pericolose tensioni interne alla Cina e ipotizza che a muovere i fili della
protesta, con gli studenti a fare da involontari burattini, sia stata l'ala
riformista del Pcc. Secondo l'editorialista Sandro Viola, il clima che si
respira è quello di una guerra civile. "Il problema e gli interrogativi che si
aprono adesso [...] si possono sintetizzare così: come si presenta la Cina dopo
che l'ordine è stato ristabilito a Pechino?" Una cosa è certa, la Cina oggi è
diversa perché nelle strade il grido "abbasso Li Peng" è stato sostituito da "a
morte Li Peng".
"Nel grande Paese c'è da oggi, insomma, un clima da guerra civile". Del resto,
continua, le radici politiche di Tienanmen devono essere individuate nella lotta
di successione a Deng. La stessa protesta studentesca "era nata, s'era
organizzata, è durata, allo scopo di rafforzare l'ala liberale del partito [...]
e non c'è dubbio che la fazione di Zhao abbia dato una mano, alla vigilia
dell'arrivo di Gorbaciov, all'organizzazione della protesta". Sul quotidiano del
Partito comunista italiano il fondo, senza firma, riporta il passaggio centrale
delle dichiarazioni di Occhetto del giorno precedente: "Protestiamo, non come
parte di un movimento comunista; non solo perché questo movimento internazionale
non esiste, ma perché non c'è nulla in comune fra noi e chi si rende
responsabile di crimini come quelli che avvengono in Cina".
Conclude quindi l'anonimo estensore dell'editoriale: "Dunque il Pci è sceso in
piazza, dando il segno di un impegno totale e concreto in difesa della
democrazia e del socialismo. Non lo aveva mai fatto in passato, né per Praga, né
per Varsavia, né per l'Afghanistan". Ma oltre alle dichiarazioni ufficiali e di
circostanza, oltre all'ampio spazio dedicato alla cronaca del sit-in di Occhetto
davanti all'ambasciata cinese a Roma, oltre alla segnalazione del frenetico
attivismo del Pci in ogni angolo d'Italia a favore degli studenti di Tienanmen,
L'Unità rifila una poderosa spallata alla storia recente cinese con un articolo
in seconda a pagina a firma di Siegmund Ginzberg. La condanna è totale e, per
certi versi sorprendente, perché si tratta di un revisionismo a caldo, scritto a
poche ore dal massacro, e perché a firmarlo non è un esponente di spicco del Pci.
Tra le righe Ginzberg denuncia infatti i crimini cinesi dalla Lunga Marcia in
poi, le torture inflitte ai prigionieri politici, la dissennatezza delle comuni
volute da Mao, gli assurdi esperimenti agricoli che portarono a ripetute
carestie e alla morte milioni di cinesi. "È fin dal tempo della Lunga Marcia che
comunisti cinesi uccidono altri comunisti cinesi, con tanto di processi farsa e
confessioni fasulle, oppure con intrighi e complotti medievali. Otto milioni di
proprietari terrieri e di "controrivoluzionari" [sono stati] fucilati nei primi
anni '50...".
Tienanmen è solo l'ultimo episodio in calce a una lunga lista degli orrori. Le
incertezze sugli sviluppi della situazione cinese, con le rivolte che da Pechino
si estendono ad altre città del paese, tengono banco sulle prime pagine dei
quotidiani ancora per qualche giorno. Su quelli del 6 giugno i titoli sono
unanimi nel definire a un passo dal colpo di stato, dalla guerra civile tra
fazioni diverse la situazione. "LA RIVOLTA IN CINA SPACCA L'ESERCITO. Scontri
tra i reparti fedeli a Deg e quelli contrari al massacro degli studenti"
(Corriere della sera). "LA CINA SULL'ORLO DELLA GUERRA CIVILE. Altre vittime,
fazioni militari in contrasto tra loro, forse Deng è morto. Il presidente Bus
condanna gli eccidi e blocca le forniture militari" (Il Giornale). "LA CINA NON
S'ARRENDE. Pechino nella morsa dei carri armati, voci di scontro nei vertici
militari" (La Repubblica). "DOPO LA CARNEFICINA IL CAOS. A Pechino restano forti
focolai di protesta, manifestazioni a Shanghai e in altre città. La situazione
politica è sempre più confusa. C'è chi parla di morte di Deng Xiaoping"
(L'Unità). Scrive Tiziano Terzani, nel fondo ("Il Dio due volte fallito") sul
Corriere della sera del 6 giugno, che ora la Cina corre il rischio che L'Unità
datale dal comunismo si spezzi dando origine a regionalismi e "a differenti
centri di potere come era al tempo dei Signori della Guerra". Bisogna inoltre
rendersi conto che "dietro la vampata di indignazione per il massacro, dietro le
proteste e le barricate che ora si levano in varie città della Cina, creando le
condizioni per altri interventi sanguinosi dell'esercito, non c'è un'idea
comune, non c'è un progetto alternativo di società".
