Sappiamo che fino al Settecento inoltrato la lingua con la quale gli scienziati europei mettevano su carta le loro scoperte era il latino; si trattava d’una lingua sovranazionale, conosciuta solo dall’élite colta del continente (l’inglese prenderà il posto della lingua dell’antica Roma all’inizio del XIX secolo, per via, oltre che di evidenti ragioni storiche, anche del fatto che la dimensione della cultura e della scienza iniziò a divenire globale e non più solo europea). Ci potrebbe stupire il fatto che Galileo scelse di scrivere la del Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono in volgare italiano e non in latino, trattandosi forse del primo trattato galileiano di una certa importanza, in particolare poiché per la prima volta nell’opera è evidente la polemica con gli aristotelici. Inoltre non dobbiamo scordarci che anche il ben più famoso ed anche linguisticamente più pregevole Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo venne scritto in volgare.

Il problema non è stabilire perché Galileo scrisse il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono o il Dialogo in italiano, ma bensì capire perché in alcuni casi egli scrisse in italiano, mentre in altri fece ricorso al latino (anche se dal 1611-2 ebbe il sopravvento la scelta di scrivere in volgare). Per arrivare a delle conclusioni verosimili dobbiamo considerare il target, o meglio, i targets ai quali Galileo si rivolgeva con ogni singola pubblicazione. Con tutta probabilità, Galileo scrisse in latino quelle opere che egli desiderava fossero destinate al vasto pubblico scientifico europeo (d’altra parte, come ho già scritto, il latino era l’unica lingua sovranazionale d’allora; la tendenza a scrivere in latino si riscontra soprattutto nella prima parte della vita di Galileo: si pensi ad esempio al Sidereus Nuncius). Ma perché scrivere il Dialogo in italiano? Per tentare di rispondere a questa domanda, riporto alcune interpretazioni ben più autorevoli e meno scontate della mia. Premesso che il latino di Galileo appare semplice, sobrio, asciutto, evidente (tanto per usare un termine a noi ormai noto), riassumo ora brevemente la teoria formulata da Bruno Migliorini, che collega l’iniziativa del nostra autore di scrivere in volgare al processo di emancipazione delle scienze e della tradizione scolastica: «non fu decisione avventata, ma maturata e consapevole deliberazione, che si consolidò man mano che Galileo venne precisando il suo vasto programma di "politica culturale" per il rinnovamento delle concezioni scientifiche». D’altra parte, fa notare sempre il Migliorini, la necessità di una nuova lingua che, al di là dei confini nazionali, potesse esprimere «con più diretta adeguatezza i contenuti e le tendenze delle nuove scienze» si faceva sentire il Italia, in Francia e, in minor modo, in Germania. D’altra parte il nostro autore riteneva che il nostro volgare avesse le stesse potenzialità espressive del latino (se non di più); scrisse infatti in una lettera del primi dicembre 1612 a Marco Welser, duumviro di Augusta e accademico linceo: «ricchezza e perfezion di tal lingua [il fiorentino, ndr], bastevole a trattare e spiegar e’ concetti di tutte le facultadi».

Alla luce di ciò e anche della frase che ho trascritto qui sopra, che s’inserisce in una polemica tra il latino utilizzato nelle Università ed il volgare, si può ipotizzare che la scelta di scrivere in fiorentino attuata da Galileo sia stata causata anche dalla sua avversione personale nei confronti degli ambienti accademici, dove il latino era ancora lingua irrinunciabile. In quest’ottica, quindi, la polemica sulla prosa e sulla lingua delle nuove scienze diviene anche un confronto diretto con la tradizione del costume universitario.

Scrivere in volgare, quindi, comportava purtroppo la perdita di quell’internazionalità che il latino invece garantiva, ma consentiva alle scienze di creare un legame più stretto e diretto con la tecnica ed i mestieri, fornendo quindi allo scienziato, come fanno notare il Geymonat e Brunetti, «un’importante occasione di verifica e di precisazione delle sue teorie» (ed in quanto a collaborazione con i mestieri, o meglio, in quanto a costruirsi da sé il materiale per gli esperimenti, Galileo era un maestro). Questa tesi è supportata da vari scritti galileiani; ad esempio la prefazione alle Operazioni del compasso geometrico e militare ci fa comprendere sia il significato dell’osservazione del Geymonat e del Brunetti, sia ci conferma il fatto che il nostro autore sceglieva la lingua da usare in base al target. Scriveva Galileo: «Finalmente essendo mia intenzione di esplicare al presente operazioni per lo più attinenti al soldato, ho giudicato esser bene scrivere in favella toscana, acciò che, venendo talora il libro in mano di persone più intendenti della milizia che della lingua latina, possa da loro esser comodamente inteso». E’ invece contrario a quest’ipotesi Altieri Biagi, che scrive: «Il rifiuto del latino per l’adozione del volgare non è il rifiuto della lingua dotta per l’accettazione di una lingua accessibile a livelli artigiani: è rifiuto della lingua peripatetica piena di comode formule illusorie e mistificatorie, che nessuno si permette di analizzare o di sottoporre a una nuova definizione perché tutto è già definito da secoli». Secondo quest’ultima interpretazione, quindi, il volgare serve a rimpiazzare quella che sempre l’Altieri Biagi definisce «terminologia-tabù della scienza ufficiale»; sempre secondo questo critico, Galileo avrebbe scritto in italiano per il gli «uomini di lettere fra cui la nuova scienza e il nuovo metodo vanno diffusi […] perché la nuova scienza non è una disciplina riservata ad una categoria ma è, come dice L. Geymonat, "un germe fecondo, che non conosce confini, e tende, per intima energia, a pervadere il mondo e trasformarlo"».

Queste osservazioni, però, non bastano a spiegare il perché Galileo abbia scelto di scrivere in volgare il Dialogo: per un’opera scientifica di tale livello, mi pare che perdere l’internazionalità garantita dal latino costituisca un rischio molto grande. Probabilmente Galileo era cosciente del fatto che scrivendolo in italiano l’avrebbe sottratto all’attenzione degli scienziati europei, ma era anche ben cosciente che così facendo, avrebbe reso la sua opera accessibile a persone delle fasce sociali più disparate. Questo è l’intento che traspare dalle lettere a Cristina di Lorena, che compare apertamente dichiarato anche, ad esempio, in una lettera che Galileo scrisse a P. Gualdo: Io l’ho scritta vulgare perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo ultimo mio trattatello [si riferisce al Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, ndr]. Anche il Caretti insiste su questo concetto, scrivendo che Galileo iniziò a comporre le sue opere scientifiche in italiano perché «voleva […] essere inteso […] da uomini nuovi e veramente vivi, dagli uomini di "buon senso" della vita pubblica, commerciale e tecnica, dagli uomini di stato come anche dai loro più umili sudditi». E conclude: «Galileo con l’adozione dell’italiano perseguiva democraticamente un ideale di larga comunicazione scientifica, di aperta divulgazione del pensiero speculativo, contro le chiusure della vecchia cultura aristotelica ormai estranea al flusso intenso della vita». Di fatto, però, le opere in volgare di Galilei furono all’estero spesso tradotte in latino, al fine di permetterne più facilmente una circolazione sopranazionale.