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VINCENZO DI BENEDETTO

SOFOCLE


In questa quarta pagina della sezione filologica proponiamo una nostra lettura del saggio critico di Vincenzo Di Benedetto, professore di letteratura greca all'università di Pisa, Sofocle e in particolare sui capitoli che riguardano la tragedia Edipo Re. Egli constata che una chiave di lettura prevalente sul protagonista Edipo ne evidenzia la volontà di sapere: la grandezza tragica dell'eroe consisterebbe proprio nell'accettazione totale di tutto ciò che deriva dalla conoscenza, persino la sua stessa distruzione. Il Di Benedetto, pur non negando in assoluto la validità di tale chiave, sente però la necessità di mettere in evidenza un altro aspetto della volontà di conoscere di Edipo: il suo comportamento, che inizialmente è quello dell'ἄναξ "signore", si incrina progressivamente, divenendo sempre più soggettivo, fino alla perdita di sicurezze e certezze e alla distruzione finale. Il Di Benedetto evidenzia che essenziale in questo processo è l'emergere del motivo della paura, come fattore destabilizzante della psiche di Edipo. Scopo di Sofocle sarebbe dunque non tanto sottolineare la capacità di sopportazione, quanto mostrare quale stravolgimento nei rapporti umani la rivelazione della verità possa causare. Questo è pertanto il vero significato della "grandezza" di Edipo, chiaramente spiegabile grazie alla presenza di un uomo nuovo, che emerge  dalla crisi della dimensione razionalistico-intellettuale del reale, che era stata alla base della società ateniese del V° sec.

Il Paduano nella sua parte propositiva giunge a posizioni non immediatamente sovrapponibili a quelle del Di Benedetto, poiché il primo rivaluta la volontà di innocenza come momento fondante delle spinte anche inconsapevoli di Edipo, prevalentemente esterne; mentre il secondo, come detto, punta l'attenzione sul prevalere della paura sulla certezza razionale, quindi su una dimensione interna al personaggio. Nella nostra analisi abbiamo però osservato che il punto di vista espresso dal Di Benedetto risulta condiviso anche da Guido Paduano, laddove quest'ultimo afferma che il primo ha bene individuato la situazione psichica e sociale della tragedia, soprattutto nell'orribile sovrapposizione tra Edipo e i suoi figli.

Il nostro contributo consiste nella presentazione dei principali momenti del complesso e specifico lavoro di indagine testuale del Di Benedetto, preso come uno dei momenti fondamentali del nostro percorso, compiuto però con lo sforzo di mettere in relazione il pensiero dei due studiosi, assieme ai contributi degli altri grecisti presi in considerazione. Le parti che abbiamo esaminato della complessa opera del filologo pisano si riferiscono a due capitoli di cui qui di seguito riportiamo i titoli:

Edipo: la crisi delle strutture intellettuali

UN MODELLO NUOVO DI UOMO
  1. La paura come strumento di conoscenza
  2. Edipo solo di fronte alla realtà
  3. L’eclissi della polis

Attraverso l'analisi filologica Di Benedetto mette in evidenza l'anfibolia (l'ambiguità di linguaggio) che caratterizza la tragedia dell'Edipo Re. Proprio attraverso questa tecnica retorica sofoclea e la presenza della profezia oracolare, il Paduano, poi, nella sua opera Lunga storia di Edipo Re, 1994 rivaluterà, ribaltandole, le tesi di Freud. 

Edipo: la crisi delle strutture intellettuali


Menade danzante con una
corona di foglie, gioielli e un
tamburello al braccio
, vaso
da Locri Epizefirii, metà del
IV sec. a.C. Reggio Calabria,
Museo Nazionale della
Magna Grecia.

Il Di Benedetto si pone, tra l'altro, lo scopo di analizzare i moduli interpretativi a proposito del protagonista dell’Edipo Re. Alla base, pone la volontà di sapere di Edipo che viene analizzata da due prospettive: quella del Dodds, per il quale Edipo è il simbolo dell'intelligenza umana che non può fermarsi sino a che non ha risolto tutti gli enigmi, e quella che individua due momenti successivi nello stato d’animo del protagonista.
La grandezza di Edipo coincide con la crisi del modo razionalistico-intellettuale greco, anche se bisogna stare sempre molto attenti a collocare questa figura nella dimensione culturale in cui vive per coglierne così i nuovi valori che affiorano. A questo proposito è importante sottolineare i punti di contatto tra la produzione tragica più recente di Sofocle e l’ultimo Euripide. Il poeta si fa interprete del gioco crudele messo in atto dalle divinità tramite una sequenza incalzante di scene teatrali che porteranno alla distruzione del potere e del mondo culturale del protagonista (esempio può essere la separazione-scissione fra Edipo e i genitori). Il Di Benedetto individua una dimensione di crisi che pervade tutta la tragedia benché emerga una nuova figura di uomo; muove anche una critica alla struttura dell’Edipo che, attraverso il nuovo strumento di conoscenza della paura, da un lato recepisce gli elementi essenziali della cultura razionale del V secolo a.C., ma dall’altro opera uno svuotamento e uno smontaggio dei medesimi. A questo proposito il Di Benedetto individua due livelli di analisi dell’opera sofoclea che riguardano

