Capire ciò che sta accadendo in Palestina non è facile, anche perché i grandi
mezzi di comunicazione, in particolare la televisione, non ci aiutano. Ignorano
o rimuovono deliberatamente le complesse radici del conflitto in atto,
affidandosi esclusivamente alle cronache degli inviati speciali o alle dubbie
competenze di «esperti» politici o militari, che danno spesso l'impressione di
non aver mai messo piede in Palestina. Per di più, il riferimento emotivo al
tema dell'antisemitismo e dell'Olocausto e una latente ostilità nei confronti
del mondo islamico impediscono a molti europei una valutazione razionale delle
responsabilità politiche degli attori coinvolti: gli Stati Uniti, Israele, i
paesi arabi, le organizzazioni palestinesi.
Nei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, periodo nel quale le
potenze europee, in primis l'Inghilterra, decidevano le sorti della Palestina e
incoraggiavano il movimento sionista ad occuparla, la Palestina non era un
deserto. Era, al contrario, un paese dove viveva una comunità politica e civile
composta di oltre seicentomila persone, che dava nome al territorio ed in cui
viveva da millenni.
I palestinesi parlavano l'arabo ed erano in gran parte mussulmani sunniti, con
la presenza di minoranze cristiane, druse e sciite, che usavano anch'esse la
lingua araba. Grazie al suo elevato grado di istruzione, la borghesia
palestinese costituiva una élite della regione mediorientale: intellettuali,
imprenditori e banchieri palestinesi occupavamo posti chiave nel mondo politico
arabo, nella burocrazia e nelle industrie petrolifere del Golfo Persico. Questa
era la situazione sociale e demografica della Palestina nei primi decenni del
Novecento e tale sarebbe rimasta fino a qualche settimana prima della
proclamazione dello Stato d'Israele nella primavera del 1948: in quel momento in
Palestina era presente una popolazione autoctona di circa un milione e mezzo di
persone (mentre gli ebrei, nonostante l'imponente flusso migratorio del
dopoguerra, superavano di poco il mezzo milione).
L'intera vicenda dell'invasione sionista della Palestina e della
autoproclamazione dello Stato di Israele ruota dunque attorno ad una operazione
ideologica che poi si incarnerà in una sistematica strategia politica: la
negazione dell'esistenza del popolo palestinese.
Nelle dichiarazioni dei maggiori leader sionisti - da Theodor Herzl a Moses Hess,
a Menachem Begin, a Chaim Weizman - la popolazione nativa, quando non è
totalmente ignorata, viene squalificata come barbara, indolente, venale,
dissoluta. A questo diffusissimo clichet coloniale è strettamente associata
l'idea che il compito degli ebrei sarebbe stato quello di occupare un territorio
arretrato e semideserto per ricostruirlo dalle fondamenta e «modernizzarlo». E
secondo una interpretazione radicale della «missione civilizzatrice» dell'Europa
e del suo «colonialismo ricostruttivo», la nuova organizzazione politica ed
economica israeliana avrebbe dovuto escludere ogni cooperazione, se non di
carattere subordinato e servile, della popolazione autoctona (mentre lo Stato
israeliano sarebbe rimasto aperto all'ingresso di tutti gli ebrei del mondo e
soltanto degli ebrei).
Non a caso, la prima grande battaglia che i palestinesi sono stati costretti a
combattere per risalire la china dopo la costituzione dello Stato d'Israele è
stata quella di opporsi alla loro vera e propria cancellazione storica. Il loro
obiettivo primario è stato di affermare - non solo contro Israele, ma anche
contro paesi arabi come l'Egitto, la Giordania, la Siria - la loro identitÃ
collettiva e il loro diritto all'autodeterminazione. Soltanto molto tardi, non
prima del 1974, le Nazioni Unite prenderanno formalmente atto dell'esistenza di
un soggetto internazionale chiamato Palestina e riconosceranno in Yasser Arafat
il suo legittimo rappresentante.
La negazione dell'esistenza di un popolo nella terra dove si intendeva
installare lo Stato ebraico è lo stigma coloniale e, in definitiva, razzistico
che caratterizza sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento del
resto strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in
varie forme. Dopo aver a lungo progettato di costituire in Argentina, in
Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento
sionista cade sulla Palestina non solo e non tanto per ragioni religiose, quanto
perché si sostiene, assieme a Israel Zangwill, che la Palestina è «una terra
senza popolo per un popolo senza terra».