Sul Giornale Alberto Pasolini Zanelli scrive che la repressione è stata uno
schiaffo all'Occidente, a quell'Occidente che aveva salutato con fiducia le
riforme di Deng e chiuso gli occhi di fronte alla violazione dei diritti umani.
Occorre quindi chiedersi cosa ha spinto la Cina a sacrificare tutto il capitale
di credibilità tanto faticosamente conquistato. "La spiegazione [...] è
semplice: la disperazione. Solo una situazione che pareva sfuggita interamente
di mano può aver spinto i governanti di Pechino a un gesto che ci appare, oltre
che crudele, inconsulto". Infatti, "il maggio cinese dell'89 era diventato una
rivoluzione più di quanto noi fossimo disposti a credere. [...] Il "riformismo"
dei ragazzi della Tienanmen si è trasformato in sette settimane, come accade poi
sempre nelle autentiche rivoluzioni, in un ripudio fondamentale del comunismo.
Quelle bandiere scarlatte sulle barricate non debbono ingannare: il rosso è per
i cinesi, da sempre, il colore della buona fortuna, appartiene a tutti". Gli
interrogativi sul futuro della Cina sono al centro dell'editoriale di
Repubblica, a firma Sandro Viola, intitolato "Nella tenebra del maoismo...". A
parte il forte rischio che si sviluppi "la prima guerra civile in un paese
comunista dopo l'ottobre ungherese di trentatré anni fa", l'effetto a livello
dei rapporti internazionali è che la Cina torni a far paura come ai tempi di
Mao, sprecando la credibilità conquistata fino all'altro ieri. Dire dove andrà
dopo Tienanmen non è facile. "La sola risposta possibile è che andrà verso l'Urss",
realizzando così una prospettiva "che modifica (con i due giganti del comunismo
per la prima volta affiancati dopo un trentennio) l'intera visione
internazionale".
Gli insegnamenti di Pechino sono già stati metabolizzati da tempo dal Pci,
spiega il direttore dell'Unità, Massimo D'Alema, all'epoca impegnato a
rintuzzare sull'organo dei comunisti italiani gli attacchi delle altre forze
politiche, resi pungenti dall'infuocato clima preelettorale (il 18 giugno si
sarebbero tenute le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo). "Il
fallimento dei metodi del socialismo reale, l'inaccettabilità della dittatura
del proletariato e del partito unico sono dati di fatto accettati già da tempo
nel Pci", afferma. Il nuovo destino del Pci si gioca sui valori dell'uguaglianza
e della libertà umana. Le accuse lanciate dal segretario della Dc Arnaldo
Forlani, che aveva denunciato il fallimento storico del comunismo, sono quindi
assolutamente pretestuose, conclude D'Alema. Nei giorni che vanno dal 7 al 10
giugno la situazione cinese evolve con estrema difficoltà verso la
"normalizzazione". Per Piero Ostellino, sul Corriere della sera del 7 giugno,
comincia ora la vera tragedia: o vince una delle due fazioni che si fronteggiano
all'interno del partito comunista cinese oppure, se le due fazioni hanno uguale
peso, si arriva alla guerra civile. Gli sviluppi futuri, continua Ostellino,
dipendono da numerose variabili: dal coinvolgimento delle masse contadine nella
rivolta, dalla possibilità di uno scontro tra regioni ricche e regioni povere,
dall'esplosione o meno della protesta del sottoproletariato urbano, da quel che
faranno i signori della guerra locali, dal ruolo dell'esercito e delle spinte
xenofobe. Ma in quei giorni anche un altro avvenimento aveva catalizzato
l'attenzione dei commentatori: le prime elezioni libere in Polonia, con la
conseguente straordinaria vittoria di Solidarnosc. L'avvenimento suggerisce a
Sandro Viola, nell'editoriale intitolato "Comunismi addio..." su La Repubblica
del 7 giugno, una valutazione in parallelo con i fatti cinesi. "La nostra
impressione è che gli eventi di Varsavia abbiano un rilievo storico anche
maggiore della tragedia cinese. È a Varsavia infatti - e non ancora a Pechino -
che un comunismo sta uscendo di scena".
Tuttavia, così come Solidarnosc sembrava spacciata solo otto anni fa, continua,
"il conto alla rovescia è cominciato anche per il comunismo cinese. In vista non
c'è l'ombra d'una vittoria possibile, c'è solo l'annuncio della fine". Sabato 10
giugno per l'ultima volta gli avvenimenti cinesi reggono ancora i titoli di
apertura delle prime pagine dei quotidiani italiani. Ma l'ordine regna ormai a
Pechino, e i titoli suonano a requiem. Basti, tra tutti, quello di Repubblica:
"Mentre l'esercito rastrella Pechino a caccia dei capi della rivolta, TORNA DENG
IL TIRANNO. Il vecchio leader annuncia in televisione il successo del pugno di
ferro: abbiamo stroncato la controrivoluzione". Scrive Vittorio Zucconi in prima
pagina, sotto il titolo "Dimenticare Tienanmen...": "Devono aver tirato un bel
sospiro di sollievo i terribili vegliardi di Pechino nell'ascoltare il
presidente americano George Bush, giovedì sera. Quando lo hanno sentito dire
davanti a tutta la nazione americana [...] che la sua prima preoccupazione è la
preservazione dei rapporti fra gli Usa e la Cina popolare, hanno capito di
avercela fatta". I dieci giorni di violenza e di passione rivoluzionaria di
Pechino non sono riusciti a sconvolgere il gigante cinese. Gli avvenimenti
cinesi diedero il via anche a una serie nutrita di polemiche sul tema del
comunismo, inteso come ideologia metapolitica (i cui esiti pratici si stavano
dimostrando per l'ennesima volta disastrosi), e sul ruolo del Partito Comunista
Italiano di Achille Occhetto, che di quell'ideologia era il migliore e più forte
interprete occidentale.