Venendo più sul piano tecnico dell’analisi filologica è importante analizzare come primo elemento la contrapposizione che si innesca subito tra Edipo e gli altri, tema che sarà un po'’ il filo conduttore di tutta la tragedia; Edipo esce e si informa direttamente di ciò che sta accadendo.

vv. 6-7:
ἁγὼ δικαιῶν μὴ παρ' ἀγγέλων, τέκνα,
ἄλλων ἀκούειν αὐτὸς ὧδε ἐλήλυθα.
"io ritengo giusto ascoltare queste disgrazie, o figli, non da messaggeri,
da altri, e sono venuto qua in persona"

A questo punto il critico introduce il termine autopsia: Edipo vuole procedere in questo modo e sarà la sua grande caratteristica, ma anche la sua grande sventura, "lui noto a tutti" (v. 8) al quale è celata la verità. Secondo elemento è l’analisi della presunta consapevolezza di Edipo: al v. 59 dice εὖ γὰρ οἶδ' ὅτι/νοσεῖτε πάντες"io infatti so che...state male tutti", ma in realtà conosce solo l’aspetto più superficiale e più lampante non avendo ancora compiuto un processo di introspezione e di indagine profonda! Vi è un parallelo con un’espressione simile dell’Iliade III, 59 Ἕκτορ, ἐπεὶ με κατ' αἶσαν ἐνεὶκεσας οὐδ' ὑπὲρ αἶσαν "poi che secondo giustizia m’assali, non contro giustizia", anche se qui la contrapposizione polare riguarda la sfera del conoscere. Anche in Esiodo si parla delle capacità conoscitive di Zeus (Teog., 551), ma qui nell’Edipo Re per prima cosa sono riferite ad un uomo e che, per di più, in secondo luogo, parla in prima persona. Terzo elemento è l’innovazione espressiva sofoclea: il singolo dato di partenza è personalizzato in modo da diventare l’agente delle successive conclusioni. Altro elemento è la generalizzazione di un dato dell’esperienza quotidiana, come troviamo ai vv. 120-121:

τὸ ποῖον; ἓν γὰρ πόλλ' ἄν ἐξεύροι μαθεῖν
ἀρχὴν βραχεῖαν εἰ λάβοιμεν ἐλπίδος.
"un particolare potrebbe farci trovare molte cose da imparare,

se prendessimo un principio anche piccolo di speranza".

Sofocle usa argomentazioni strettamente concatenate dove compare una sorta di compiacimento intellettualistico per la struttura delle frasi, come ad esempio ai vv. 255-268, dove si nota l’enfasi che va di pari passo con la sicurezza di Edipo, supportata da anafore e dalla dilatazione delle frasi.

All’inizio della seconda rhesis di Edipo si riscontra una certa aggressività nella risposta al sacerdote Tiresia (vv. 380-403): è un elemento che sembra molto in accordo con l’atteggiamento finora sostenuto dal protagonista, dato che anche in questo frangente ricompare la generalizzazione e il riferimento alle proprie esperienze. Più avanti nella tragedia in altre due brevi rheseis pronunciate da Edipo troviamo un tentativo ultimo ed inutile di recuperare il suo γένος (vv. 1076-1085: dieci versi che si raggruppano a coppie di due): si attua una generalizzazione del comportamento di Giocasta in quanto donna e una riflessione per la quale il tempo è associato a lui stesso e ne scandisce l’esistenza. In un terzo momento, la rhesis dei vv. 1110-1116 dopo l’iporchema, è interessante notare che Sofocle insista sull’entrata del bovaro, che è stato già riconosciuto dal coro, ma che viene sottolineata dallo stesso Edipo proprio per la caratterizzazione intellettualistica del personaggio, che in questo caso si trova in difetto rispetto al coro stesso per quanto concerne la sfera della conoscenza: viene usato a questo proposito un termine significativo come ἐπιστήμη.


