Antecedenti greci
e carattere composito della Satura latina
attraverso la variazione
di sensi, di spazi, di tempi, di piani e prospettiva, di registri comici e linguistici
Satura quidem tota nostra est (Inst. Or. X,1,93): così sentenzia Quintiliano nel I sec. d.C.
Di fatto, non possiamo rinvenire nella letteratura greca un’analoga presenza ed evoluzione del genere satirico, come lo possiamo invece in quella latina, attraverso Lucilio, Orazio, Persio e ancora Giovenale.
Però, pur nell’indiscussa originalità del genere, la satira latina, come onestamente ci segnala lo stesso Orazio, si è nutrita di e da presupposti greci.
In Sat.II,3 Orazio, a corto di ispirazione poetica, come lui stesso ci dice, si rifugia nella sua villa sabina e si porta dietro come compagni Platone, Menandro, Eupoli, Archiloco (vv.11-12).
Che rapporto dunque Orazio sentiva tra le satire che andava componendo e simili autori?
Non c’è dubbio che i Dialoghi platonici costituiscano il retroterra ideale delle Satire oraziane, sia per quanto riguarda l’ossatura, vale a dire il loro carattere preminentemente dialogico, sia per quanto riguarda il ricorrente atteggiamento “maieutico” nei confronti degli interlocutori via via di turno.
Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae, esponenti della Commedia Antica, sono i modelli a cui, secondo Orazio, si rifà completamente Lucilio, mutandone solamente i metri e i ritmi (Sat.I, 4-7).
E Menandro, sappiamo, è l’unico autore che ci è rimasto della Commedia Nuova.
Non c’è dubbio che alcuni congegni propri della satira affondino le loro radici in altrettanti meccanismi comici, basti pensare al frequente ricorso alla parodia, alla vivacità spigliata e talora sboccata delle battute, all’impegno etico sotteso all’aggressività della critica sociale, e ancora a quella tipologia caratteriale, senz’altro connotativa della commedia menandrea.
Archiloco, con la sua spregiudicata e focosa parrhesia, ha costituito da subito, già dagli Epodi, il modello che ha avviato Orazio sulla strada della romanizzazione dei classici greci.
Sermones o Saturae sono i termini indifferentemente usati da Orazio stesso per denominare i 18 componimenti dell'omonima raccolta. Ed è evidente in questa oscillazione un rimando ad un ulteriore antecedente di matrice greca, le diatribe stoico - ciniche di Bione di Boristene (come si legge esplicitamente in Ep.II,2,60).
Vissuto nel III sec. a.C., Bione è stato il rappresentante più significativo della diatriba, un genere filosofico letterario, a carattere divulgativo, sviluppatosi in età ellenistica e per noi pressoché scomparso. Da esse Orazio sembra aver soprattutto mutuato il gusto per l’aneddotica e il Leitmotiv dell’autarkeia del saggio.
Satura è però termine di matrice latina.
Originariamente femminile dell’aggettivo satur (pieno), derivante a sua volta dall’avverbio satis (abbastanza), implica il concetto di varietà, abbondanza, mescolanza.
Difatti satura lanx indicava un piatto votivo ricolmo di frutta varia, o genericamente un piatto composito.
E lex per saturam indicava un disegno di legge su argomenti diversi e non connessi tra di loro.
E satura, già anticamente, secondo Livio, designava una rappresentazione mimico - drammatica che alternava recitazione, danza e brani musicali.
Assunta a genere letterario con Ennio, ebbe il suo inventor, come dichiara lo stesso Orazio, in Lucilio, il modello, ma anche il rivale da superare: umorista, d’olfatto assai fine, amico di potenti, ma senza remore nello strappare la pelle di dosso a chi di dovere, era però, secondo Orazio, “lutulento”, trascurato cioè nella forma (Sat.I,4,7-13; I,10,48-49).
Dunque, fatti salvi quei tratti di ascendenza greca che abbiamo cercato di rintracciare, risulta che la proprietà tipicamente latina della satira è il carattere composito.
E questo carattere è perfettamente rintracciabile nei versi della Sat. I,6 che abbiamo, la volta scorsa, considerato per la ricostruzione dell’autobiografia dell’Autore.
Anche questa volta procederemo nella disamina delle diverse componenti per links.
Tutti e sei i sensi, con tipico processo di sinestesia, sono chiamati a percepire l’atmosfera di quanto viene raccontato.
Così all’udito richiamano espressioni come:
· quem rodunt omnes (v.46)
· dixere quid essem (v.55)
· singultim pauca locutus (v.56)
· mea discrepat istis et vox et ratio (vv.92)
· ut me collaudem (v.70)
Alla vista rimandano sketches come:
· ut veni coram (v.56)
· magni / quo pueri …ibant (vv.72-73)
· Vestem servosque sequentis, / … si qui vidisset (vv.78-79)
· Tiburte via praetorem…sequuntur/…pueri portantes (vv.108..)
· l’interno della parva domus oraziana (vv.114-118)
· le zone un po’ equivoche o più frequentate di Roma (v.112..)