Ugo Tramballi, su Il Giornale del 2 giugno 1989, aveva già preso spunto dalla
crisi dei due grandi imperi del comunismo mondiale per individuare, al di là
delle interpretazioni politiche contingenti o degli esiti degli avvenimenti,
alcuni punti di non ritorno. "[...] messo di fronte all'evidenza del suo
fallimento storico, è proprio lo stato comunista che rigetta la necessità delle
riforme. Gli studenti logorano in piazza Tienanmen le loro speranze senza
ottenere nulla di ciò che chiedevano e quei dirigenti dentro il sistema che li
avevano sostenuti rischiano l'epurazione se non l'arresto. A Mosca le grandi
aspettative democratico-parlamentari dei deputati si scontrano con una
maggioranza che non vuole cambiare niente [...] La conclusione, dunque, sembra
apparentemente essere una sola: il comunismo è un sistema sostituibile con la
forza e non con le riforme. Ma l'ipotesi è irreale e priva di senso politico
[...].C'è, invece, un fenomeno mondiale che nonostante tutte le evidenze
contrarie costringerà i regimi totalitari a intraprendere la strada del
pluralismo. Nemmeno l'universo comunista può essere immune dai tre fattori
politici che dominano la fine del nostro secolo: la democrazia, il mercato e la
diffusione in tempo reale delle informazioni". Ma la degenerazione dei sistemi
comunisti è stata causata dal culto dalla violenza di personaggio come Lenin,
Stalin e Mao, dall'incapacità di applicare il "metodo" allo sviluppo economico e
alle esigenze di libertà individuale, o da un vizio d'origine presente nella
dottrina stessa? Vittorio Strada, sul Corriere della sera del 5 giugno, non ha
dubbi: "Le interpretazioni rassicuranti, secondo cui tutte le disfunzioni del
sistema sono colpa dello stalinismo, convincono ormai soltanto limitate schiere
di "credenti" del comunismo, nonostante gli sforzi degli ideologi ufficiali del
sistema per fare di Stalin il responsabile unico di un fallimento le cui radici
stanno nell'esperimento rivoluzionario stesso di Lenin e nelle sue basi
marxiste".
In tutta risposta Enrica Colotti Pischel, sull'Unità del 6 giugno, si produce in
un'abile piroetta dialettica che trasforma di colpo il regime comunista cinese
in fascismo. Il regime cinese, scrive, è da intendersi fascista per l'uso della
repressione militare come atto dimostrativo, per il suo "governo di minoranza,
autoritario, privo di meccanismi democratici e pluralistici, volto alla
conservazione del potere...". Ma, continua la Pischel, né il regime di Mao né
quello di Stalin erano fascisti perché avevano il consenso di ampi strati della
popolazione povera e diseredata. È quindi la profonda crisi del modello
riformatore di Deng, conclude, il principale responsabile del disastro. Del
resto, scrive sempre sull'Unità Giuseppe Chiarante dopo una lunga dissertazione
su cosa bisogna intendere per "vero" marxismo, "ciò che conta è sottolineare
senza esitazioni che è del tutto improprio - anche dal punto di vista di una
corretta lettura marxiana - designare tali società [dell'Est, n.d.r.] come
socialiste e comuniste. Il problema del socialismo e del comunismo è, invece,
ancora del tutto aperto" e riguarda l'integrazione tra libertà, democrazia e
sviluppo economico. Una condanna del grande esperimento comunista del XX secolo
e di quella che fino a ieri sembrava una metodica capacità di edificazione del
futuro viene da Alberto Ronchey, su la Repubblica del 9 giugno, con un articolo
intitolato "Lo spettro cinese s'aggira per Mosca".
"Per assurdo, l'intero mondo che veniva detto comunista era celebre un tempo a
causa dei suoi "piani" trionfali, ma ora da un capo all'altro di quel mondo non
affiora un solo credibile "piano" di ripiegamento. Non si scorge un'uscita di
sicurezza dalle crisi che attanagliano gli eredi e gli amministratori di quel
potere, mentre fallisce in tutte le sue varianti l'esperimento del secolo". Ma
la polemica più forte è quella messa in atto da Il Giornale, il quotidiano a
quell'epoca diretto da Indro Montanelli, contro il segretario del Pci e L'Unità.