Rilievo con contadino
I° sec. d.C.
Monaco, Museum Antiken
Sammlungen und Glyptothek.

Può sembrare sproporzionato che venga data tanta importanza all'identificazione del bovaro da parte di Edipo, ma questa  insistenza intellettualistica, da parte di Edipo sul modo di riconoscere questo personaggio, ha una risonanza patetica, dal momento che sarà proprio il bovaro, con le sue parole, a fornire ad Edipo la prova inoppugnabile della sua sciagura. E' significativo che nel momento in cui Edipo si illude di pervenire ad una soluzione della vicenda che lo dovrebbe  lasciare indenne, riaffiori con forza, attraverso l'insistita messa in evidenza degli strumenti concettuali di cui egli si serve, quella caratterizzazione intellettualistica del personaggio che era venuta già fuori nella prima parte della tragedia.

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UN MODELLO NUOVO DI UOMO

La paura come strumento di conoscenza
Il senso della paura di fronte a una realtà minacciosa e non del tutto decifrata è una componente importante nel teatro greco. In Eschilo il motivo della paura svolge la funzione di rivelare e evidenziare frammenti di realtà che vanno oltre la percezione immediata, creando in tal modo anche delle dissonanze nel testo, ed è legato essenzialmente alla πόλις.

Nell’Edipo Re di Sofocle, invece, il motivo della paura viene dissociato dalla πόλις e dalle sue istituzioni: la paura di Edipo, infatti, è personale, e se coinvolge anche Giocasta, è esclusivamente perché tra loro intercorrono legami intimi (madre-figlio, moglie-marito), e non perché essi costituiscano la coppia regnante di Tebe.
Questa differenza è dovuta al momento ben preciso della storia politica e letteraria di Atene: in corrispondenza di un grande sviluppo della città, Sofocle si sente in dovere di adempiere a una funzione di orientamento verso i suoi concittadini ed opera quindi in tal modo.

Nell’Edipo Re il motivo della paura si manifesta già nel primo episodio, e in particolare nel dialogo con Tiresia, quando il profeta accenna ai genitori di Edipo οἵ σ`ἔφυσαν "che ti generarono", e quest’ultimo resta disorientato contraddicendo l’ordine precedentemente dato all’indovino di andarsene e chiedendo invece spiegazioni sui genitori. In seguito, al verso 1013, Edipo rivelerà riguardo ai suoi genitori che egli era sempre vissuto nella paura che si potesse rivelare l’oracolo che gli aveva predetto il parricidio e l’incesto: τοῦτ`αὐτό, πρέσβυ, τοῦτό μ`εἰσαέι φοβεῖ "proprio questo, o vecchio, mi atterrisce per sempre", dichiarando così che la paura è da sempre presente nella sua psiche.

Il primo episodio si chiude dunque con il discorso di Tiresia, che Edipo non riesce a comprendere, mostrando come le sue facoltà intellettuali di ricezione e comprensione siano bloccate, e ciò che risulta più strano è che Edipo sia sconfitto proprio nell’arte di risolvere indovinelli, che lo aveva portato al trono di Tebe, in cui si vantava di aver dato gran prova, poiché non riesce a percepire il discorso di Tiresia, nonostante le caratteristiche proprie dell’indovinello. Sembra che vengano meno le strutture razionali che avevano caratterizzato il personaggio di Edipo all’inizio, e che ciò sia causato dal nascere del sentimento della paura: Sofocle, infatti, facendo tacere il personaggio alla fine del discorso di Tiresia, sembra proprio voler far intravedere una zona più profonda dell’animo di Edipo, che fa riferimento appunto alla paura.

Nel secondo episodio Giocasta, nel discorso con cui dovrebbe rassicurare Edipo, inserisce accidentalmente l’accenno al bivio ἐν τριπλαῖς ἁμαξιτοῖς "nelle triplici strade carreggiabili" (v. 716) in cui si incrociano le tre strade e ciò che inizialmente e apparentemente sembra incidentale acquista uno sviluppo enorme. L’espressione al v. 727 ψυχῆς πλάνημα "agitazione della mente" richiama quella del v. 67 φρονιτίδος πλάναις "con gli errori della mente", solo che mentre prima Edipo era disorientato adesso è anche in preda all’agitazione e al turbamento che sembra non avere sbocco; da questo momento egli sarà infatti caratterizzato da un turbamento provocato dalla paura che sarà il tratto dominante del personaggio fino alla scoperta della verità al termine del quarto episodio. In seguito nel dialogo tra Giocasta e Edipo, quest’ultimo rileva delle coincidenze tra le parole della madre e ciò che lui sa riguardo al luogo e all’epoca dell’uccisione e a proposito dell’età di Laio e del numero delle guardie che lo accompagnavano, e ogni volta ha una reazione di carattere evocativo-interiettivo: v. 738 ὦ Ζεῦ, v. 744 οἴμοι τάλς v. 754 αἰαῖ che mette in luce l’impatto del personaggio con una realtà che lo mette in crisi.


