Il primo ad aver tradotto la lirica greca in versi latini

 

 

Dicar, qua violens obstrepit Aufidus 
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens,  
princeps Aeolium carmen ad Italos   
deduxisse modos.  

Si dirà di me che là dove scroscia torrentizio l’Ofanto

e dove Dauno su genti agresti povere d’acqua

ebbe il suo regno, pur da umili origini grande,
sono stato il primo ad aver tradotto la lirica greca
   

in versi latini.

 

 

                   

 

 

 

L’ode 30, da cui sono tratti i versi (10-14) sopraccitati, chiude il III libro della raccolta oraziana di Carmina, edita, dopo un decennio di lavoro, nel 23 a.C. Un quarto libro, profondamente diverso per ispirazione, seguirà, quasi appendice a sé, nel 13 a.C.

 

L’impegno assunto con Mecenate di cimentarsi nella lirica eolica (I, 1,29) si chiude al termine del III libro con una certezza: exegi monumentum aere perennius.

 

Ho scelto, per cercare di rintracciare il metodo con cui Orazio è riuscito, a più di 500 anni di distanza, a far riecheggiare la “cetra di Lesbo” (I, 1,34), un’ode che solitamente non ricorre nei programmi curricolari  e cioè la I,31.

 

La traduzione proposta è l’esito di un lavoro collettivo in cui si è cercato, con i presenti al corso, di discutere e scegliere le soluzioni migliori. Hanno collaborato in modo particolare: Emilia Flocchini, Luca Fossati, Federico Longobardi, Chiara Momo, Roberta Rossi, Ilaria Spagnoli, Davide Vampa.

 

Quid dedicatum poscit Apollinem                 Che cosa può chiedere ad Apollo, cui è stato

vates? Quid orat de patera novum                 appena dedicato un tempio, il Poeta? Quale la sua

   fundens liquorem? Non opimae                  preghiera mentre dalla coppa spande vino nuovo?

      Sardiniae segetes feraces,                        Non di possedere della fertile Sardegna le rigogliose      

                                                                       messi,      

non aestuosae grata Calabriae                       non di possedere dell’assolata Calabria i preziosi

armenta, non aurum aut ebur Indicum,         armenti, non l’oro o l’avorio Indiano,

   non rura quae Liris quieta                           non i terreni che il silenzioso fiume

      mordet aqua taciturnus amnis.                 Liri irriga con le sue acque tranquille.

 

Premant Calenam falce quibus dedit             Potino pure con un falcetto i vigneti di Cales

fortuna vitem, dives et aureis                        coloro ai quali la fortuna l’ha concesso, e in calici

   mercator exsiccet culullis                           d’oro un ricco commerciante si beva pure

      vina  Syra reparata merce,                       il vino barattato con mercanzia siriaca,

 

dis carus ipsis, quippe ter et quater               caro agli stessi dei, visto che per tre o quattro  volte  

anno revisens aequor Atlanticum                  in un anno è riuscito a raggiungere l’oceano Atlantico

   impune. Me pascunt olivae,                       ed a tornarne incolume. A me bastano, per nutrirmi,

      me cichorea levesque malvae.                un po’ di olive,  di cicoria e di malva fresca.

 

Frui paratis et valido mihi,                            Di godere dei beni che ho ed in buona salute,

Latoe, dones, at, precor, integra                    o figlio di Latona, concedimi, e soprattutto, ti prego,

   cum mente, nec turpem senectam,             di poter trascorrere, lucido di mente, una dignitosa

      degere nec cithara carentem.                   vecchiaia accompagnata fino all’ultimo dalla mia cetra.

 

Lo spunto è concreto: si tratta della dedicazione da parte di Augusto, il 24 ottobre del 28 a.C., di  un tempio ad Apollo, come adempimento di un voto formulato in occasione della battaglia di Azio.

 

Un’occasione solenne dunque, in cui il poeta – vate Orazio (cfr. anche lo Odi romane - le prime sei del III libro- e il Carmen saeculare del 17 a.C.) si sente implicato.

 

Ma sullo sfondo di grandi eventi, di lontani orizzonti, scandita dai gesti di un rito tradizionale, si innalza una preghiera minima, personale: la salute fisica e psichica, una vecchiaia dignitosa, l’ispirazione poetica.

