Orazio e la sua autocertificazione d’identità

 

Quelli  è Omero poeta sovrano; 

l’altro è Orazio satiro che vène

 

Orazio che, insieme ai grandi dell’antichità, a Virgilio stesso, Museo, Orfeo, a tutti i sommi pensatori, si trova nel Limbo fra coloro che “non peccaro” ma “non ebber battesmo” perché “furon dinanzi al cristianesmo”.

 

E’ la carta d’identità vidimata da Dante nel IV canto dell’Inferno (vv.88-89) e quello satirico è il volto con cui dal Medioevo è stato soprattutto conosciuto e ammirato Orazio.

 

Volto parziale? Piuttosto un’immagine in bianco e nero, senz’altro fedele, ma cui, più modernamente e compiutamente, come dimostreremo, è possibile aggiungere il colore di altre impressioni.

 

Ciò che mi ripropongo e vi propongo, nel corso di questi quattro incontri, è di lasciarvi il “negativo” di un’immagine oraziana, affinché voi possiate poi “svilupparlo” alla luce delle normali conoscenze curricolari  che avete o che acquisirete ulteriormente.

 

In base al proposito generale del corso, la “messa a fuoco” di tutto quanto verremo osservando comporterà la prospettiva del mondo greco.

In base alla vostra specifica richiesta, un’attenzione particolare, in questa seconda parte del corso, sarà dedicata all’esercizio della traduzione.

 

Per recuperare le linee fondamentali della biografia di Orazio, e quindi della sua fisionomia, ho pensato di partire da un’autocertificazione d’identità lasciataci dal Poeta stesso in Sat. I, 6, 45-131.

 

Come sappiamo, due sono i libri delle Saturae o Sermones, per un totale di 18 componimenti in esametri (10+8), pubblicati rispettivamente nel 35 e nel 30 a.C.

 

La prima parte di quella che ci interessa comprende una satira contro la stortura, comune ad aristocratici e plebei, di valutare le persone dai loro natali e di esigere come credenziale della loro rettitudine e come garanzia di virtù politica solo i nomi degli antenati. Non così Mecenate, sebbene di antichissimo lignaggio, che non storce il naso davanti al figlio di un liberto, qual è il Poeta.

 

Radiografando ora il testo oraziano che ci siamo riproposti, possiamo sezionarlo in links, così da evincerne immediatamente, anche dal punto di vista contenutistico, il carattere composito, che è appunto uno degli aspetti fondamentali della satira.

 