E' in nome di questa logica coloniale che inizia l'esodo forzato di grandi masse
di palestinesi - non meno di settecentomila - grazie soprattutto al terrorismo
praticato da organizzazioni sioniste come la Banda Stern, guidata da Yitzhak
Shamir, e come l'Irgun Zwai Leumi, comandata da Menahem Beghin, celebre per
essersi resa responsabile della strage degli abitanti - oltre 250 - del
villaggio di Deir Yassin.
Poi, a conclusione della prima guerra arabo-israeliana, l'area occupata dagli
israeliani si espande ulteriormente, passando dal 56 per cento dei territori
della Palestina mandataria, assegnati dalla raccomandazione della Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, al 78 per cento, includendo fra l'altro l'intera
Galilea e buona parte di Gerusalemmme. Infine, a conclusione dalla guerra dei
sei giorni, nel 1967, come è noto, Israele si impadronisce anche del restante 22
per cento, si annette illegalmente Gerusalemme-est e impone un duro regime di
occupazione militare agli oltre due milioni di abitanti della striscia di Gaza e
della Cisgiordania. Il tutto accompagnato dalla sistematica espropriazione delle
terre, dalla demolizione di migliaia di case palestinesi, dalla cancellazione di
interi villaggi, dall'intrusione di imponenti strutture urbane nell'area di
Gerusalemme araba, oltre che in quella di Nazaret.
Ma, fra tutte, è la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati
della striscia di Gaza e della Cisgiordania a fornire la prova più persuasiva
del buon fondamento dell'interpretazione «colonialista». Come spiegare
altrimenti il fatto che, dopo aver conquistato il 78 per cento del territorio
della Palestina, dopo aver annesso Gerusalemme-est ed avervi insediato non meno
di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in una
progressiva colonizzazione anche di quell'esiguo 22 per cento rimasto ai
palestinesi, e già sotto occupazione militare? Come è noto, a partire dal 1968,
per iniziativa dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato
circa il 52% del territorio della Cisgiordania e vi ha insediato oltre 200
colonie, mentre nella popolatissima e poverissima striscia di Gaza ha confiscato
il 32 per cento del territorio, istallandovi circa 30 colonie.
Complessivamente non meno di 200 mila coloni oggi risiedono nei territori
occupati, in residenze militarmente blindate, collegate fra loro e con il
territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate
by-pass routs) interdette ai palestinesi e che frammentano e lacerano
ulteriormente ciò che rimane della loro patria.
Si può dunque concludere che il «peccato originale» dello Stato di Israele è il
suo carattere strutturalmente sionista: il suo rifiuto non solo di convivere
pacificamente con il popolo palestinese ma persino di gestire la propria
egemonia in modi non repressivi, coloniali e sostanzialmente razzisti. Ciò che
l'ideologia sionista è riuscita ad ottenere - indubbiamente favorita dalla
persecuzione antisemitica e dalla tragedia dell'Olocausto - è stata la
progressiva conquista della Palestina dall'interno. E ciò ha dato e continua a
dare al mondo - non solo a quello occidentale - l'impressione che l'elemento
indigeno sia costituito dagli ebrei e che stranieri siano i palestinesi. In
questa anomalia sta il nucleo della tragedia che si è abbattuta sul popolo
palestinese, la ragione principale delle sue molte sconfitte: il sionismo è
stato molto più di una normale forma di conquista e di dominio coloniale
dall'esterno. Esso ha goduto di un consenso e di un sostegno generale da parte
dei governi e della opinione pubblica europea come non è accaduto per nessun'altra
impresa coloniale.
Ma qui sta anche il grave errore commesso dalla classe politica israeliana e
dalla potente élite ebraica statunitense che ne ha sempre condiviso le scelte
politico-militari. Un popolo palestinese esisteva in Palestina prima della
costituzione dello Stato di Israele, continua ad esistere nonostante lo Stato di
Israele ed è fermamente intenzionato a sopravvivere allo Stato di Israele,
nonostante le sconfitte, le umiliazioni, la sanguinosa distruzione dei suoi beni
e dei suoi valori.
Riflessioni ispirate dal libro"La Questione palestinese" di Edward W. Said del quale consigliamo la lettura.
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