A parte il fatto che per Il Giornale i ragazzi di Tienanmen intonavano l'Inno
alla gioia di Beethoven, mentre per L'Unità, come abbiamo già visto, cantavano
l'Internazionale, meritano di essere riportate le fulminanti bordate del grande
vecchio del giornalismo italiano all'indirizzo di Occhetto. Scrive Montanelli
sul Giornale del 7 giugno: "Il personaggio [Occhetto n.d.r.], parsoci fino a
ieri annaspante, ficchino e farfuglione, comincia a soffondersi di patetico. Ha
chiesto udienza all'ambasciatore di Cina per avere spiegazioni sui fattacci
della piazza Tienanmen, e siccome gli hanno chiuso la porta in faccia (e non si
capisce del resto di quali spiegazioni l'accaduto abbia bisogno), ha detto che
rinunziava al "visto" che gli avevano concesso a Pechino: così imparano".
Tuttavia Montanelli non nega che il compito di Occhetto sia in quel momento
immane, perché se è vero che "gli avvenimenti di Ungheria, Cecoslovacchia,
Polonia, per non parlare di Vietnam e Cambogia così lontani da noi, hanno
certamente collaudato le resistenze di quel partito [...] il Pci che Occhetto ha
ereditato non è più quello di Togliatti, e nemmeno quello di Berlinguer che i
carri armati li digerivano come bruscolini: bastava che vincessero. Il Pci di
Occhetto è un partito che, per essersi scelto un capo come Occhetto, vuol dire
che somiglia a Occhetto e lo considera tagliato sulla sua misura". La
conclusione non può che essere una sola "È il comunismo, da qualunque parte lo
si rigiri, l'errore. [...] Che può fare il povero Occhetto di fronte a cose
tanto più grandi di lui? Gli auguriamo di essere all'altezza della situazione
almeno come curatore del fallimento".
Su questa falsariga è anche il tono di un articolo di Claudio Magris sul
Corriere della sera del 10 giugno. "Chi ha creduto nel comunismo, e soprattutto
nel mitico comunismo cinese, come nell'Apriti Sesamo della storia, ora è pronto
a rinnegare tutto - come il segretario del Pci, che disconosce paternità e
identità per rassicurare la gente come chi chiedesse un prestito sulla fiducia
promettendo di cambiar vita e di non spendere più quei soldi all'osteria".
Ma per chiudere questa parentesi tutta italiana sulla tragedia di piazza
Tienanmen forse le parole più equilibrate e pacate sono quelle spese da un
prestigioso collaboratore del Giornale, il critico Geno Pampaloni. Scrive
infatti Pampaloni il 10 giugno, replicando a chi gli rimprovera di parlare in
modo strumentale di fine del comunismo, che in Cina si è avuto "l'evento finale,
la contrapposizione armata, la guerra fratricida tra comunisti e comunisti. A me
sembra secondario analizzare quale delle due parti in lotta incarni il comunismo
autentico. Il fatto essenziale è che il Grande Fratello ha oggi un Sosia che
alloggia nel suo stesso palazzo. La storia si è presa la rivincita, una
rivincita tragica ma inevitabile, sull'Utopia. [...] L'uscita di sicurezza a
coloro che nel comunismo hanno creduto chiudendo gli occhi di fronte
all'evidente divorzio tra l'utopia e la realtà, può forse fornirla il lucido e
disperato Leopardi: "Ogni passo della sapienza moderna svelle un errore; non
pianta mai alcuna verità".
14 anni fa la brutale repressione della dittatura cinese contro gli studenti che
dimostravano per la democrazia in piazza Tienanmen: centinaia di morti sotto i
colpi dell'esercito. Ma è vietato ricordare. I racconti e le analisi dai
quotidiani dell'epoca
Roma, 4 giugno 2003 - La notte fra il 3 e 4 giugno 1989,
nella capitale della Cina popolare, Pechino, l'esercito cinese intervenne con
carri armati e mitragliatrici pesanti contro la folla radunata in Piazza
Tienanmen, occupata per sette settimane da migliaia di studenti che reclamavano
la democrazia: 320 morti secondo le fonti ufficiali, circa 1300 secondo Amnesty
International.
Il 9 Deng Xiao Ping ricomparve in pubblico per la prima volta dopo tre settimane
e lodò il ruolo dell'esercito nella repressione. Il 13 la polizia arrestò due
dei 21 leader
studenteschi ricercati per "crimini controrivoluzionari" e il 15 la televisione cinese annunciò le prime tre condanne a morte contro persone che avevano preso parte alle dimostrazioni antigovernative a Shangai. il 21 e 22 vennero già eseguite altre 50 condanne a morte. Il 24, il Comitato centrale del Pc nominò Jang Zemin segretario generale del partito in sostituzione di Zhao Ziyang, accusato di aver sostenuto il movimento di protesta.