nunc ad me redeo libertino patre natum,
quem rodunt omnes libertino patre natum,
nunc, quia sim tibi, Maecenas, convictor, at olim,
quod mihi pareret legio Romana tribuno.
dissimile hoc illi est, quia non, ut forsit honorem
iure mihi invideat quivis, ita te quoque amicum,
praesertim cautum dignos adsumere, prava
ambitione procul. felicem dicere non hoc
me possim, casu quod te sortitus amicum;
nulla etenim mihi te fors obtulit: optimus olim
Vergilius, post hunc Varius dixere, quid essem.
ut veni coram, singultim pauca locutus -
infans namque pudor prohibebat plura profari -
non ego me claro natum patre, non ego circum
me Satureiano vectari rura caballo,
sed quod eram narro. respondes, ut tuus est mos,
pauca; abeo, et revocas nono post mense iubesque
esse in amicorum numero. magnum hoc ego duco,
quod placui tibi, qui turpi secernis honestum
non patre praeclaro, sed vita et pectore puro.
atqui si vitiis mediocribus ac mea paucis
mendosa est natura, alioqui recta, velut si
egregio inspersos reprendas corpore naevos,
si neque avaritiam neque sordes nec mala lustra
obiciet vere quisquam mihi, purus et insons,
ut me collaudem, si et vivo carus amicis,
causa fuit pater his; qui macro pauper agello
noluit in Flavi ludum me mittere, magni
quo pueri magnis e centurionibus orti
laevo suspensi loculos tabulamque lacerto
ibant octonos referentes idibus aeris,
sed puerum est ausus Romam portare docendum
artis quas doceat quivis eques atque senator
semet prognatos. vestem servosque sequentis,
in magno ut populo, siqui vidisset, avita
ex re praeberi sumptus mihi crederet illos.
ipse mihi custos incorruptissimus omnis
circum doctores aderat. quid multa? pudicum,
qui primus virtutis honos, servavit ab omni
non solum facto, verum opprobrio quoque turpi
nec timuit, sibi ne vitio quis verteret, olim
si praeco parvas aut, ut fuit ipse, coactor
mercedes sequerer; neque ego essem questus. at hoc nunc
laus illi debetur et a me gratia maior.
nil me paeniteat sanum patris huius, eoque
non, ut magna dolo factum negat esse suo pars,
quod non ingenuos habeat clarosque parentes,
sic me defendam. longe mea discrepat istis
et vox et ratio. nam si natura iuberet
a certis annis aevum remeare peractum
atque alios legere, ad fastum quoscumque parentes
optaret sibi quisque, meis contentus honestos
fascibus et sellis nollem mihi sumere, demens
iudicio volgi, sanus fortasse tuo, quod
nollem onus haud umquam solitus portare molestum.
nam mihi continuo maior quaerenda foret res
atque salutandi plures, ducendus et unus
et comes alter, uti ne solus rusve peregre<ve>
exirem, plures calones atque caballi
pascendi, ducenda petorrita. nunc mihi curto
ire licet mulo vel si libet usque Tarentum,
mantica cui lumbos onere ulceret atque eques armos.
obiciet nemo sordis mihi, quas tibi, Tilli,
cum Tiburte via praetorem quinque secuntur
te pueri, lasanum portantes oenophorumque.
hoc ego commodius quam tu, praeclare senator,
milibus atque aliis vivo. quacumque libido est,
incedo solus, percontor quanti holus ac far,
fallacem circum vespertinumque pererro
saepe forum, adsisto divinis, inde domum me
ad porri et ciceris refero laganique catinum;
cena ministratur pueris tribus et lapis albus
pocula cum cyatho duo sustinet, adstat echinus
vilis, cum patera guttus, Campana supellex.
deinde eo dormitum, non sollicitus, mihi quod cras
surgendum sit mane, obeundus Marsya, qui se
voltum ferre negat Noviorum posse minoris.
ad quartam iaceo; post hanc vagor aut ego lecto
aut scripto quod me tacitum iuvet unguor olivo,
non quo fraudatis inmundus Natta lucernis.
ast ubi me fessum sol acrior ire lavatum
admonuit, fugio campum lusumque trigonem.
pransus non avide, quantum interpellet inani
ventre diem durare, domesticus otior. haec est
vita solutorum misera ambitione gravique;
his me consolor victurum suavius ac si
quaestor avus pater atque meus patruusque fuisset.

 

