FRIEDRICH W. J. SCHELLING

 



A Friedrich Wilhelm Joseph Schelling è attribuita la più ampia e organica teoria estetica formulata nella stagione romantica: i suoi duplici interessi artistico-filosofici lo spingono ad indagare sulle profonde relazioni che intercorrono tra filosofia e arte, inducendolo a definire quest'ultima "organo generale della filosofia", funzione che ha attinenza non solo col "bello" ma anche col "vero". La sua riflessione pone le radici in un'attenta analisi della tragedia greca, o meglio dell'Edipo re, opera da lui ritenuta esemplare del genere tragico: in essa attinge l'ispirazione per le sue più generali considerazioni estetiche.

Nelle Lettere sul dogmatismo e il criticismo del 1795, dove la sua teoria appare ancora in forma embrionale, l'interpretazione della vicenda di Edipo è volta a mettere in luce il notevole spessore filosofico della tragedia greca, le sue chiare valenze metafisiche. L'arte tragica, infatti, nel rappresentare un'antinomia insolubile tra la volontà del singolo, che pretende di guidare l'agire individuale in autonomia, e il destino, che lo dirige segretamente secondo una causalità predeterminata, riproduce in forma artistica il dualismo metafisico tra libertà e necessità. Rivela tutta la sua densità filosofica nella riflessione problematica sul loro rapporto che essa esige.
Schelling presenta la situazione tragica come una realtà conflittuale, dove l'arbitrio del protagonista e i casi della sorte paiono opposti in una lotta lacerante, e qualsiasi soluzione conciliante del loro dissidio sembra impossibile.

La tragedia greca rendeva onore alla libertà umana facendo lottare il suo eroe contro lo strapotere del destino: per non andare al di là di tutti i confini dell'arte doveva farlo soccombere, ma per riparare nuovamente a questa umiliazione della libertà umana, imposta dall' arte, doveva farlo espiare anche per il delitto commesso dal destino.
E' un grande pensiero
- continua il filosofo - quello di essere disposti ad affrontare anche la punizione per un delitto inevitabile per dimostrare così, attraverso la perdita della propria libertà, questa libertà, e proclamare, nell'atto stesso di perire, il proprio libero volere.

E' dunque l'eroe a restare vinto. Egli soggiace al peso della sua impotenza ed è incapace di opporsi all'impeto delle forze che lo trascendono; ma proprio quando egli accetta di soffrire per ciò che in realtà non ha commesso, assumendosene la responsabilità, si appropria della paternità dell'azione da lui compiuta, riscatta la sua libertà limitando al contempo il ruolo del destino.

L'Edipo re è la tragedia che meglio si presta ad incarnare una simile concezione del tragico e a svelare artisticamente tale dinamica mettendone a nudo i caratteri principali.

Come osserva il Del Corno "nel dramma risultano mirabilmente fuse due tensioni" che, oltre a strutturarlo intimamente nella sua forma letteraria, conferiscono all'intera vicenda uno spiccato senso di conflittualità e un profondo significato: la prima "trae impulso dall'indagine strenua di Edipo sui misteri che lo circondano", una seconda "definisce al contempo la figura stessa di Edipo come mistero da decifrare".


Gustav Klimt. La Sfinge e la musica.

Dalla prospettiva filosofica esse sono interpretabili l'una come l'azione pratica dell'uomo in quanto soggetto del proprio volere, impegnato nella scoperta e nella modificazione della realtà circostante; l'altra come riflessione problematica sulla condizione dell'uomo, il quale percepisce nella propria vicenda storica la presenza determinante di un elemento trascendente che governa in modo surrettizio lo svolgersi della sua vita, e s'interroga riguardo la reale efficacia della propria volontà. Può essa ambire ancora a giocare un ruolo attivo nella determinazione dell'agire individuale, o è destinata ad essere totalmente in balìa di una malvagia predestinazione, che si compiace di renderla foriera di conseguenze diverse, se non opposte, a quelle desiderate?
Proprio queste due tensioni riproducono e rendono più cruento nella tragedia il conflitto tra arbitrio e destino, il dualismo tra libertà e necessità: esse s'intensificano contemporaneamente, più Edipo s'impegna nella ricerca più il senso dell'intera vicenda gli appare oscuro e ambiguo.

Il responso dell'oracolo di Delfi e la successiva consultazione di Tiresia, volute entrambe dal re di Tebe, non chiariscono la situazione ma anzi la rendono più misteriosa: nonostante ciò Edipo continua l'indagine spinto dall'impulso istintivo di conoscere.Il colloquio in origine distensivo tra il re e Giocasta diviene, per tragica ironia, sorgente di nuovi ombre e dubbi: e se l' uomo ucciso al trivio fosse stato Laio? Non sarebbe dunque vera l'accusa di Tiresia?
Tuttavia la volontà di sapere, di dominare razionalmente la situazione è più forte dell'atroce sospetto; Edipo è determinato a continuare la sua ricerca, anche se mostra di essere ormai disorientato: il racconto del messo di Corinto riguardo le sue origini provoca il suicidio di Giocasta, ma egli fraintende nuovamente la situazione e addita il motivo di tale gesto alle sue origini di trovatello.