Maschera tragica, mosaico
della Casa del fauno a Pompei.

Nel primo caso vediamo che la realtà appare ad Edipo come a lui estranea e minacciosa e questo stato d’animo si impone da sé con forza su Edipo e su di esso egli non vuole indagare: ordina alla madre di non rivolgergli domande su ciò che prova. Nella constatazione della seconda coincidenza esplodono il lamento e l’autocommiserazione, nei vv. 742 e 745 c’è un richiamo tra ἄρτι e ἀρτίως che mostra come Edipo si stia avvicinando alla verità gradualmente e nel v. 744 affiora poi il motivo del "deinon" che conferma che la paura domina la situazione e il duplice richiamo δεινὰς / δεινῶς all’inizio dei vv. 745 e 747 prepara un collegamento con il motivo del parricidio e dell’incesto che Edipo ignora ancora, (le profezie di Apollo relative a tali temi saranno dette da Edipo al v. 790 καὶ δεινὰ καὶ δύστηνα), poiché pensa solo alla possibilità di aver ucciso un re straniero.

Infine con la percezione della terza coincidenza la realtà dell’accaduto si impone in tutta la sua evidenza: v. 754 αἰαῖ, τάδ`ἤδη διαφανῆ. τὶς ἦν ποτὲ "ahi, questi fatti sono già trasparenti", che si collega al v.1182 ίοὺ ὶού· τὰ πάντ`ἂν ἐξήκοι σαφῆ. "ahi, ahi! Tutto pare compiersi con chiarezza", dove per la seconda volta la realtà si impone ad Edipo nella sua evidenza, ma con un grado di orrore superiore. Il confronto tra questi versi mette in risalto la distanza tra i due livelli di consapevolezza di Edipo: nel primo caso egli crede di poter essere l’assassino di un re straniero, nel secondo si rende conto del parricidio e dell’incesto avvenuti. Con questa differenza Sofocle ha voluto che apparisse chiaro che nel secondo episodio Edipo credeva di aver paura di qualcosa che era molto limitato di fronte alla realtà, in cui già dall’inizio della tragedia era coinvolto e che gli si rivelerà nel quarto episodio.

Ciò che Edipo dice nel secondo episodio nel corso del dialogo con Giocasta assume quasi un risvolto patetico per il fatto che il protagonista non riesce nemmeno ad essere consapevole della portata della sciagura. La possibilità da parte di Edipo di percepire i dati reali della situazione appare in questa sezione della tragedia, sino al dialogo con il bovaro e il messo corinzio, impietosamente circoscritta, mentre resta il dato della paura che è infatti il solo aspetto del personaggio che, al di là delle sue capacità di percezione e di giudizio, appare in sintonia con la realtà.

Sull’onda di questa paura Edipo chiede appunto ai vv. 754 sgg. di far venire il bovaro che ha assistito all’uccisione di Laio. Non si tratta più ormai del sovrano che cura gli interessi della πὸλις e vuole scoprire il colpevole per rimuovere la causa della pestilenza, ma si tratta di una singola persona che teme per se stessa e cerca di aggrapparsi, attraverso le parole del bovaro, all’unica possibilità di salvezza. Il nesso tra la richiesta di far venire il bovaro e la paura di Edipo è esplicito nel v. 766 quando all’ἐφίεσαι con cui Giocasta si riferisce a questa richiesta del figlio, fa immediatamente seguito, all’inizio del verso seguente, il δέδοικα di Edipo; tale nesso è poi confermato nel v. 836 quando di fronte al coro dichiara che l’unica sua speranza di salvezza risiede nell’attendere il bovaro.


Dioniso, Sileni e Menadi,
Pittore di Cleofrade,
Monaco, Staatliche
Antikensammlungen.