Ora torno a me, il figlio di un liberto,
di cui tutti sparlano proprio perché figlio di un liberto,
ora perché, a dir loro, sono un tuo intimo amico, Mecenate, ma prima
perché comandavo come tribuno una legione romana.
Ma si tratta di due cose ben diverse, perché, se quella carriera
uno potrebbe giustamente invidiarmela, non potrebbe fare altrettanto dell’amicizia con te,
che sei particolarmente prudente nel circondarti di persone meritevoli,
aliene da bieco arrivismo. Fortunato per questo
non mi riterrei, se fosse stato il caso ad avermi reso tuo amico;
ma non c’è stato alcunché di fortuito nel nostro incontro: prima il carissimo
Virgilio, e poi Vario ti parlarono delle mie qualità.
Quando giunsi al tuo cospetto, riuscii a spiccicare, balbettando, solo poche parole
(una sorta di ammirato rispetto mi impediva di dire di più),
non che io sono figlio di un padre famoso, non che io in giro
per i mie possedimenti me ne vado su un cavallo di razza,
ma solo quello che ero ti racconto. Mi rispondi, come tuo solito,
con poche parole; vado via e mi richiami dopo otto mesi e mi inviti
a far parte del tuo circolo. Ed io sono molto onorato di questo,
del fatto che tu mi hai apprezzato, tu che sai distinguere un uomo onesto da uno corrotto
non in base alla sua estrazione sociale, ma per la purezza del suo cuore e delle sue azioni.
Eppure, se di pochi e trascurabili difetti
è macchiata la mia coscienza, ma per il resto è retta, come se
su un bel corpo ti mettessi a criticare qualche  neo sparso qua e là,
se di avidità, spilorceria e vita dissoluta
nessuno potrà accusarmi senza mentire, ma se puro e onesto,
tanto per tirarmela un po’, io vivo e caro agli amici,
di tutto questo il merito va a  mio padre che, pur possedendo solo un fazzoletto di terra,
non si accontentò di mandarmi alla scuola di Flavio, dove i superbi
figli dei superbi centurioni,
con le cartelle e le tavolette penzolanti dalla spalla sinistra,
andavano pagando ogni 15 del mese otto monete di rame per la retta;
ma ebbe invece il coraggio di portarmi ancora bambino a Roma a studiare
le stesse discipline che ogni cavaliere e ogni senatore fa insegnare
ai suoi stessi rampolli. Il mio abbigliamento e i servi al mio seguito,
come è d’obbligo in una grande città, se qualcuno avesse osservato, dal patrimonio
degli avi avrebbe potuto credere che i mezzi per quelle spese mi derivassero.
Custode esemplare, mi accompagnava di persona dovunque
da un insegnante all’altro. Che dire di più? L’onestà,
cardine di ogni virtù, ha salvaguardato in me, preservandomi non solo da ogni
azione, ma anche da ogni vergognoso pensiero,
e non temette che qualcuno potesse incolparlo, se un giorno
facendo il banditore o l’esattore alle aste, come lui, per un modesto
salario avessi dovuto lavorare; né io me ne sarei lamentato. Ma anzi per questo
gli si deve ammirazione e da parte mia una gratitudine ancora più profonda.
Non succeda mai, finché resterò lucido, che io abbia a lamentarmi di un padre così, e perciò,
come fanno molti che dicono che non è colpa loro
se non hanno genitori liberi e illustri,
io non accamperò questo tipo di scuse. C’è un abisso tra il modo di parlare e di pensare
di gente simile ed il mio; infatti se anche la natura permettesse
da un dato momento di ricominciare daccapo la vita
e di scegliersi altri genitori,  secondo il proprio orgoglio, di quel genere che
ciascuno si augurerebbe, soddisfatto dei miei non vorrei
sostituirli con altri, per quanto rispettabili per  onori e cariche; pazzo
secondo l’opinione della gente, assennato forse a tuo giudizio, perché
non vorrei sobbarcarmi, non essendone abituato, a un peso gravoso.
Infatti mi vedrei costretto a procurarmi subito un patrimonio più consistente,
a salutare più gente; dovrei portarmi dietro questo
o quel compagno, per non poter più andar da solo per i miei poderi
o in viaggio; dovrei mantenere un maggior numero di servi
e di cavalli; dovrei comprarmi delle carrozze. Ora come ora, invece, posso
andarmene, se mi va, anche fino a Taranto, in groppa ad un mulo
a cui il peso della bisaccia e del cavaliere sfregano i fianchi e le spalle;
nessuno mi accuserà di spilorceria, come fanno con te, o Tillio,
quando per la via Tiburtina ti vengono dietro, a un pretore!, cinque
schiavetti, con il vaso da notte e un fiasco di vino.
Per questo sono io a vivere meglio di te,  magnifico senatore,
e per mille altre ragioni. Dove mi pare e piace,
io ci vado da solo, chiedo quanto costa la verdura e la farina,
gironzolo per il Circo, patria degli imbroglioni, e sul far della sera
spesso per il Foro; lì mi piazzo davanti agli indovini. Più tardi me ne torno
a casa , al mio piatto di porri, ceci e frittelle.
La cena mi è imbandita da tre servetti, e su una mensola bianca
stanno appoggiate due coppe con un mestolo; vicino c’è una saliera
economica, un’oliera con il suo piattino, il tutto di manifattura campana.
Poi vado a dormire, senza la preoccupazione di dovermi l’indomani
alzare presto, di dovermi recare presso la statua di Marsia, che
dice di non poter più sopportare la faccia del più giovane dei Novi.
Me ne sto a letto fino alle dieci; bighellono un po’ per casa, o mi metto a leggere
o a scrivere in silenzio ciò che più mi piace; poi mi ungo d’olio
non del tipo che usa quel sozzone di Natta rubandolo dalle lucerne.
Poi, quando mi sento stanco e il sole diventato cocente mi
ad andarmi a lavare, lascio il Campo Marzio e il gioco della palla.
Dopo un pranzo frugale, giusto quanto impedisce di passar la giornata
a stomaco vuoto, mi riposo in casa dedicandomi ai miei studi. Questa è la vita
di chi è libero dagli oneri dell’ambizione che preclude ogni felicità.
E in tutto ciò trovo la consolante certezza di poter vivere più sereno, che
avessi avuto nonno, padre e zio questori.
 

traduzione di Cecilia Cassinari, Emilia Flocchini, Luca Fossati, Federico Longobardi, Chiara Momo, Roberta Rossi, Davide Vampa

 

 

 

Il padre

 

Libertinus (v.45): dunque un ex schiavo affrancato. Da lui Orazio nacque l’8 dicembre del 65 a.C.