 

Non può sfuggire certo la sintonia con l’analogo andamento della famosa ode di Saffo: poikiloéqron a\qanaét Afroédita che si conclude con lo stesso restringimento di campo: suémmacov  e\ésso.

 

Ed  ancora, senza però la sua irriverente intenzione, con la solenne invocazione ipponattea a Ermes, figlio di Maia, Cillenio,… “per un mantello, una tunichetta, sandalucci e babbucce, e magari una grossa cifra sgraffignata a qualcun altro”.

 

Al poeta di Mitilene sembrano invece rifarsi, oltre al ritmo musicale, le immagini del vino versato con generosità (fundens = a\feideéwv) dalla coppa, e del mare insidioso da cui è grazia ritornare sani e salvi ( lo stesso descritto, fuori di metafora, da Alceo nel famoso fr.208: a\sunneéthmmi twèn a\neémwn staésin).

 

Suona ancora saffica la rivendicazione di un relativismo assoluto che permette al Poeta di contrapporre alle messi abbondanti della fertile Sardegna, agli armenti ambiti dell’infuocata Calabria, all’oro e all’avorio indiano, ai beni conclamati che la fortuna riserva – e riservi pure – ad altri, le sue olive, la sua cicoria e la sua malva fresca, come alla poetessa di Lesbo aveva permesso di contrapporre agli squadroni di cavalleria, alle armate di fanti, alle flotte di navi (fr.16) kh%n o\éttw tiv e\ératai.

 

Ed il leitmotiv della dolorosa e deturpante vecchiaia, così caro a Mimnermo, viene recepito da Orazio nella turpis senecta, ma stravolto e risolto nella preghiera di poter nec turpem senectam degere.

 

Ci troviamo di fronte, dunque , alla traduzione di un mondo concettuale greco che il poeta di Venosa ha scandagliato con fine sensibilità, ma la “callida iunctura” (ars poet. 48 b), cioè quella combinazione inventiva e innovativa di idee e di parole che in modo inesausto ricrea poesia, sta in quell’esclusivo binomio Roma – vates e in quell’indissolubile trait d’union, che tra i due poli intercorre, costituito dall’evidente coscienza di una poesia che supera la barriera del decadimento fisico e mentale e dello stesso tempo storico.

 

E callida iunctura - non solo rispetto al retaggio lirico della grecità, ma addirittura nei confronti del proprio retaggio satirico – possiamo rinvenire nella maturazione che si avverte dell’elemento gnomico filosofico. Se nelle Saturae il processo era di tipo induttivo, mirante  ad estrarre dall’esperienza quotidiana dei principi di verità, qui, ed in generale nelle Odi, il passo è ulteriore, verso cioè un ideale etico di misura.

 

Ancora vorrei osservare come, rispetto alle Saturae , sia maturato anche il senso del tempo.

L’hic et nunc caratterizzante della Satira è ugualmente presente. Tutti i verbi sono infatti al presente e concomitanti con la dedicazione del tempio, ma la prospettiva finale è quella di un futuro personale, sereno e luminoso.  E fra i due spazi intercorre la vasta distesa di tante altre diverse realtà.

E così, con sapiente costruzione, anche i simboli d’aperture e chiusura dell’ode – il vino rituale versato del nunc e le note della cetra sempre riecheggianti – conchiudono uno spazio eterno, all’interno del quale tutto il resto scorre e trascorre.

 

Anche stilisticamente quel carattere composito, che avevamo rilevato come connotativo della Satira, è stato qui superato e risolto in una semplice eleganza.

 

 

Note metriche

 

Tredici sono i sistemi strofici utilizzati da Orazio.

Nell’ode che abbiamo considerato ricorre la strofe alcaica (il ritmo, per intenderci, è lo stesso di “vidès ut àlta stèt nive càndidum).

 

La strofe alcaica è una composizione tetrastica formata da

·        due alcaici endecasillabi

·        un alcaico enneasillabo

·        un alcaico decasillabo

 

L’alcaico endecasillabo è un metro giambo-dattilico, costituito da una tripodia giambica catalettica + una dipodia dattilica

 

 

L’alcaico enneasillabo è una pentapodia giambico catalettica

 

 

L’alcaico decasillabo è costituito da una dipodia dattilica + una dipodia trocaica