Il 18 aprile 1989 un piccolo gruppo di studenti, diventati
nel corso delle settimane alcune migliaia, aveva occupato piazza Tienanmen,
lanciando slogan come "Abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva la
Cina". Le richieste erano precise: lotta alla corruzione, risanamento
dell'economia, che già dall'anno precedente era disastrata, e avere più voce
nelle scelte future del paese.
Era da poco morto Hu Yaobang, l'ex segretario del partito licenziato per aver
appoggiato le rivolte studentesche del 1987, ma il 4 maggio anche Zhao Zyiang
aveva affermato: "Gli studenti sono patrioti. Vogliono solo denunciare i nostri
errori". In tutta risposta, il 20 maggio veniva introdotta la legge marziale,
mentre Zhao veniva progressivamente estromesso dai vertici del partito.
Gli studenti, ormai sfiniti dalla lunga e incruenta sfida al potere, avevano
iniziato lo sciopero della fame il 20 maggio, chiedendo un dialogo con le
autorità. Intanto le proteste al centro della piazza proseguivano con la
costruzione di una provocatoria statua della Libertà in polistirolo. Il 4
giugno, il primo carro armato, e per tutta la notte i manifestanti tentavano
invano di opporsi all'avanzata dei mezzi corazzati, con lanci di pietre,
barricate e bottiglie molotov. Il mattino dopo la protesta era annientata in un
bagno di sangue.
Il ricordo di Tienanmen oggi è vietato
Quasi 200 persone sono in carcere ancora oggi e centinaia di famiglie continuano
a piangere di nascosto i loro morti: sono gli unici forse che in una Cina sempre
più solidamente affermata nella comunità internazionale ricordano la repressione
di Tiananmen di 14 anni fa. La polizia sarà all'erta sulla Tiananmen, nel timore
di dimostrazioni commemorative che già negli scorsi anni si sono ridotte ad
apparizioni di una o due persone, perse nella vastità della piazza.
Il Grande Balzo in avanti, la collettivizzazione forzata nelle campagne alla
fine degli anni Cinquanta, o della Rivoluzione culturale degli anni Sessanta,
che fecero decine di milioni di morti, hanno trovato un colpevole, Mao, e in
qualche modo sono stati 'digeriti', ma Tiananmen resta un'ombra scura.
Le 'madri di Tiananmen', alcune delle quali sono state presentate alla
Commissione del Nobel perché ne consideri la candidatura per il premio per la
pace, anche questa notte piangeranno i figli uccisi da sole nelle loro case. Il
Partito non ha il coraggio di permettere neanche che il loro cordoglio sia
pubblico.
Le analisi sui quotidiani dell'epoca
Tra l'1 e il 3 giugno
Nei primissimi giorni di giugno, tra l'1 e il 2, la situazione era tranquilla in
piazza Tienanmen e i quotidiani italiani riportavano brevi corrispondenze
sull'argomento nelle pagine interne, con difficili tentativi di decrittare lo
scontro di potere al vertice del partito comunista cinese, mentre i titoli delle
prime pagine erano destinati ad altri argomenti.
Il corrispondente Renato Ferraro (Corriere della Sera) scriveva che ormai il
popolo di Pechino aveva smesso di portare cibo e coperte agli studenti
accampati. La maggiore provocazione, la statua simbolo dell'America, avrebbe
irritato "non solo il governo ma anche lo spirito nazionalista dei cittadini
favorevoli alla democrazia. Questi ultimi osservano che le bravate degli ultrà
possono favorire solo i falchi del regime e la repressione". Il Giornale
riportava però che per gli studenti non si trattava di un'imitazione, ma di una
rappresentazione allegorica della "dea della democrazia".
Il quotidiano di Montanelli inoltre avanzava l'ipotesi di un compromesso ai
vertici del partito e dello stato cinesi, "profondamente divisi sul modo di
affrontare la protesta giovanile e sulle risposte da dare alle richieste di
rinnovamento espresse da gran parte della popolazione nella manifestazioni dei
giorni scorsi. […] Il comitato centrale, si dice, si limiterebbe ad accettare le
dimissioni di Zhao e di alcuni suoi stretti collaboratori, sancendone così la
sconfitta politica, ma evitando di creare ulteriori fratture in un partito nel
quale lo stesso Zhao ancora conta molti appoggi".
Su Repubblica, il 1° giugno, una corrispondenza dell'inviato Marco Panara
descriveva l'istituzione all'interno della più grande università di Pechino di
un "governo parallelo" formato da studenti, che si occupava della gestione
dell'occupazione e dell'amministrazione dei fondi giunti a sostegno delle
organizzazioni studentesche.
Il Giornale e L'Unità si concentravano sulla censura nei confronti della stampa
locale e straniera, cui era stato proibito di dare qualsiasi copertura
giornalistica delle manifestazioni in piazza Tienanmen o delle operazioni di
polizia per far rispettare la legge marziale introdotta dodici giorni prima,
cosa che rendeva sempre più credibili le voci di un imminente intervento
militare contro gli studenti.