 

Macro pauper agello (v.71): possedeva un fazzoletto di terra in quel di Venosa, antica città dell’Apulia ai confini con la Lucania. Orazio infatti dirà di se stesso “Lucanus an Apulus anceps” (Sat. II,1,34).

 

Coactor (v.86): si guadagnava da vivere come esattore alle aste, rappresentandovi cioè sia il venditore che il compratore e ricavandone una percentuale (una sorta di moderno intermediario immobiliare).

 

Noluit in Flavi ludum me mittere…

sed puerum est ausus Romam portare docendum

artis quas doceat quivis eques atque senator

semet prognatos… (vv.72…76-78): non volle mandare Orazio alla locale scuola di Flavio, ma ancora bambino ebbe l’ardire di portarlo a Roma a studiare, avviandolo a quegli studi che cavalieri e senatori tradizionalmente riservavano ai propri rampolli.

 

Custos incorruptissimus (v.81): custode infaticabile e vigile accompagnava di persona il figlio dai diversi insegnanti.

 

Pudicum/qui primus virtutis honos, servavit ab omni

non solum facto, verum opprobrio quoque turpi  (vv.82-84): inculcò al figlio il senso del pudore, che è il fondamento di ogni virtù, perché tiene lontani non solo da ogni azione, ma anche da ogni pensiero vergognoso.

 

Laus illi debetur et a me gratia maior (v.88): lode e gratitudine eterna sono dunque i veri meriti del padre, la sua autentica nobiltà.

 

Mecenate

 

Vergilius, post hunc Varius dixere quid essem (v.55): i poeti amici Virgilio e Lucio Vario presentarono a Mecenate Orazio nel 38 a.C., quando noti erano già i primi Epodi e le prime Saturae. (Alla composizione degli  Epodi, di matrice archilochea, che saranno editi nel 30, Orazio si accinse fin dal 41. La raccolta comprende 17 testi di diversa estensione e, come dice il titolo, con un verso - ritornello più breve rispondente ad uno più lungo).

 

Praesertim cautum dignos assumere, prava

ambitione procul (vv.51-52): e Mecenate era un tipo particolarmente prudente, che amava circondarsi di persone d’ingegno, ma non ambiziose.

 

…Respondes, ut tuus est mos,/ pauca (vv.60-61): di poche parole.

 

Iubesque/ esse in amicorum nmero (vv.61-62): Gaio Cilnio Mecenate, appartenente ad antica nobiltà di origine etrusca, raffinato e intelligente, anche se non volle mai ufficialmente ricoprire cariche pubbliche, svolse un’azione determinante nel consolidamento del principato augusteo, soprattutto attraverso il  suo circolo cui aderirono i maggiori letterati dell’epoca.

Evidentemente abituato al comando, “ingiunse” anche al Poeta di farne parte.

 

Tibi …convictor (v.47): quella tra Mecenate ed Orazio fu più di una grande amicizia, fu una profonda comunione di spiriti, tale da suscitare anche l’invidia di molti (vv.46 e 50).

 A Mecenate Orazio dedicò la maggior parte delle sue opere, il primo libro delle Satire, i primi tre delle Odi, il primo delle Epistole.

 Ad Orazio Mecenate donò nel 34 una villa a Mandela, nella campagna sabina, a circa 40 Km. da Roma, ben comprendendo il disagio dell’amico per la vita cittadina, con i suoi formalismi, i suoi intrighi, il suo bailamme. E ne rispettò sempre lo spirito di libertà e di indipendenza, anche quando rifiutò il prestigioso incarico di scriba ab epistulis offertogli da Augusto.

A Mecenate Orazio aveva giurato (Carm.II,17) di non poter sopravvivere alla sua morte: morì infatti due mesi dopo l’amico, il 27 novembre dell’8 a.C.

 

…qui turpi secernis honestum,

non patre praeclaro, sed vita et pectore puro (vv.63-64): Mecenate era rigoroso nel giudicare e distinguere le persone meritevoli di stima, ma non in base alla loro estrazione sociale, bensì al loro comportamento morale.