La sua brama orgogliosa di conoscere, stimolata dal senso di mistero che avvolge la vicenda, non ha però tregua ed egli procede con impavida fermezza nella sua indagine: la testimonianza dell'unico superstite della scorta di Laio è sconcertante, Edipo conosce la verità.

"Un mortale, destinato dal fato a compiere un delitto, che lotta contro il fato, e che tuttavia è terribilmente punito per il delitto che è stato opera del destino" è il commento di Schelling: ma l'eroe tragico è proprio colui che, pur nell' ambiguità che circonda il suo agire, ne rivendica la paternità e si erge contro le forze che inficiano il suo libero arbitrio: così l'estrema decisione di accecarsi, di punirsi, rappresenta il supremo tentativo di difendere l'esclusività della propria azione, di porsi come unico artefice di essa, accettando anche le conseguenze che ne derivano.
La sua condizione di colpevole risulta così estremamente problematica, il confine tra innocenza e responsabilità oggettiva si rivela molto labile: il tragico si manifesta proprio in questa ambiguità, nella quale si lascia però intravedere una fondamentale intuizione metafisica che prelude alla risoluzione del conflitto.


Oedipus Aegyptiacus.

Grazie al titanico comportamento di Edipo s'instaura infatti una placida concordanza tra agire dell'uomo e disegno divino: si realizza una perfetta simbiosi tra volere umano e volere degli dei: ciò che emerge come senso più profondo della vicenda è "il palesarsi della loro perfetta indifferenza" (P.   Szondi), che rende finalmente possibile una comprensione metafisica unitaria del fenomeno tragico.

Nè la libertà umana nè quella divina escono sconfitte; entrambe conservano la loro integrità proprio perchè possono convivere in modo non conflittuale. Ma la libertà, in vero, è una, unica, ed appartiene nello stesso tempo all'uomo e alla divinità. In termini filosofici tale libertà è il principio primo dell'autonomia e della spontaneità dell'essere assoluto, che struttura tanto l'essenza dell'io quanto quella della natura (alla quale, secondo Schelling, è assimilabile il divino inteso come legge immanente dello svolgimento della realtà), in quanto è plausibile una "doppia entrata", una duplice interpretazione, soggettiva ed oggettiva, dello stesso principio primo.

La dimensione conflittuale della tragedia è il momento in cui il reale appare massimamente dualizzato, dominato da due tensioni opposte. Ma tale situazione concerne solo un aspetto della realtà, non l'essenza la cui natura è unitaria. Il conflitto è superabile se si pensa che le due forze che lo animano coincidono nell'assoluto. Se in esso la libertà si nega nella sua forma duplice, nello stesso tempo si afferma come principio primo dell'essere; scopre la sua sostanziale unità e le sue molteplici dimensioni. Questo è il senso più profondo del tragico, che è caratterizzato da questa doppia valenza negativa e positiva; esso è un meccanismo conflittuale nel quale la libertà si afferma e non si nega; "tale processo può con Hegel definirsi dialettico" (P. Szondi).

La posizione privilegiata della tragedia nel sistema, la concezione del tragico come fenomeno dialettico, sono efficacemente ribaditi da Peter Szondi.

"In tal modo l'intero sistema schellinghiano, la cui essenza è costituita dall'identità di libertà e necessità, culmina nella sua definizione della vicenda tragica come ristabilirsi di questa indifferenza nela lotta. Ancora una volta il tragico è concepito come fenomeno dialettico. Giacchè l'indifferenza di libertà e necessità è possibile solo al prezzo che il vincitore sia ad un tempo lo sconfitto, e lo sconfitto ad un tempo il vincitore. E il teatro del conflitto non è un campo intermedio, che rimane esterno al soggetto in esso coinvolto, ma è trasferito all'interno della libertà stessa, la quale, quasi in discordia con sè medesima, diventa il proprio stesso antagonista".

         

Il filosofo tedesco ritiene dunque che il superamento dei conflitti e dei dualismi sia presente, in nuce, già nell'opera tragica, anche se esso risulta evidente in modo più compiuto mediante un'analisi filosofica, grazie alla quale è possibile svolgere le implicazioni della tragedia per ristabilire una effettiva comprensione unitaria del tutto, recuperando così il senso più profondo dell'idealismo di Schelling.

La sua matura riflessione estetica mostra i chiari legami con gli esiti della filosofia dell'identità cui egli è definitivamente approdato: essendo possibile intendere ogni uomo sia come soggetto del proprio libero volere che come risultato del pure libero dispiegarsi della natura, di conseguenza l'arte è interpretabile come attività in cui vengono a coincidere l'operare cosciente dell'artista e il suo essere al contempo frutto dell' inconsapevole svolgersi dell'io come natura.
Ogni prodotto artistico conserva dunque, come sua intrinseca caratteristica, un substrato inconscio: può ritenersi espressione simbolica del reale che in esso prende forma.
La tragedia, in particolare, oltre a presentare questa ambivalenza comune ad ogni opera d'arte, tematizza tale duplicità dell'essere umano, elevandosi, così, a unico genere nel quale è perfettamente intuibile l'identità del "lato" soggettivo e del "lato" oggettivo dell'io.