Il primo tentativo di sgombrare la piazza
Infatti, nella notte tra il 2 e il 3 giugno, un maldestro tentativo
dell'esercito per sgombrare la piazza dagli studenti falliva, con la folla che
fraternizzava con i soldati disarmati tra gli applausi della gente. Il Corriere
della Sera raccontava: "Dopo venti giorni di attesa il regime cinese tenta la
resa dei conti e la popolazione torna compatta nelle strade. Ma nella notte un
milione di persone impedisce ai soldati di espugnare la Tienanmen. L'offensiva è
scattata da quattro diversi punti della città con truppe apparentemente
disarmate. La gente canta l'inno nazionale e lancia slogan di amicizia verso i
soldati. Una dura resistenza".
Secondo il quotidiano l'intervento militare era stato deciso dal governo nel
timore che operai e studenti potessero saldarsi in un fronte unico. Infatti, nei
giorni precedenti nella piazza erano state alzate tende della federazione
sindacale dalle quali si erano levati slogan antigovernativi. Per questo motivo
"si ritiene che sia stata la presenza degli operai a convincere le autorità a
lanciare l'attacco notturno", che peraltro si risolveva in un nulla di fatto.
Sembra infatti che gli studenti, avvisati preventivamente da soldati
simpatizzanti, non si siano lasciati cogliere di sorpresa.
Beppe Severgnini, appena rientrato da Pechino, raccontava su il Giornale che una
soluzione pacifica pareva a portata di mano, perché la protesta era ormai allo
stremo delle forze e "presto o tardi anche gli ultimi studenti lasceranno piazza
Tienanmen, diventata centro del mondo per un mese, alle cure di spazzini e
disinfestatori. Avrebbe potuto andare meglio, dal loro punto di vista: se i
'riformisti' avessero vinto la battaglia per il potere, la piazza sarebbe stata
abbandonata in trionfo. Avrebbe potuto andare peggio, però: se l'esercito fosse
arrivato in armi nei giorni caldi dell'insurrezione, e tutti eravamo convinti
che arrivasse, dal selciato sarebbero stati portati via non sacchetti di
immondizie ma morti a dozzine".
Il Giornale valutava però positivamente le manifestazioni. La volontà di
protesta, la manifestazione alla luce del sole di un profondo disagio sociale,
erano state le grandi vittorie degli studenti: "Resta un fatto. Il mondo è
convinto che gli studenti abbiano perduto, e vuole sapere perché. Gli studenti
non hanno perduto [...] Tutto quello che chiedevano era un pò di rispetto da
parte di un partito che, combinando privilegi e cinismo, di rispetto per la
gente comune non è sembrato averne mai molto". Severgnini constatava però
l'incapacità del fronte riformista interno al Pc cinese di prendere il
sopravvento sulla vecchia gerontocrazia e che quando studenti e intellettuali
"scendono in piazza in Cina per dar manforte alla corrente riformista nel
partito, finiscono invece con l'affondarlo".
La terribile notte tra il 3 il 4 giugno: è un massacro
Ma in un editoriale, Sandro Viola ci si chiede se non si sia trattato di un
preludio "a un attacco violentissimo contro la folla di Pechino". Infatti, le
immagini del massacro di piazza Tienanmen, scatteranno alle 0,30 locali, le 17 e
30 in Italia, trasmesse dai teleschermi dei telegiornali la sera del 3 giugno.
Il giorno successivo si leggeva sul Corriere della Sera che "la fallita
spedizione di venerdì, invece di disperdere gli ultimi ribelli ha fatto scendere
tutta la popolazione nelle strade e reso ancor più alta la contabilità del
massacro di sabato. E forse il maldestro tentativo di venerdì potrebbe essere
interpretato come una provocazione dei falchi del partito per far convergere più
gente in piazza e giustificare così l'intervento armato". La sconcertante
dichiarazione ambientalista rilasciata da Li Peng in televisione ("Salviamo
l'ambiente e la fascia di ozono") veniva invece spiegata dal quotidiano di via
Solferino come una metafora della situazione cinese, dove il pianeta minacciato
è la Cina, gli inquinatori sono gli studenti e i lavoratori che protestano,
mentre la fascia d'ozono da salvare sono le istituzioni e i capi del Pcc.
Nel fondo 'Sangue contro la storia' Franco Venturini scriveva che ancora una
volta, come a Berlino, Budapest, Praga e Danzica era la paura del nuovo,
abbinata al solito istinto di conservazione del comunismo, a venire fuori. Ora
però "Deng non si è mosso soltanto contro il suo popolo. Si è mosso contro la
storia, ha invertito il senso di marcia di un processo democratizzante che
altrove nell'universo comunista si allarga a macchia d'olio", il sistema cinese
dimostrava di essere incapace di provvedere a una sua riforma e che la scelta
inevitabile che ormai si poneva ai dirigenti cinesi poteva essere solo quella
"tra la libertà senza mezze misure e la tirannia senza falsi pudori".