 

SE STESSO

 

Le vicende più significative

 

·        La nascita da umili origini (v.45)

·        Gli  eccellenti studi a Roma (vv. 76-78)

·        Il perfezionamento in  Grecia, dove nel 42, schieratosi a fianco di Bruto, ne seguì le sorti a Filippi come tribunus militum (vv.47-48)

·        Rientrato in Italia dopo l’amnistia, perso il padre e confiscata la piccola proprietà, si guadagnò da vivere come scriba quaestorius (vv.85-87). In Ep.II,2,50-51 dice ancora di essersi allora sentito “decisis humilem pinnis”, ma che fu proprio  la “paupertas audax” a spingerlo a poetare.

·        Presentato nel 38 a Mecenate, entrò a far parte del suo circolo e ne divenne intimo amico (vv.47, 55, 61)

 

Il proprio ethos

 

·        È un isolato, oggetto della maldicenza generale:

      per la sua estrazione (v.46)

      per l’amicizia privilegiata con Mecenate (v.47)

      per i suoi trascorsi repubblicani (v.48)

      perché non ambizioso (vv.98-99)

·        E’ un po’ imbranato (vv.56-57)

·        Caro agli amici, grato al padre (vv. 70, 88)

·        Pudicus (v.82-83), educato al senso del pudor (v.57). Il che concettualmente equivale all’aùscov greco, cioè a quel senso di sé e degli altri che implica rispetto, ritegno, sincerità; altrimenti ai\scuénw, rovino qualcosa di bello, o ai\scuénomai, avverto la distanza, l’incoerenza tra il me ideale e il me reale.

A questo fondamento dell’educazione paterna (v.83) Orazio deve la sua recta natura (v.66) che, nonostante i suoi pochi e non gravi difetti (v.65), lo rende incapace di mentire (vv.58-60), incapace di fare e di pensare del male (vv.83-84, 69, 64), ma anche fiero, indipendente, libero.

·        Fiero delle sue origini, del padre, del suo talento, dei suoi studi, del suo trascorso repubblicano, di essere potuto piacere ad uno come Mecenate, di quello che è.

·        Indipendente: dal padre ha imparato a non vergognarsi di doversi guadagnare di che vivere (vv.85-87), perciò non ha esitato a rimboccarsi le maniche dopo il disastroso rientro in patria dalla Grecia; ma ha evidentemente imparato anche il prezzo della propria libertà, perciò scriba quaestorius sì, ma non scriba Augusti.

·        Amante della propria libertà: di andare da solo dove gli pare e piace (vv.105; 111-112), di fare quello che gli piace e quando gli aggrada (vv.111 e segg. 123-124)

·        E’ sostanzialmente un diverso (vv.92-93): nel modo di pensare e di parlare dalla maggior parte della gente, arrivista e sempre scontenta, perché schiava  di quella “misera ambitio gravisque” (v.129); nel modo di vivere  dalla norma, avendo egli saputo fare della sua ars un otium e non un negotium

 

La propria filosofia

 

Come anceps è la matrice etnica di Orazio, altrettanto , nonostante l’autoproclamazione di “ Epicuri de grege porcus” (Ep. I,4,16), si può definire la sua filosofia, in bilico tra epicureismo e stoicismo ed equilibrata da un senso di misura provinciale

 

 

Elementi epicurei

·        His me consolor victurum suavius  (v.130): più felicemente, per non accettare mai un peso insolito e gravoso (v.99); per l’essere libero dalla rovinosa ambizione (v.129); per l’evidente vita appartata (vv.112, 124, 126, e 128 “domesticus otior”); per il senso dell’amicizia; per l’edonismo conviviale (v.47) e delle piccole cose ma necessarie (vv.115…) Da qui l’atarassia.

 

Elementi stoici

·        Hoc ego commodius vivo (v.111): meglio, per la virtus intrinseca (vv.64 e 69 “vita et pectore puro” “purus et insons”); per l’autarkeia che consente di potere bastare a se stesso, di potersi autodeterminare (vv. 87, 102, 105, 111); per la mancanza di preoccupazioni (v.119). Da qui l’apatheia.

 

Elementi derivanti da una congenito senso di misura provinciale

 

·        Contentus meis e parentes (vv.95-97) e domus (vv.114…)

·        Pransus non avide (v.127) e vilis…supellex (v.118)

·        Sordes (v.107): vox media:  parsimonia, ma avarizia/spilorceria in senso negativo, come si evince chiaramente dal contesto.