Nel fervore della lotta per l’emancipazione i leaders africani credettero che, una volta raggiunta l’indipendenza e cessato lo sfruttamento capitalistico straniero, sarebbero scomparsi tutti i vecchi mali di cui soffrivano i loro popoli e avrebbe avuto inizio un’era di prosperità e di giustizia. La realtà risultò assai diversa. Problemi formidabili si presentarono infatti ai “paesi nuovi”. Lo sviluppo economico e sociale era infatti subordinato all’industrializzazione, per la quale mancavano peraltro le condizioni essenziali: capitali, tecnici, mano d’opera specializzata, infrastrutture. Il primo problema da affrontare era quello dell’analfabetismo  e dell’istruzione professionale, anche al fine di


Tipo primitivo di aratro

 smantellare le persistenti strutture feudali; si dovevano inoltre costruire bacini per l’irrigazione, introdurre nell’agricoltura tecniche più progredite, provvedere anzitutto al dissodamento dei terreni incolti ed alla restaurazione di quelli depauperati dalla monocoltura coloniale. Nel campo minerario occorreva potenziare la produzione, creare, dove non c’erano ancora, le infrastrutture (ponti, ferrovie, strade) per l’avvio dei prodotti ai mercati mondiali. Per tutto ciò occorrevano grossi capitali, che non potevano venire che dai paesi ad economia avanzata. Perciò i governi che si trovarono alla testa dei “paesi nuovi” dovettero subito ricercare la collaborazione delle ex potenze coloniali e stringere con esse accordi. Per i territori già soggetti all’Inghilterra l’ingresso nel Commonwealth sancì, anche formalmente, il loro inserimento nel sistema britannico, con tutti i vantaggi economici che ciò comportava; per quelli già sottoposti alla Francia (indipendentemente dalla loro adesione alla Comunità progettata da De Gaulle, che del resto si dissolse nel giro di pochi anni) furono strette molteplici intese atte a garantire l’assistenza tecnica e finanziaria. Si ricreava così la soggezione ai vecchi padroni nel campo finanziario, tecnico, culturale, per cui si è potuto parlare di “falsa decolonizzazione” dell’Africa, del perpetuarsi di un colonialismo mascherato, altrettanto duro  dell’antico. Si è anche coniato il termine di “neocolonialismo”, a significare il permanere di rapporti politici ed economici attraverso i quali paesi ex colonizzatori mantengono o ristabiliscono il controllo sui territori già dipendenti, e con il controllo lo sfruttamento.

Tutto ciò va visto nel quadro del neoimperialismo tipico della nostra età, i cui campioni non sono più Gran Bretagna e Francia, ormai scadute a potenze di secondo rango, ma gli Stati Uniti d’America. Si tratta di una nuova forma di imperialismo, che non ricerca più il possesso diretto dei territori, bensì il controllo politico ed economico degli Stati di nuova ed anche di vecchia indipendenza: un sistema articolato e complesso secondo che il neocapitalismo si eserciti sui paesi già sviluppati o sui paesi arretrati, un capitalismo rispettoso perlopiù dell’indipendenza formale dei paesi che controlla. All’interno dei vari Stati di nuova indipendenza la vita politica appare perlopiù agitata, segnata da frequenti colpi di Stato, da  tentativi rivoluzionari, da attentati alla vita degli stessi leaders che hanno portato i paesi alla emancipazione.

Dopo avere accolto forme parlamentari di tipo europeo e il pluralismo partitico, essi se ne sono distaccati ed hanno adottato forme di governo autoritarie, di ispirazione genericamente socialista: un socialismo sui generis, detto appunto “africano” o “arabo”, che si differenzia profondamente sia dal socialismo europeo occidentale sia da quello marxista e leninista dei paesi dell’est, un socialismo che respinge il principio della lotta di classe (il concetto di classe non è applicabile in Africa, dove esistono certamente stratificazioni sociali, ma non classi nel senso marxista del termine) e aspira ad accordarsi con il sentimento religioso vivissimo nelle genti africane.

 

 

 

 

 

 

 

 

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