È significativo il modo come questa paura di Edipo affiori e si imponga di volta in volta anche al di là di una motivazione logica. Dopo che Giocasta nei vv. 848-858 gli ha spiegato che a fil di logica non bisogna preoccuparsi dell’oracolo di Apollo, Edipo dichiara di essere d’accordo con lei : v. 859 καλῶς νομίζεις, ma nel corso della stessa battuta insiste nel far chiamare il servo di Laio che dovrebbe dissipare ogni dubbio ἀλλ`ὅμως "e pur tuttavia invia qualcuno che faccia venire il servo e non trascurare questo"(v. 860). C’è quindi un livello logico in cui Edipo è in sintonia con le parole della madre; c’è un altro livello contrastante, invece, che è in corrispondenza con l’ansioso interrogativo che turba Edipo: se egli sia stato o no l’assassino del re di Tebe.

In un punto successivo si realizza una situazione analoga quando viene annunciata la notizia della morte di Pòlibo, re di Corinto e padre adottivo di Edipo. Edipo si mostra nei vv. 964-972 convinto della non attendibilità degli oracoli e alle parole di Giocasta : "non te lo dicevo già da tempo?", egli risponde al v. 974 dandole ragione: ηὔδας· ἐγὼ δὲ τῷ φόβῳ παρηγόμην "Tu lo dicevi, ma io ero sviato dalla paura". La paura interviene apparentemente per motivare solo il precedente dissenso che sembra ormai superato, ma già il fatto di evocare la paura ne rivela la realtà, ed inoltre essa viene riproposta subito da Edipo che, contro la logica, visto che l’oracolo di Apollo che si era rivelato falso riguardo al padre poteva ritenersi tale anche riguardo alla madre, e contro il suo discorso precedente, afferma di aver comunque ancora paura di unirsi con la madre. Con un procedimento quasi analogo a quello dei vv. 859 sgg. si dichiara d’accordo con le parole di Giocasta, ma contrappone ad esse nei vv. 984-986 il fatto che la madre sia ancora viva e che pertanto egli debba aver paura. Affiora nelle parole di Edipo la contrapposizione razionalistica tra parole e fatti; ma il nesso istituito tra il dato reale (il fatto che Merope è viva), e la necessità della paura non ha altra motivazione che la paura stessa.

La paura che appare dominante in questo dialogo del terzo episodio si impone anche contro le obiezioni di Giocasta che finisce ad essere a sua volta coinvolta nella paura di Edipo. Tale coinvolgimento era apparso già chiaro all’inizio del terzo episodio quando Giocasta era arrivata sulla scena con l’intento di fare delle offerte ad Apollo Liceo per chiedere la λῦσις "liberazione" dalla paura da cui ella stessa dice di esser presa assieme agli altri Tebani v. 922 ὸκνοῦμεν πάντες "siamo impauriti tutti" dovuta a ragioni politiche per il fatto che vedono il timoniere dello stato così sconvolto.

L’ὀκοῦμεν del v. 922 richiama i due ὀκνῶ che Giocasta aveva usato per se stessa, facendo un’esplicita confessione di paura, nel secondo episodio, ai vv. 746 e 749. Proprio nel secondo episodio è Giocasta a dare l’avvio, con la richiesta nei vv. 769 sgg. di avere il diritto di sapere cosa turbi Edipo, al lungo discorso di quest’ultimo dei vv. 771-833, alla fine del quale, nonostante ella l’avesse sollecitato, resta in silenzio e il commento viene affidato al coro.

Nella parte finale del secondo episodio la preoccupazione di Edipo è quella di essere stato l’uccisore di Laio e di dover subire le conseguenze del suo editto a cui si sovrappone la paura del parricidio e dell’incesto, Giocasta invece nei vv. 848-858 non è preoccupata per questo problema ma, è mossa solo dal desiderio di dimostrare che gli oracoli di Apollo sono falsi. Anche se il bovaro avesse ritrattato in qualche cosa il suo precedente discorso, non per questo, afferma Giocasta, si rivelerebbe meno falso l’oracolo di Apollo che aveva predetto che Laio sarebbe stato ucciso da suo figlio, mentre quest’ultimo è morto. Queste parole risultano dissonanti e non pertinenti rispetto a ciò che angustia più direttamente in questo momento Edipo.

Tuttavia Giocasta, ponendo come fondamentale il problema della veridicità degli oracoli che per lei dev'essere negata, si ricollega a uno strato più profondo del personaggio di Edipo, caratterizzato dalla paura dell'incesto e del parricidio in conseguenza dell'oracolo da lui ricevuto a Delfi. Questa paura però appare ora in secondo piano rispetto a quella che tormenta Edipo per il dubbio di aver ucciso Laio (al quale egli non si crede legato da alcun rapporto di parentela), e per questo le parole di Giocasta dei vv. 848-858 risultano fredde e sfasate. D'altra parte il motivo dell'incesto e del parricidio veniva fuori prepotentemente alla fine della rhesis di Edipo, e in misura sproporzionata se considerata rispetto al contesto della prospettiva del pericolo dell'esilio, che incombe su Edipo qualora si fosse dimostrato l'assassino di Laio. A questo livello del discorso appunto le parole di Giocasta si ricollegano, anche se il nesso non appare messo in evidenza e resta l'impressione di una dissonanza tra i due personaggi che verrà recuperata solo nel corso dell'episodio seguente. In realtà non bisogna valutare al di là del giusto l'atteggiamento razionalistico tenuto da Giocasta a proposito dell'arte mantica.

