«Fervida e cionondimeno padrona di sé, entusiastica e cionondimeno grave», così lo Spongano definiva la prosa di Galilei. In effetti siamo abituati a considerare in particolar modo gli aspetti contenutistici degli scritti galileiani, non soffermandoci invece a considerare anche alcune preziosità linguistiche di tali opere che, anche a prescindere da ogni valutazione di tipo estetico, costituiscono pur sempre un altissimo, se non il più alto esempio di trattatistica scientifica della nostra Letteratura.
A chiunque legga gli scritti di Galileo, soprattutto se confrontati con le coeve produzioni degli altri generi letterari, imbevute di trovate concettistiche, salta immediatamente all’occhio, o meglio, all’orecchio, un aspetto peculiare della prosa galileiana: la chiarezza, una chiarezza "cristallina". Se volessimo utilizzare un termine forse ancora più opportuno, potremmo far riferimento a quello "coniato" dall’ultimo discepolo di Galileo, Vincenzo Viviani, che definisce il carattere portante della prosa del nostro autore evidenza e proprio così chiamerò d’ora innanzi nella stesura dell’analisi la chiarezza alla quale ho fatto riferimento sopra.

L’abilità di Galileo, lo vedremo analizzando le opere, sta nel riuscire a limare l’evidenza, la limpidezza del suo stile, nel saperla adattare ad ogni occasione, contesto, target. Conseguentemente non possiamo aspettarci una prosa raffinata, curata nei suoi aspetti retorici e relativi all’ornatus, ricca di latinismi o grecismi. Notiamo invece una prosa diretta, schietta, ma non priva di accorgimenti che però si possono cogliere analizzandola nel suo insieme, in ogni singolo contesto; d’altra parte Galileo ben sapeva che il significato di una parola dipende solo dal senso convenzionale che si decide di darle (e questo non può non farmi pensare anche a Bacone). Altro aspetto tipico della prosa del nostro autore, come fa notare il grande Caretti, è quindi la più accurata precisione, alla quale giova quella semplificazione della lingua a cui accennavo sopra e l’eliminazione dell’uso della terminologia della filosofia peripatetica. Galileo arricchisce il vocabolario della nostra lingua ogni qual volta le necessità tecniche lo rendono necessario (d’altra parte, il nostro autore fu il primo a scrivere trattati scientifici in italiano, lingua che quindi non possedeva ancora una terminologia specifica della scienza codificata), ma sempre in modo semplice, estraneo all’uso barocco; ad esempio, per designare il pendolo Galileo si limitò a coniare il termine che ancora noi oggi usiamo ricorrendo alla semplice sostantivazione del già esistente aggettivo pendolo o pendulo. In questo modo, scrive il Caretti, «Galileo operava a favore di un arricchimento semantico, esattamente calcolato, del lessico scientifico e nello stesso tempo evitava l’irruzione caotica di termini nuovi, l’orgia barocca del verbalismo ad oltranza». D’altra parte il nostro scienziato stesso scriveva: «parlare oscuro lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi».

Non si pensi però che, proprio per via di queste evidenza e precisione di cui ho scritto sopra, le opere di Galileo non siano apprezzabili anche da un punta di vista letterario, o, se vogliamo, retorico ed estetico: il nostro autore fu infatti, come avremo modo di vedere, un grande maestro dell’ironia e proprio nel saper "dire dietro le righe", nel far giungere messaggi solo a chi è in grado d’intenderli, a mio parere, si riconosce l’anima seicentesca della prosa galileiana. Da un punto di vista più strettamente sintattico, notiamo nella prosa del nostro autore, ad esempio, la scomparsa del verbo in fondo alla proposizione, dell’accusativo "in cima", come lo definisce il Del Lungo, di quelle perifrasi di cui avevano fatto largo uso gli autori del Cinquecento. Eppure i periodi della prosa del nostro autore permangono ricchi di coordinate e subordinate, ma nel contempo appaiono sciolti e mai rischiano di oscurare la chiarezza dei contenuti.

