Si tratta di un capitolo burlesco, scritto durante il periodo del lettorato pisano contro i pregiudizi e i costumi accademici del corpo insegnante. Orbene, questi versi resero incerto il rinnovo dell’incarico di lettore di matematiche che Galileo aveva a quel tempo. Il Chiari fa notare a proposito di questo capitolo il «gusto così galileiano (e direi anche così toscano) di discutere alternando la riflessione seria al facile motteggio, di condensare i motivi di opposizione all’avversario in un’immagine ridevole, di sbozzar rapidi e felici macchiette, che illuminano una situazione più di tante ben composte e sudate argomentazioni». Che importa, scrive Galileo,

 

 

Aver la toga di velluto nero

 

E un che dreto il ferraiuol ti porti,

E che la notte poi ti vadia avanti

Con una torcia, come si fa a’ morti?

 

La scienza, scrive ancora Galileo, non sta nell’abbigliamento trovato di sicuro da qualche «astuto»

 

 

Per dar canzone e pasto agl’ignoranti.

Sta nei fatti e non nelle mostre. Ma, intanto,

 

Se per disgrazia, un povero dottore

Va per la strada in toga scompagnato,

Par quasi ch’e’ ci metta dell’onore;

 

E se non è da venti accompagnato,

Mi par sempre sentir dir le brigate:

«Colui è un ignorante e smemorato»

 

I versi, quindi, sono molto pungenti e contengono anche espressioni grossolane. Si avverte, in particolare all’inizio, l’imitazione del Berni, ma si noti nel caso galileiano anche l’uso di espressioni dialettali. Insomma, si tratta di uno scherzo, che assume a volte un accento di sfogo, contro persone avvilite dal conformismo accademico e prive di ogni personale indipendenza di giudizio.