Beppe Severgnini scriveva nell'editoriale su Il Giornale che "hanno perso tutti:
Deng Xiaoping che voleva passare alla storia come colui che aveva fatto uscire
il paese dal fanatismo maoista, Li Peng che è in fin di vita e ha ormai i mesi
contati, i 'liberali' alla Zhao Ziyang che sono arrivati troppo tardi, e le
forze armate che non sono riuscite a tenersi fuori dallo scontro politico. Solo
gli studenti escono moralmente vincitori da questa repressione che non era ne
prevedibile ne inevitabile. Le richieste degli studenti erano commoventi nella
loro semplicità [...] e sarebbe bastato soltanto un pò di buon senso e di
abilità per vederi partire cantando dalla piazza".
Su l'Unità diretta da Massimo D'Alema
L'Unità, all'epoca diretta da Massimo D'Alema, esprimeva il suo sdegno per
quanto accaduto alla "lotta pacifica degli studenti per la democrazia e la
libertà", così come il segretario Occhetto e i quadri del Partito comunista si
dicevano solidali con gli studenti, ma i commenti denunciavano solo la dirigenza
attuale e non il sistema che l'aveva generata, e il regime cinese non venne mai
definito con l'aggettivo comunista.
Invece, Nicola Matteucci su il Giornale scriveva: "I massacri di Pechino non
sono un accidente della storia, ma una conseguenza diretta del
marxismo-leninismo, che solo con la violenza riesce ad incarnarsi nella realtà:
è solo un'utopia sanguinaria. Per cui è insieme ridicolo e patetico l'on.
Achille Occhetto, che va a protestare di fronte all'ambasciata cinese: il suo
partito, che viene da lontano, porta nelle sue stesse origini questo male
assoluto".
Ma oltre alle dichiarazioni ufficiali e di circostanza, all'ampio spazio
dedicato alla cronaca del sit-in di Occhetto davanti all'ambasciata cinese a
Roma, alla segnalazione delle attività del Pci a favore degli studenti di
Tienanmen, L'Unità pubblicava in seconda pagina un articolo di Siegmund Ginzberg,
in cui si condannava la repressione e si denunciavano i crimini cinesi dalla
Lunga Marcia in poi, le torture inflitte ai prigionieri politici, la
dissennatezza delle comuni volute da Mao, gli assurdi esperimenti agricoli che
portarono a ripetute carestie e alla morte milioni di cinesi: "È fin dal tempo
della Lunga Marcia che comunisti cinesi uccidono altri comunisti cinesi, con
tanto di processi farsa e confessioni fasulle, oppure con intrighi e complotti
medievali. Otto milioni di proprietari terrieri e di 'controrivoluzionari'
fucilati nei primi anni '50...".
Le analisi dei giorni seguenti
I quotidiani furono unanimi nel definire la Cina a un passo dal colpo di stato,
dalla guerra civile tra fazioni diverse tra i militari e nei vertici del
partito. Tiziano Terzani, nel fondo ("Il Dio due volte fallito") sul Corriere
della sera del 6 giugno, sottolineava che "ora la Cina corre il rischio che
l'unità datale dal comunismo si spezzi dando origine a regionalismi e a
differenti centri di potere come era al tempo dei Signori della Guerra".
Su il Giornale Alberto Pasolini Zanelli scriveva che "la repressione è stata uno
schiaffo all'Occidente, a quell'Occidente che aveva salutato con fiducia le
riforme di Deng e chiuso gli occhi di fronte alla violazione dei diritti umani".
Occorreva quindi chiedersi cosa aveva spinto la Cina a disperdere tutto il
capitale di credibilità tanto faticosamente conquistato: "La spiegazione [...] è
semplice: la disperazione. Solo una situazione che pareva sfuggita interamente
di mano può aver spinto i governanti di Pechino a un gesto che ci appare, oltre
che crudele, inconsulto".
Infatti, "il maggio cinese dell'89 era diventato una rivoluzione più di quanto
noi fossimo disposti a credere. [...] Il 'riformismo' dei ragazzi della
Tienanmen si è trasformato in sette settimane, come accade poi sempre nelle
autentiche rivoluzioni, in un ripudio fondamentale del comunismo. Quelle
bandiere scarlatte sulle barricate non debbono ingannare: il rosso è per i
cinesi, da sempre, il colore della buona fortuna, appartiene a tutti".
L'ordine in Cina è ristabilito
Sabato 10 giugno l'ordine era ormai stato ristabilito a Pechino, l'esercito era
a caccia dei capi della rivolta, il vecchio leader Deng annunciava in
televisione il successo: "Abbiamo stroncato la controrivoluzione". Scriveva
Vittorio Zucconi in prima pagina, sotto il titolo 'Dimenticare Tienanmen...':
"Devono aver tirato un bel sospiro di sollievo i terribili vegliardi di Pechino
nell'ascoltare il presidente americano George Bush, giovedì sera. Quando lo
hanno sentito dire davanti a tutta la nazione americana [...] che la sua prima
preoccupazione è la preservazione dei rapporti fra gli Usa e la Cina popolare,
hanno capito di avercela fatta". Le sette settimane di proteste e i dieci giorni
di repressione non erano riusciti a sconvolgere la Cina.