Edipo si limita a dubitare di Tiresia, mentre Giocasta si mostra scettica sull'arte mantica in quanto tale, arrivando a mettere in discussione lo stesso Apollo; questo è un dato reale, ma esso non è sufficiente per postulare una contrapposizione tra Edipo da una parte e la "la frivolezza" di Giocasta dall'altra. In realtà sia Edipo sia Giocasta appaiono coinvolti in quello stato d'animo di paura che incombe nella parte centrale della tragedia e d'altra parte il razionalismo di Giocasta, pur così dichiaratamente ostentato, appare alla fine come un dato irrilevante di fronte alla catastrofe che la coinvolge, ne provoca la sua tragica uscita di scena e poi la morte.

Il rapporto tra i due personaggi si pone quindi non in termini di contrapposizione, ma di interrelazione. Un gioco analogo di interrelazione tra i due personaggi si istituisce a proposito della τύχη "sorte". Nei vv. 977 sgg., Giocasta, di fronte alla paura di Edipo di unirsi con sua madre, si appella al principio secondo cui la realtà umana è dominata dalla τύχη, e asserisce che la cosa migliore è vivere come capita  e che per l'uomo non c'è la possibilità di prevedere nulla chiaramente. Quanto dunque Giocasta teorizza, è incompatibile con la concezione del mondo presupposta dall'arte mantica, poiché infatti la divinità non è un punto di riferimento rilevante per l'uomo, e non ha alcun valore chi come l'indovino intende riferire la voce del dio. Con la posizione espressa ai vv. 977 sgg. Giocasta si mette su una linea diversa rispetto a quel razionalismo che era alla base della sua sfiducia nell'arte degli indovini e a questo proposito è significativa l'affermazione del principio del vivere εἰκῆ "a caso" che si muove su una linea che non ha nulla di razionalistico. Giocasta però uccidendosi smentisce tali teorizzazioni in quanto il suicidarsi non è certo un εἰκῆ ζῆν "vivere a caso". Tale posizione quindi è più il segno di una crisi che la base di un modo nuovo di porsi di fronte alla realtà, però il richiamo alla τύκη si rivela tuttavia produttivo per il prosieguo della tragedia. Anche Edipo infatti nei vv. 1080 sgg. fa della τύχη l'aggancio per un estremo tentativo di salvezza. Il fatto che Edipo in tali versi si proclami figlio della τύχη ha due aspetti: da una parte si presuppone l'aspetto divino della τύχη, dietro al quale c'è la concezione secondo cui essa dispone della vita degli uomini, dall'altra il proclamarsi figlio della τύχη è un atto personale di Edipo. Quest'orgoglio intellettuale di Edipo viene di lì a poco smentito nel corso della tragedia: egli non è infatti figlio della τύχη, però il suo coinvolgimento con essa ha una sua base reale. Nella tragedia c'è un gioco spietato della τύχη ai danni di Edipo, che si svolge al di sopra della sua testa e che egli non è in grado di fermare. Viene infatti formulata esplicitamente una connessione tra il nome Οἰδίπους e la τύχη in relazione alla vicenda secondo cui i piedi di Edipo erano stati perforati: mentre il nesso coi genitori viene lasciato in sospeso come se essi si ponessero fuori campo di fronte alla τύχη.


Dioniso con due Menadi,
Pittore di Amasi.
Parigi, Biliotéque Nationale.

Nella tragedia affiora però anche una linea diversa riguardo alla τύχη in base alla quale essa sembra favorevole al protagonista: è questo il caso dell'episodio riguardante la morte di Polibo. In esso, dato che il messaggero informa che Polibo è morto non per mano di Edipo, ma della τύχη, quest'ultima sembrerebbe essere un dato positivo. Tale linea si rivela però illusoria, in quanto la τύχη risulterà la rovina di Edipo, confermando dunque le parole di Tiresia dei vv. 442 sgg. con cui rivelava che proprio questa τύχη, cioè la soluzione dell'enigma, sarà la sua rovina.





