Ho allegato a queste pagine alcune fotocopie tratte dal testo del Piras che riproducono il testo dell’unico componimento in rima di Galileo che son riuscito a trovare (escluso il capitolo). Si tratta di XIV stanze (centosettantotto versi), che fanno parte di codice manoscritto di 135 fogli, scritto per intero da una sola mano per di più abile nelle decorazioni. La prima pagina, che fa da frontespizio al codice, riporta la dedica a Cristina di Svezia. Seguono quindi poesie in metri vari di molti autori (Malatesti, Rovai, Salviati, Ciro di Pers, Gasperini, Tancredi Borbone, Bartolomei, Graziani, Margherita Bargellini Capponi, Inghirami, Adimari, Marino, Achillini, Melosi, Lamberti, Seminetti, Galieleo, Rucellai e Carlo Dati. Non vi sono dubbi sulla paternità della canzone, poiché l’intestazione è inequivocabile come per tutti gli altri autori; inoltre la destinataria del codex era donna particolarmente colta alla quale era difficile, scrive il Piras, «far passare una cosa per un’altra». Inoltre la maggior parte degli autori era ancora vivente al momento della scrittura del codice e pertanto una falsità sarebbe risultata poco probabile. Ad ulteriore prova, vi sono altre fonti che riportano, magari anche autografi, componimenti di alcuni degli autori del nostro codex.

Il Piras ritiene che l’opera sia stata scritta da un Galileo maturo, probabilmente nei diciotto anni passati nello studio di Padova (e d’altra parte a questo stesso periodo risalgono anche le altr opere letterarie, Postille e Considerazioni).

Non vi sono commentatori e pertanto posso solo tentare di formulare la mia analisi: lo schema delle rime è abbaaccdeedff, alcune delle quali incluse (nodi-annodi, XI; ardo-sguardo, XIII; eleggo-leggo, XIV; interessante è la rima grammaticale "ossimorica" amando-odiando, XII). Difficile è definire lo stile di Galileo: l’abbiamo visto essere appassionato lettore del Petrarca come del Berni, e mi pare di ritrovare stilemi e topoi del Grande Trecentesco come trovate che sfiorano il concettismo. Riporto gli esempi che mi sembrano più eclatanti: i vv. 5 e sg. Di I mi ricorda topoi di natura neoplatonica, precisamente ficiniana, poi adottati dal Bembo ad esempio nel I libro degli Asolani (e qui rimaniamo in ambito "classico"); ancor di più le prosopopee di Brama e Vaghezza in III hanno sapore petrarchesco, ma mai quanto il lessico stesso utilizzato, in primis il sostantivo vaghezza stesso e poi il verbo ancida. Mi pare di riconoscere il Galileo "petrarchista" anche nei lacci e nella speme di VI, oltre che nel tricolon un volto, un guardo, un riso di VIII. TopoV collaudato è anche quello contenuto in VI: Orribil sue tempeste / La navicella etc. (subito penso a Petrarca, r.v.f., CCLXXII, 11-3: Veggio al mio navigar turbati i venti; / veggio fortuna in porto, et stanco omai / il mio nocchier, et rotte arbore et sarte. E sul vento in particolare si pensi a Virgilio, Aen. IV, 566: iam mare turbari trabibus… videbi).

Vi sono invece anche espressioni che mi paiono più "baroccheggianti", come ad esempio in VII i colori che suggerisce l’immagine dell’argentato grembo, / Su ‘l rugiadoso lembo. O ancora la luce che traspare da tutta l’ottava IV.