Ho già accennato in precedenza al rifiuto di Galileo nei confronti dello stile barocco, ma è opportuno far notare che le caratteristiche stilistiche e sintattiche che ho riportato sopra non costituiscono un elemento valido sul quale costruire l’ipotesi di un rifiuto galileiano anche nei confronti della lingua cinquecentesca. Scrive infatti il Del Longo: «Galileo è invero uno scrittore toscano di legittima pertinenza del secolo del quale visse ben trentasei anni: e gli altri quarantadue vissuti nel Seicento non potevano straniarlo molto dal fare dei cinquecentisti. […] E la lingua […] così schietta sempre e potente, come i cinquecentisti, tanto i più serrati quanto i verbosi, maneggiano tutti con eguale facilità. Se in tuttociò si vuol vedere dell’umanistico e del latinevole, esso non è più nella prosa narrativa descrittiva didascalica dei cinquecentisti, che nella scientifica di Galileo». Il Caretti individua alcuni ulteriori elementi che assimilano la prosa galileiana e quella cinquecentesca:«prima di tutto […] l’unità, in tutta la sua opera così salda, tra pensiero speculativo ed espressione letteraria, tra contenuto etico-filosofico e stile di scrittura [credo di poter addurre ad esempio di ciò gli Asolani del Bembo e le molteplici interpretazioni circa al loro genere letterario di appartenenza, se filosofico o letterario, ndr]. Anzi, è proprio per questa coscienza sempre vigile dell’adeguamento della parola al momento speculativo e alle necessità comunicative del discorso, che Galileo fu ostile ad ogni forma di secentismo, tanto mentale quanto stilistico e preferì il volgare al latino nelle sue opere scientifiche della piena maturità [aspetto, questo, che approfondirò in seguito, ndr], mentre sul piano del gusto sentì assai più congeniale al suo spirito chiaro ed armonico, tanto fervidamente ricco quanto razionalmente equilibrato, l’arte dell’Ariosto che quella del Tasso [altro aspetto che analizzerò in seguito]». Ricordiamoci però sempre di quell’evidenza, alla quale ho accennato in precedenza e alla quale faceva riferimento implicitamente il Caretti nel brano che ho riportato, perché essa costituisce indubbiamente il concetto sul quale si costruisce tutta la prosa di Galileo: anche il Del Longo è costretto infatti ad ammettere che «quella di Galileo è la prosa vigorosa che nel Cinquecento si è venuta con squisito artificio formando; ma in lui l’artifizio esteriore non si sovrappone al contenuto logico, che riman sempre il sovrano». Il largo uso di esempi ed astrazioni è proprio uno di quegli «artifizi» che non si sovrappongono al contenuto logico, ma, al contrario, lo esaltano.

Un altro aspetto da notarsi è che la prosa di Galileo appare conformata al toscano coevo; questo fatto non stupisce tanto in sé, quanto se si considera che anche la terminologia tecnico-scientifica galileiana è anch’essa conformata al toscano. Il Del Longo riteneva, ad esempio, che «la principale virtù del suo [di Galileo, ndr] scrivere fosse nel secondare sapientemente le immanenti proprietà della lingua toscana, concedendo il meno possibile a se stesso nell’atteggiarla».

Approfondirò in seguito il perché della predilizione di Galileo per la forma del dialogo; qui mi limiterò a far notare un altro tratto fondamentale della prosa del nostro autore, vale a dire il frequente passaggio da frasi brevi e scarne a discorsi ampi e complessi. Scrivono il Geymonat e il Brunetti: «Nelle opere maggiori e in quegli scritti in cui alla polemica si accompagna il gusto della descrizione e la vivacità dell’argomentazione, la breve annotazione si ravviva e prende forma più distesa e varia, la proposizione si articola in un periodo più ampio e armonioso e la prosa, pur conservando la vivacità del breve appunto, si fa più aperta e più ricca.».

A questo punto è chiaro che la prosa galileiana, evidentemente, non dovette nascere dal nulla. Qui mi limiterò a riportare (le conoscenze letterarie di Galileo saranno da me analizzate nel secondo ambito della mia ricerca) la breve analisi che il Caretti a suo tempo scrisse: «Nella sua [del nostro autore, ndr] stessa prosa, elaborata genialmente lungo tutto l’arco della vita, attraverso l’esperienza, prima, della lingua latina (fondamentale non solo per l’architettura sintattica, ma anche per i nuovi modi vivacemente colloquiali e ricchi di moderna libertà espressiva a cui Galileo riuscì di piegare il latino), e quindi attraverso l’esperienza della lingua toscana, Galileo perseguì un suo modello stilistico, il quale, pur rifacendosi per molti aspetti alla vigorosa e schietta tradizione toscana del Cinquecento [e ciò ci riconduce alle osservazioni che ho scritto sopra sul rapporto tra Galileo e Cinquecento e Barocco, ndr], profondamente la variò e arricchì alternando alle forme gravi e compassate della speculazione filosofica le forme crude e anche popolaresche del sarcasmo o dell’invettiva, alle forme nervose e incalzanti della rigorosa dimostrazione scientifica le forme suggestivamente pratiche dell’accensione interiore o dell’entusiasmo intellettuale».

L’analisi delle opere galileiane, qui effettuato seguendo uno schema rigidamente cronologico, ci offrirà altri spunti per lo studio della lingua di Galileo.