Nel gennaio 1991 una coalizione internazionale guidata dagli Usa e con l'avvallo dell'ONU lanciò una massiccia operazione militare contro l'Iraq di Saddam Hussein, colpevole di aver invaso il Kuwait. Dopo 42 giorni di bombardamenti e azioni di terra, le truppe alleate ormai sul punto di prendere Baghdad e il suo dittatore si fermarono. Il presidente Bush (senior) dichiarò di non volere andare oltre il mandato dell'ONU. In realtà a fermare i tank USA furono ragioni strategiche, un preciso calcolo di costi-opportunità. Il rischio della disintegrazione politica dell'Iraq, di una "balcanizzazione" dell'area per la presenza di minoranze curde e sciite, l'ostilità della Russia e dei paesi arabi moderati ad un allargamento della sfera di influenza americana in Medio Oriente indussero la diplomazia USA a rinunciare una vittoria completa sul campo.
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Per ragioni varie e discusse
l'amministrazione guidata da Bush junior dopo aver invaso l'Afghanistan appare
oggi fermamente intenzionata a chiudere i conti con il raìs di Bagdad.
L'argomento principe presentato al mondo per giustificare un nuovo intervento
militare in Iraq è questo: Saddam in barba alle risoluzioni dell'Onu sta
accumulando un grande arsenale di armi di distruzioni di massa e fra poco tempo
(un anno secondo Bush) sarà in grado di realizzare la bomba atomica. Su questo
punto, ovvero la reale consistenza della minaccia irachena alla pace e alla
sicurezza, esistono interpretazioni diverse che dividono gli stati e al loro
interno le opinioni pubbliche. La necessità dell'intervento militare ad alcuni
appare come un mero pretesto, un casus belli ricercato a ogni costo per
applicare la nuova dottrina imperiale della massima potenza del globo. Per altri
la guerra preventiva è l'unico modo per rendere inoffensivo chi punta alla
distruzione dell'Occidente e della sua sentinella più solerte.