A tal proposito ritengo possa essere esauriente il brano del Caretti che riporto qui di seguito: «Il fervido consenso degli illuministi, intesi a ribadire l’interpretazione razionalistica e classica dello stile galileiano […] e quindi a rilevarne la regolarità, la naturalezza e la funzionalità comuicativa, non venne meno neppure nei decenni successivi e lo ritroviamo non soltanto presso i neoclassici Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, ma anche presso i romantici. Se il Foscolo infatti, dopo il poetico omaggio al genio scientifico di Galileo nei Sepolcri, in una ‘nota’ delle Grazie scrisse: «Galileo, sommo filosofo e scrittore elegante»; Giacomo Leopardi, che pure ebbe della prosa un’idea tutt’affatto personale e di tale modernità da non poterla compiutamente ricondurre a modelli del passato, nello Zibaldone rilasciò alla prosa galileiana, da lui largamente e acutamente antologizzata nella Crestomazia italiana, un significativo attestato di «precisione» e di «eleganza» («E di questa associazione della precisione coll’eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra’ nostri, di Galileo»). E il Gioberti a sua volta, riferendosi al Machiavelli e a Galileo [ho notato che molti saggi critici sul valore della prosa galileiana utilizzano il confronto tra il Machiavelli e Galileo come chiave d’analisi privilegiata, ndr] […] parlò di «uno stile scientifico, largo, vario, virile, facondo, eloquente all’occorrenza e perfetto in ogni parte», e poi della prosa galileiana in particolare sottolineò i pregi stilistici che deriverebbero da «quell’evidenza e scultura di concetti inimitabile»; mentre Francesco De Sanctis, pur diffidando della tradizione letteraria rinascimentale, ragionò dello stile galileiano come di uno stile antitetico a quello barocco, cioè come di uno «stile tutto cose e tutto pensiero, scevro di ogni maniera, in quella forma diretta e propria che è l’ultima perfezione della prosa». Infine, nel Novecento, Benedetto Croce ha ribadito lo stretto rapporto tra Galileo e la tradizione cinquecentesca e toscana, la letterarietà del suo vario stile, la resistenza, sua e dei suoi seguaci, al «barocchismo» della prosa del Seicento. […] Sulle orme del Croce, tutti gli studiosi moderni della prosa galileiana, da Bosco a Sapegno, da Migliorini a Spongano, sia pure con motivazioni diverse e salvo pochissime eccezioni, hanno concordemente insistito nel disgiungere lo stile di Galileo dalle categorie del Barocco, ora riallacciandolo, appunto come ha proposto il Croce, alla tradizione linguistica e letteraria toscana del Cinquecento, ora considerandolo invece un prodotto d’eccezione, un’alta e complessa conquista personale, al di fuori perciò della tradizione rinascimentale non meno che del gusto secentesco». Mi pare che la maestria del Lanfranco Caretti abbia largamente esaurito questo aspetto, per lo meno per quanto riguarda gli obiettivi del mio lavoro.