La tattilità è suggerita
· da quelle tavolette e astucci appesi al braccio sinistro dei ragazzini (v.74)
· dagli otto assi portati ogni quindici del mese al maestro (v.75)
· da quei parentes /…honestos / fascibus et sellis (vv.95-97)
· da quella bisaccia e quel cavaliere che insieme sfregano i fianchi e il dorso del mulo (v.106)
· da quell’ onus molestum rappresentato dal fasto di antenati illustri (v.99)
· da quella gravis ambitio che ti obbliga a ciò che non vuoi o non puoi (v.129)
L’olfatto è risvegliato
· dalla verdura del mercato (v.112)
· dall’olio d’oliva con cui si unge il Poeta e da quello di lucerna del sudicio Natta (vv.123-124)
· e, metaforicamente, da quella puzza sotto il naso che accompagna tutti gli snob di turno
Il gusto proviene, antico e intatto,
· da quel porri et ciceris…laganique catinum (vv.115)
Anche gli spazi variano rapidamente: dalla casa di Mecenate, alla Grecia, all’angusta Venosa con la sua angusta scuola, alla Roma ufficiale, alla Roma intrigante e malfamata, alla lontana Taranto, alla casa del Poeta (parva sed apta mihi).
La stessa cosa si può dire dei tempi, sapientemente e continuamente alternati.
Perciò possiamo incontrare dei presenti momentanei, come nunc ad me redeo (v.45), nunc laus illi debetur (v.87).
O dei presenti durativi, come rodunt omnes (v.46), magnum hoc ego duco (v.62), commodius vivo (v.110).
O dei presenti acronici, come dissimile hoc illi est (v.49), haec est vita solutorum misera ambitione (v.128-129).
O dei presenti storici, come quod eram narro (v.60), come respondes, abeo, revocas, iubes (vv.60-61).
O ancora dei presenti iterativi, come ut tuus est mos (v.60), turpi secernis honestum (v.63), longe mea discrepat istis et vox et ratio (v.93), incedo solus, percontor, pererro, assisto, refero (vv.112…).
Non mancano gli imperfetti di consuetudine, come pudor prohibebat plura profari (v.57), ibant (v.75), aderat (v.82).
A perfetti logici come placui (v.63), causa fuit (v.71), servavit (v.83), si alternano perfetti storici, come dixere (v.55), veni coram (v.56), noluit (v.72), nec timuit (v.85), o l’efficace perfetto-aoristo ausus est (v.76): osò prendere l’audace decisione.
La dinamica dei tempi è ulteriormente dilatata dai futuri: obiciet (vv.69 e 107)), defendam (v.92); e dal conclusivo victurum (v.130).
Ancora possiamo notare la presenza di congiuntivi potenziali, come invideat (v.50), possim (v.53); di congiuntivi dell’irrealtà come crederet (v.80), questus essem (v.87), nollem (v.97), quaerenda foret (v.100); e di un congiuntivo esortativo, come nil me paeniteat (v.89).
Anche i piani scenici, e quindi la prospettiva, variano.
Da una parte la vita reale, aberrante dei negotia, dall’altra la vita ideale dell’otium, il cui prezzo però è la solitudine, la discrepanza, la dissonanza, la stonatura.
Composito risulta anche l’uso del registro comico che spazia dalla parodia visiva (la barbina figura del Poeta davanti a Mecenate; la pomposa marcia alla scuola di Flavio dei boriosi figli dei boriosi centurioni; le inevitabili, deleterie conseguenze di un ipotetico salto sociale da parte del Poeta così in contrasto con la sua donchisciottesca libertà di andarsene in giro su un mulo spelacchiato; la sfilata per la via Tiburtina del pretore sontuosamente scortato dai servi che gli portano dietro il vaso da notte e il cestello dei vini) al comico significativo, quello cioè che ha per bersaglio la smania di apparire (come quella del pretore Tillio o dei superattrezzati figli dei centurioni di Venosa).
Insieme ad un registro comico più pertinente alla diatriba (soprattutto vv.65-88), non mancano le frecciate proprie della giambica (contro i “Telchini” invidiosi, contro quello spilorcio di Tillio, contro la sfrontata usura di Novio, contro tutti quegli “isti” così diversi dalla mentalità del Poeta, o habitués del Campo Marzio).
Così anche il riso che accompagna il sermo non ha un unico suono, ma ora è scanzonato, ora bonario, ora tagliente, ora divertito, ora corrosivo.
Anche ad una rapida indagine non può sfuggire la commistione di registri linguistici diversi. Con uno stile elegante, che però non è mai aulico, s’intreccia infatti un sermo merus, che però non è mai sciatto o volgare.
Allo stesso modo il confine tra poesia e prosa è travalicato dal frequente ricorso all’enjambement (vv.51-52; 72-73; 79-80; 81-82; 83-84…).
Talvolta il lessico è colloquiale (calones, caballi, petorrita, ad me redeo…) e prevale la paratassi (vv.60…;100…112…). Tal altra stringato (domesticus otior) e prevale l’ipotassi (vv.89…).
Non mancano negligenze prosastiche (v.51), come pure calchi greci (oenophorum).
Per concludere, mi sembra che potremmo affermare che il carattere composito della satira, fin qui evidenziato, risponda ad un sentimento profondo del Poeta: il tentativo di ricomporre attraverso le schegge del proprio passato un nuovo io, di ritrovare quella fiducia e quello slancio che avevano costituito l’eredità più tangibile del padre, e, con un respiro più ampio, crollata ormai l’utopia della spada, ricostruire una nuova coscienza civica a partire dalla ricostruzione della propria coscienza morale.