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Edipo solo di fronte alla realtà
Con l'arrivo del vecchio pastore tebano e il suo racconto dell'esperienza del trovatello dalle caviglie legate, Edipo comprende finalmente la realtà che lo riguarda e invocando la luce dichiara di volerla vedere per l'ultima volta. Nel momento in cui asserisce ciò si può notare la solitudine di Edipo che non può nemmeno rievocare il rapporto coi genitori in quanto è simbolo di impurità quindi non pronuncia mai la parola padre o madre. Questa solitudine che emerge è dovuta al fatto che Edipo non ha nessun retroterra familiare né culturale e anche la patria gli risulta estranea. Lo sbocco di tale situazione è l'accecamento di Edipo e, nel momento in cui egli prende la decisione di togliersi la vita, Sofocle non gli dà più spazio di pronunciare monologhi nel tempo che intercorre dall'espressione di tale desiderio e la sua attuazione: ecco che Edipo esce subito di scena e vi torna già accecato. Nella rhesis dei vv. 1369-1415 rivolta da Edipo al coro egli cerca di spiegare le ragioni del suo gesto e chiede di essere portato lontano da Tebe; inoltre è significativo il suo tentativo di farsi toccare dal coro nonostante l'impurità che lo macchia, come se cercasse di stabilire un rapporto affettivo con gli interlocutori. Bisogna sottolineare poi che nel confronto tra Edipo e il coro, pure nel quarto stasimo, come quest'ultimo abbia sempre un atteggiamento di slancio affettivo verso il protagonista. Il coro mantiene sempre fino alla fine l'uso della seconda persona singolare anche quando Edipo non è presente sulla scena come se gli parlasse sempre direttamente. Anche nei confronti di Creonte Edipo cerca di recuperare un rapporto affettivo continuando a parlare, a porre le sue richieste, a sfogare il suo tormento interiore e a raccomandargli le figlie che richiede gli siano portate vicino.


Figure di danzatrici, frammento di una
lastra in terrracotta. Reggio Calabria,
Museo Nazionale della Magna Grecia.

La rhesis dei vv. 1446-1475 segna la ricerca di Edipo di un interlocutore amico e partecipe del suo dolore, che resta Creonte fino all'arrivo delle figlie. Il loro ingresso viene interpretato da Edipo come un segno di benevolenza di Creonte, che gli procura una grande gioia e l'unico dato con cui si ricollega positivamente al passato; inoltre Creonte resta sempre un punto di riferimento per Edipo in quanto, preoccupato per la sorte delle figlie, le affida a lui. Edipo davanti alle figlie dà sfogo ancora alla sua disperazione e cerca di nuovo di instaurare nel rapporto affettivo con loro un contatto fisico, non curandosi della contaminazione da cui è gravato. Da una parte vediamo la presenza di una concezione arcaica della contaminazione, per cui Edipo deve essere sottratto al contatto con altre persone e su questa linea Creonte ordina nei vv. 1429-1431 di portarlo dentro la casa, dall'altra c'è l'inserimento di due rheseis appassionate di Edipo e dell'arrivo delle figlie che porta commozione sulla scena. Se c'è questo avvicinamento tra Edipo e le figlie, impossibile invece risulta qualsiasi tipo di rapporto con i figli. Giustamente il Di Benedetto evidenzia come nella tragedia non ci sia spazio per il rapporto tra Edipo e i figli maschi; questo elemento si vede in modo chiaro nella rhesis finale. In essa il protagonista non riesce a recuperare con i figli maschi nessun legame che coinvolgerebbe il patrimonio di potere e di cultura da trasmettere, che ormai Edipo non ha più. Egli infatti ha perduto  tutto e non ha più nulla da dare ai suoi figli che vengono infatti liquidati con un rapido accenno ai vv. 1459-61:

παίδων δὲ τῶν ἀρσένων μὴ μοι, Κρέον,
προθῇ μέριμναν· ἄνδρες εἰσἰν, ὥστε μὴ
σπάνιν ποτὲ σχεῖν, ἔνθ'ἂν ὦσι, τοῦ βίου·
"e dei miei figli maschi, Creonte,
non prenderti cura: sono uomini, sicché non
avranno mai penuria di mezzi di vita dove che siano"

