Il più importante intervento di Galileo nella critica letteraria è quello riguardo alla polemica, molto viva nel Seicento, su quale tra i due poemi dell’Ariosto e del Tasso fosse il più mirabile. Le Considerazioni al Tasso e le Postille all’Ariosto furono scritte dal nostro autore proprio a questo proposito. Trattandosi proprio però di postille e di considerazioni, non si tratta di opere compiute ed organiche, ma bensì di osservazioni e chiose personalissime, che però il De Sanctis definì «concetto più sano e più preciso dello scrivere poetico».

Le Postille all’Ariosto sono costruite su un’edizione scorrettissima del Furioso, che Galileo con abilità pressoché filologica corresse. A margine si notano vari segni, alcuni dei quali indicano apprezzamento, altri (molti di meno) sottolineano le durezze di suono, le improprietà di parola e così via. Il Chiari sottolinea ciò scrivendo che tutta questa accuratezza sarebbe causata dal desiderio «di rendere ancora più in ogni parte perfetto quel testo ammiratissimo». Di fatto Galileo mostrava una venerazione oserei quasi scrivere spropositata per l’Ariosto, che definiva divino e addirittura divinissimo. Il Del Lungo ipotizza che il nostro autore rintracciasse nell’Ariosto l’equilibrio tra fantasia e ragione.

Ma in particolar modo sono interessanti le Considerazioni al Tasso, poiché è qui che Galileo mette alla prova la validità delle immagini e dei versi della Gerusalemme, prendendo a modello passi analoghi o conformi del Furioso e concludendo di solito in modo negativo per il Tasso. Riporto ad esempio, a sinistra la prima stanza della Gerusalemme con a fianco la dura critica di Galileo:

 

Canto l’arme pietose e ‘l capitano

che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.

Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano,

molto soffrì nel glorioso acquisto;

e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano

s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.

Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi

Segni ridusse i suoi compagni erranti.

Uno tra gli altri difetti è molto familiare al Tasso, nato da una grande strettezza di vena e povertà di concetti; ed è, che mancandogli ben spesso la materia, è costretto andar rappezzando insieme concetti spezzati e senza dependenza e connessione tra loro, onde la sua narrazione ne riesce più presto una pittura intarsiata, che colorita ad olio.

Ancora, riguardo alla parola compose de I, 13, 6, Galileo osserva: «Il numero delle parole stravolte dal lor significato in questo libro è grandissimo», sottolineando di nuovo quella sua concezione quasi baconiana della parola di cui ho già scritto nell’introduzione.

Eppure sempre il Viviani riferisce che Galileo a chi insisteva con il chiedergli chi preferisse tra Ariosto e Tasso (il nostro autore cercava di sfuggire a queste richieste: la polemica era privata come testimonia la natura per l’appunto privata delle Considerazioni e delle Postille) rispondeva che era più bello il Tasso, ma che gli piaceva l’Ariosto, aggiungendo che il primo diceva parole, il secondo cose. Giudicando questa affermazione alla luce del precedente discorso che ho scritto a proposito della lingua galileiana possiamo immediatamente giungere, e già lo avevamo capito, che Galileo in realtà preferiva l’Ariosto. E la stragrande maggioranza dei critici con i quali mi sono confrontato ritiene proprio che sia stato questo iato tra le cose dell’Ariosto e le parole del Tasso a far optare Galileo per il poeta del Furioso. Ma gli attacchi di Galileo alla Gerusalemme furono però ben più aspri rispetto a quelli che ho riportato finora: definì il poema un «ciarpame di parole ammassate», un insieme di «scioccherie fredde, insipide e pedantesche», definì i versi «scambietti» e «capriole intrecciate», definì il Tasso «pedantone». I titoli più cattivi (e forse, per noi lettori moderni, anche più diverenti) vanno però ai personaggi del Tasso: Clorinda è definita «un poco troppo manesca», giudizio queste che, se non infondato, toglie comunque al personaggio quella austerità di guerriera aristocratico che ne è l’essenza; Tancredi è un «fagiolaccio, scimuito» e «fannonnolo», invitanto, come se non bastasse, ad andare a «giocar alle comarucce», tanto si dimostra incapace nelle faccende d’amore. In generale i cavalieri tasseschi sono definiti «creduli, corrivi e leggieri», nonché «pappatori e parabolani». Vi sono poi certo le critiche alla forma del poema stesso, principalmente quella secondo la quale la Gerusalemme non sarebbe organizzata in modo organico (come già abbiamo letto dall’appunto sulla prima ottava): per Galileo l’Ariosto è un gran maestro di disegno, il Tasso è un intarsiatore che lascia i confini tra pezzo e pezzo ben visibili; ancora, con l’Ariosto si entra in una «galleria regia» piena di capolavori, col Tasso in uno «studietto». Insomma, nel Furioso il grandioso, la ricchezza vera, l’arte; nella Gerusalemme il minuscolo, le miserae divitiae. Concludo con un’osservazione del Lanfranco Caretti, che, in quanto a Tasso, è un vero esperto: «se i suoi [di Galileo, ndr] giudizi sul Tasso possono oggi sembrarci oggettivamente ingiusti, ciò che conta notare è piuttosto l’ostilità che essi esprimono verso ogni forma di arte improntata ad una mera concettosità, a curiosa peregrina, a sottile lambiccatura o virtuosistico artificio, cioè verso un’arte stentatamente riflessa o troppo calcolata e priva d’impetuosa forma intuitiva».