Tienanmen, il comunismo del XX secolo e il Pci di Occhetto
Ugo Tramballi, su Il Giornale del 2 giugno 1989, individuava, al di là delle
interpretazioni politiche contingenti o degli esiti degli avvenimenti, alcuni
punti di non ritorno. "[...] messo di fronte all'evidenza del suo fallimento
storico, è proprio lo stato comunista che rigetta la necessità delle riforme.
Nemmeno l'universo comunista può essere immune dai tre fattori politici che
dominano la fine del nostro secolo: la democrazia, il mercato e la diffusione in
tempo reale delle informazioni".
Vittorio Strada, sul Corriere della sera del 5 giugno: "Le interpretazioni
rassicuranti, secondo cui tutte le disfunzioni del sistema sono colpa dello
stalinismo, convincono ormai soltanto limitate schiere di 'credenti' del
comunismo, nonostante gli sforzi degli ideologi ufficiali del sistema per fare
di Stalin il responsabile unico di un fallimento le cui radici stanno
nell'esperimento rivoluzionario stesso di Lenin e nelle sue basi marxiste".
Tesi opposte venivano da l'Unità. Enrica Colotti Pischel riusciva a trasformare
il regime comunista cinese in fascismo: "Il regime cinese è da intendersi
fascista per l'uso della repressione militare come atto dimostrativo, per il suo
governo di minoranza, autoritario, privo di meccanismi democratici e
pluralistici, volto alla conservazione del potere.... Ma né il regime di Mao né
quello di Stalin erano fascisti perché avevano il consenso di ampi strati della
popolazione povera e diseredata". Era quindi la profonda crisi del modello
riformatore di Deng, sostenenva, il principale responsabile del disastro.
Una condanna senz'appelli del comunismo del XX secolo fu quella di Alberto
Ronchey, su la Repubblica del 9 giugno, con un articolo intitolato 'Lo spettro
cinese s'aggira per Mosca': "Per assurdo, l'intero mondo che veniva detto
comunista era celebre un tempo a causa dei suoi 'piani' trionfali, ma ora da un
capo all'altro di quel mondo non affiora un solo credibile 'piano' di
ripiegamento. Non si scorge un'uscita di sicurezza dalle crisi che attanagliano
gli eredi e gli amministratori di quel potere, mentre fallisce in tutte le sue
varianti l'esperimento del secolo".
Ma i giudizi più forti furono quelli provenienti da il Giornale, il quotidiano
di Indro Montanelli, anche contro il segretario del Pci e L'Unità. Scrive
Montanelli sul Giornale del 7 giugno: "Il personaggio [Occhetto n.d.r.], parsoci
fino a ieri annaspante, ficchino e farfuglione, comincia a soffondersi di
patetico. Ha chiesto udienza all'ambasciatore di Cina per avere spiegazioni sui
fattacci della piazza Tienanmen, e siccome gli hanno chiuso la porta in faccia
(e non si capisce del resto di quali spiegazioni l'accaduto abbia bisogno), ha
detto che rinunziava al 'visto' che gli avevano concesso a Pechino: così
imparano".
Tuttavia Montanelli pose l'accento sulle difficoltà del compito contingente del
segretario Occhetto: "Gli avvenimenti di Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, per
non parlare di Vietnam e Cambogia così lontani da noi, hanno certamente
collaudato le resistenze di quel partito [...] il Pci che Occhetto ha ereditato
non è più quello di Togliatti, e nemmeno quello di Berlinguer che i carri armati
li digerivano come bruscolini: bastava che vincessero. Il Pci di Occhetto è un
partito che, per essersi scelto un capo come Occhetto, vuol dire che somiglia a
Occhetto e lo considera tagliato sulla sua misura. È il comunismo, da qualunque
parte lo si rigiri, l'errore. [...] Che può fare il povero Occhetto di fronte a
cose tanto più grandi di lui? Gli auguriamo di essere all'altezza della
situazione almeno come curatore del fallimento".
Per chiudere, ecco alcune parole di un'analisi dell'epoca ad opera del critico
Geno Pampaloni, pubblicata su il Giornale il 10 giugno '89. In Cina si è avuto
"l'evento finale, la contrapposizione armata, la guerra fratricida tra comunisti
e comunisti. A me sembra secondario analizzare quale delle due parti in lotta
incarni il comunismo autentico. Il fatto essenziale è che il Grande Fratello ha
oggi un Sosia che alloggia nel suo stesso palazzo. La storia si è presa la
rivincita, una rivincita tragica ma inevitabile, sull'Utopia. [...] L'uscita di
sicurezza a coloro che nel comunismo hanno creduto chiudendo gli occhi di fronte
all'evidente divorzio tra l'utopia e la realtà, può forse fornirla il lucido e
disperato Leopardi: 'Ogni passo della sapienza moderna svelle un errore; non
pianta mai alcuna verità'".