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L’eclissi della polis 
Il discorso portato avanti da Sofocle nell'Edipo Re comportava la dissociazione del problema di Edipo da quello della πόλις. Solamente l'inizio della tragedia è dominato dall'incubo della peste che fa strage di vite umane nella città, ma ben presto tale problema cessa di essere al centro dell'attenzione a tal punto che non se ne parla quasi più. In seguito l'azione tragica  è dominata dalla vicenda personale di Edipo; l'incongruenza infatti è così forte che acquista un valore programmatico, nel senso che i problemi della πόλις sono subordinati a quelli dell'individuo. Quando Edipo chiede di essere allontanato dalla città non lo fa  tanto per liberare Tebe dalla peste, ma per risolvere il proprio travaglio interiore. Di Benedetto evidenzia inoltre che l'esperienza di Edipo può diventare "paradigmatica" per tutta l'umanità perché si trova da solo di fronte alla sua sciagura. Il protagonista cerca, in un lungo percorso che ha la sua origine già fin dall'inizio della tragedia e raggiunge il suo più chiaro manifestarsi verso la fine di quest'ultima, di recidere i legami con la πόλις; tentativo che rimane legato alla sua sola personalità, e non è da inserire in un contesto extrapersonale, riferito alla maledizione che pesava sulla famiglia di Edipo.

mucca.jpg (14906 byte)
Pittore dell'officina di Nicostene.
Oinocoe:mucca che allatta vitello.
Bruxelles,Bibliothèque Royale.

Stando così le cose, è abbastanza chiaro che accostare la figura del φαρμακὸς al personaggio di Edipo, come è stato proposto dal Vernant in Mito e tragedia nell'antica Grecia (1976), va fatto solo in termini circoscritti. Questa immagine è certamente presente nella prima parte, come al  v. 97, ma successivamente non acquista più valore nell'ambito della tragedia. Del resto il desiderio di Edipo resta senza sbocco effettivo, e la dissonanza che si crea tra l'iniziale intento, di cacciare il responsabile dell'uccisione di Laio, come unica via di salvezza, e la conclusione della tragedia, assolve alla profonda esigenza espressiva, di dissociare totalmente il problema personale di Edipo da quello della πόλις. L'elemento della dissonanza lo troviamo anche se si confrontano le ultime battute di Creonte, alla fine della tragedia, e il suo consueto modo di comportarsi e di esprimersi dove, però, ha la funzione di impedire che la tragedia si chiuda in un tono in qualche modo acquietante.

Anche l'accecamento è estraneo a qualsiasi riferimento alla famiglia di Edipo, perché si instaura un rapporto personale fra il protagonista ed il dio, che non è ricollegabile alla stirpe di Laio. Infatti allo "smontaggio" del personaggio di Edipo corrisponde la verità di Tiresia, che è anche la verità di Apollo, come si legge nei vv. 284-286 pronunciati dal coro:

ἄνακτ' ἄνακτι ταὔθ' ὁρῶντ' ἐπίσταμαι
μάλιστα Φοίβῳ Τειρεσίαν, παρ' οὗ τις ἂν
σκοπῶν τάδ', ὦναξ, ἐκμάθοι σαφέστατα.
"Io so che all'incirca le stesse cose del sire Febo
vede il sire Tiresia, e secondo lui una persona
esaminando questo, o sire, potrebbe vedere nella maniera più chiara."

Questa presentazione viene rifiutata da Edipo nei vv. 370-371, per poi in un climax ascendente di paura essere, invece, considerata veritiera al v. 747: δεινῶς ἀθυμῶ μὴ βλέπων ὁ μάντις ᾖ "terribilmente
temo che il profeta sia veggente". Così, dopo che la predizione si è compiuta Apollo non continua a perseguitare Edipo, ma anzi l'autoaccecamento è essenziale perché la vittoria di Tiresia, cieco ma veggente, che fa tutt'uno con la vittoria del dio, sia completa.

A conclusione di questa trattazione il Di Benedetto precisa che Sofocle non intendeva affatto negare l'istituto della πόλς, ma porre l'accento su una dimensione più profonda che va al di là dello Stato, visto nel suo aspetto più propriamente politico. I νόμοι a cui fa riferimento il coro, nel secondo stasimo, non sono quelli deliberati nell'assemblea, ma sono invece quelli generati dalle divinità dell'Olimpo senza l'intervento della natura umana. All'affermazione dell'importanza della divinità che il coro fa nelle prime due strofe, corrisponde nella seconda coppia strofica il quadro, mosso e turbato, di una costante minaccia di un'infrazione delle norme divine da parte degli uomini. L'evidenziare una dimensione etico-religiosa, che trascende la πόλις, e il rappresentare un quadro, in cui i valori sembrano minacciati dal comportamento umano, sono in sintonia con un aspetto essenziale della tragedia: una tendenziale dissociazione rispetto alla πόλις e a ciò che essa ha di più specifico.


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